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Monday, December 30, 2024
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Biden abbraccia Netanyahu nel paese degli “almeno”

“Almeno” è oggi la parola che meglio descrive l’orrore che percorre quella che molti insistono a chiamare “Terra Santa”. Santa, perché tale considerata da tre grandi religioni che – da Dio rivelate tramite profeti e messia – vantano, tra le molte cose che le accomunano, un comandamento che perentoriamente dice: “non uccidere”. “Almeno” 1400 sono i civili che, lo scorso 7 ottobre, i macellai di Hamas hanno nel nome Dio massacrato, “in quanto ebrei”, nei kibbutz più prossimi alla striscia di Gaza, o ovunque li incontrassero, nella sfrenata allegria d’un rave party, nell’intimità d’un tinello all’ora di colazione, o nella stanza da letto d’un bambino. Ed almeno 500 sono gli esseri umani – donne, bambini, vecchi e ammalati – che, nella striscia di Gaza, sono morti ieri l’altro tra le macerie dell’ospedale Ahli Arab, distrutto da bombe che, per quanto ancora pirandellianamente in cerca d’autore, di certo sono cadute, anch’esse, nel nome di quel Dio “rivelato” che, in ciascuna delle sue tre versioni, aveva comandato, e comanda, di non uccidere.

Uccisi nel nome di un Dio che comanda di “non uccidere”

Quando si tratta di morti, tutto, nel Medio Oriente, è “almeno”. Perché sempre aperti sono, in Terra Santa, i conti dell’orrore. E perché ogni cifra non è, in effetti, che un preludio, l’annuncio macabro d’un “peggio” che ancora deve venire, ma che già si può scorgere, inequivocabile, tra sangue e calcinacci. Tutto, in materia d’orrore, è possibile in questa parte di mondo. E tutto – vero o non vero – appare tragicamente verosimile. È possibile (e verosimile) che, come sostiene il ministro della Salute palestinese, l’Ahli Arab sia stato distrutto da missili lanciati da Israele in preparazione d’una operazione militare tesa (parole del primo ministro israeliano Netanyahu) a “distruggere Hamas una volta per tutte”. È possibile (e verosimile) che, come al contrario sostengono le autorità militari israeliane ed i servizi d’intelligenza Usa, il massacro sia il frutto d’un errore balistico degli artiglieri della Jihad Islamica Palestinese, un altro gruppo armato fondamentalista attivo a Gaza. Né manca – ipotesi anch’essa possibile e verosimile – chi sostiene che, non di vendetta o di errore si sia trattato, bensì d’un consapevole auto-attentato, una sorta d’incendio del Reichstag destinato a spostare in direzione del nemico il pendolo dell’indignazione.

Tutto è possibile e tutto è verosimile quando, in Terra Santa, si tratta di alimentare, nel nome di Dio, le fiamme dell’odio. Tutto è possibile e, grazie all’odio, nulla, di norma, conta meno della verità. Una sola cosa, infatti, è oggi più che sicura o, per l’appunto, più vera. Quali che siano i fatti accertati – se mai i fatti verranno accertati – le mani sporche di sangue resteranno, sempre e comunque, quelle dell’altro. E di un altro da annientare.

Perché Joe Biden è andato nella terra degli “almeno”?

È in questa terra dove l’ “almeno” è la misura della morte, dove tutto è verosimile e dove l’altro è una disumana entità da annientare, che, ieri – con scelta da molti definita “audace” o “rischiosa” e, di certo, in aperto contrasto con l’immagine di vecchiardo fragile e svampito che di lui dipingono non solo i suoi dichiarati nemici – è calato il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden. Per quali ragioni e con quali obiettivi?

Prima di partire, “Sleepy Joe” – Joe l’addormentato come Donald Trump, il suo più che probabile rivale nella prossima corsa presidenziale, ama definirlo – aveva pronunciato parole che anche molti dei suoi abituali detrattori (detrattori seri, non professionisti dell’insulto) avevano riconosciuto essere, nel loro equilibrio, degne del più brillante degli statisti. “President Biden’s Finest Hours”, il miglior momento del Presidente Biden, titolava ieri, sul New York Times, un op-ed a firma Bret Stephens, columnist conservatore di norma assai severo con l’attuale inquilino di 1600 Pennsylvania Avenue. Come prevedibile e giusto, Biden aveva, annunciando il suo viaggio-lampo, definito “an act of pure evil”, un atto di pura malvagità, il raid “terrorista” (termine, questo, più volte ripetuto) di Hamas. Ed aveva altrettanto prevedibilmente sottolineato il diritto israeliano ad una adeguata risposta a tanto orrore. “Su un punto non v’è dubbio alcuno – aveva aggiunto – gli Stati Uniti sono dalla parte di Israele. E faranno in modo, come sempre hanno fatto, che lo Stato democratico di Israele sia in grado di difendere se stesso da chiunque lo voglia distruggere”. Oggi, domani e nel più lontano futuro.

Una strada verso “la creazione di una Stato palestinese”

A queste parole, del tutto scontate, Joe Biden ne aveva tuttavia aggiunte altre che non erano obbligatoriamente parte d’uno storico copione. Parole – giusto per intenderci – che se pronunciate in una qualunque delle vocianti esibizioni circensi che sono oggi i talk-show politici delle televisioni italiche, avrebbero di certo provocato le più isteriche reazioni di quanti, in questi “sgarbizzati” dibattiti, sono gli auto-proclamati “difensori dell’Occidente”. Aveva chiaramente sottolineato, Sleepy Joe, come un grave errore, da parte di Israele, sarebbe stato rispondere ad Hamas “occupando la striscia di Gaza” o, comunque, con operazioni militari troppo umanamente costose per la popolazione civile. E soprattutto aveva ricordato, il presidente Usa, come un’indispensabile componente di questa risposta – giusta, necessaria ed inevitabilmente violenta – dovesse essere la “apertura di una strada in direzione della creazione di uno Stato palestinese”. Più in concreto: Joe Biden era – con sommessa voce, ma con più che sufficiente chiarezza – tornato a puntare il dito verso quella che, per quanto dimenticata e vilipesa, resta la causa di fondo, originaria, dell’orrore: la realtà, la storica, disperata ingiustizia d’un popolo, il palestinese, privato della sua terra e della sua dignità.

Con queste premesse Joe Biden era ieri partito per Israele. E – ben oltre il gesto di solidarietà con un popolo ferito – anche con un chiaro e più ampio obiettivo: quello di riaprire, a 360 gradi, il gioco della diplomazia in due convergenti direzioni. La prima e più immediata: quella del non allargamento del conflitto. La seconda – la più imprevista delle due e, se sincera, più importante – a molto più lunga ed utopica scadenza. Tanto lunga ed utopica che i più scettici, più realisti o, a seconda dei punti di vista, più radicali, hanno finito per considerarla un semplice specchietto per le allodole, un miraggio la cui futuristica luce ad altro non serve che a coprire le tenebre d’un presente destinato a perpetuarsi sospinto dalla propria implacabile e crudele logica interna. Almeno a parole, Joe Biden apparentemente s’è proposto, nel mezzo della più violenta delle crisi, di rimettere a fuoco l’unico obiettivo che può ridare un senso strategico al lavoro della diplomazia. Per l’appunto: la famosa, conclamata e sempre tradita “soluzione dei due Stati” che, esattamente mezzo secolo fa, ad Oslo, aveva – per un breve lasso di tempo – fatto intravvedere una luce in fondo al tunnel della violenza.

Riscaldare a 360 gradi i motori della diplomazia

Non per caso, prima di Biden, in Medio Oriente s’era recato il Segretario di Stato Antony Blinken, con l’incarico di aprire, con questo fine, ogni possibile canale diplomatico. In modo ufficiale con Mahmoud Abbas e le autorità palestinesi, con Egitto, Giordania, Arabia Saudita e Libano. E, in modo mediato, attraverso il Qatar, con Siria e, ancor più, con l’Iran, dal quale in gran parte dipendono i comportamenti, non solo di Hamas, ma anche degli Hezbollah libanesi e delle molte milizie sciite in grado di aprire, al nord, un nuovo fronte di guerra contro Israele. Per tutti un invito: non soffiate sul fuoco d’una guerra che a nessuno conviene, perché nessuno può, non solo vincere, ma controllare.

Con questo in valigia Joe Biden è partito mercoledì mattina. E con che cosa è tornato? Con poche cose – un leggerissimo bagaglio a mano, verrebbe da dire – ma comunque meglio di niente. Sostanzialmente con due misurabili risultati: la molto temporanea e fragile sospensione d’un massiccio attacco israeliano contro Gaza e la concessione – da Israele e dall’Egitto (che, comunque, si rifiuta di ricevere qualsivoglia profugo palestinese) – dell’altrettanto temporanea apertura di un corridoio umanitario per far passare aiuti umanitari (gli Usa hanno per questo stanziato 100 milioni di dollari) diretti alla popolazione civile della striscia. Causa la strage dell’ospedale di Ahli Arab – strage che viene, dagli interessati, attribuita ad Israele – impossibile è stato incontrare Mahmoud Abbas e, come originalmente programmato, avere diretti colloqui con Abdullah, re di Giordania, e con l’egiziano Abdel Fattah el-Sisi (col quale Biden è comunque riuscito a comunicare per telefono, strappando, a fatica, la concessione del corridoio umanitario di cui sopra).

Quello che tuttavia, al di là di queste precarie minuzie, sicuramente resta oggi dell’audace viaggio del per l’occasione, per nulla dormiente Joe Biden, è in realtà l’abbraccio – un abbraccio di fatto incondizionato, al di là degli inviti alla moderazione – con Benjamin Netanyahu. Ovvero: con l’uomo che per 13 degli ultimi 14 anni ha ricoperto – tra scandali di corruzione e, più recentemente, tentativi di cancellare l’indipendenza del potere giudiziario – la carica di Primo Ministro d’Israele. Ed anche il dirigente politico la cui storia personale meglio riflette, in ogni più piccolo dettaglio, una assoluta, determinata opposizione alla creazione d’uno Stato palestinese. Netanyahu ha, in questi anni, governato in sempre più stretta alleanza con le forze più religiosamente oltranziste, fondamentaliste e, in ultima analisi, più antidemocratiche d’Israele. E proprio per questo anche in sempre più stretta – seppur consumata in feroce ed armata contrapposizione tesa alla reciproca distruzione – alleanza con Hamas.

Netanyahu, ovvero: la negazione della soluzione dei “due Stati”

È la Storia a rivelarlo con assoluto nitore, pur nelle torbide acque degli avvenimenti degli ultimi 17 anni. Quando, nel 2009, Netanyahu tornò al potere (già era stato primo ministro tra il 1996 ed il 1999), la frattura tra le forze del fondamentalismo islamico e quelle laiche e democratiche di al Fatah era vecchia di un paio d’anni. Nel gennaio del 2006, Hamas, votata da una popolazione angariata e disperata, aveva vinto le elezioni nella striscia di Gaza. E nel giugno dell’anno successivo ne aveva ottenuto, dopo violenti scontri con al Fatah, il completo (nonché permanente, visto che da allora non vi sono più state elezioni) controllo politico-militare. E proprio questa sempre è stata la politica di Netanyahu e dei suoi governi. Combattere, a colpi di nuovi insediamenti e di furti di terra, l’Autorità palestinese, nata dagli accordi di Oslo, che ancora governava il West Bank, distruggere le basi territoriali di un possibile Stato palestinese. E, nel contempo, favorire la tirannia di Hamas su una striscia di Gaza sempre più simile ad una squallida e disperata prigione a cielo aperto.

Palestinese (e israeliani) nel tritacarne di una tragica alleanza

A spiegare le ragioni di questa alleanza “de facto” ha provveduto, con indiscussa chiarezza, lo stesso Netanyahu allorquando, nel 2019, gli toccato illustrare ai suoi colleghi del Likud, il partito della destra israeliana, per quale ragione dovessero votare a favore dell’aperura degli aiuti del Qatar – a discapito della Autorità Palestinese – a favore di Gaza (aiuti poi regolarmente finiti in forniture d’armi per le milizie di Hamas e non in opere di qualsivoglia valore sociale). I danari qatariani per Hamas, aveva detto (vedi questo articolo del Jerusalem Post) servono a mantenere divise le forze nemiche. “Chiunque è contrario alla creazione d’uno Stato palestinese – aveva detto – deve votare a favore di questi finanziamenti”. Con l’assenso del governo israeliano, i soldi del Qatar sono arrivati nella Gaza da Israele assediata. E da Gaza sono usciti, cinque anni dopo, grazie anche al fallimento, per responsabilità di Netanyahu, dell’un tempo superbo lavoro preventivo dell’intelligenza israeliana, nella forma di miliziani islamici intenti a massacrare ebrei – “almeno” 1400, bambini inclusi – nel nome di un Dio il cui comandamento è: “non uccidere”.

E adesso, che accadrà? Quali saranno, a conti fatti, le pratiche conseguenze dell’audace (o “azzardato”, come non pochi l’hanno definito) viaggio di “Sleepy” Joe Biden in Terra Santa? Si riapriranno o, almeno, torneranno a socchiudersi, le porte della formula – l’unica che conduce ad una possibile salvezza – dei “due popoli, due Stati”? Il pessimismo dell’intelligenza non riesce, in virtù dell’abbraccio di cui sopra, che ad intravvedere nuovi massacri o, se si preferisce, la continuazione, con la complicità Usa, d’una vecchia storia. Quella d’un popolo stritolato nel tritacarne – perché proprio questo, carne da cannone, sono stati in questi anni i palestinesi per la destra israeliana, per jihadisti islamici e per le autocrazie arabe, militari o religiose che fossero – dei contrapposti fondamentalismi, degli interessi di bottega, dell’odio e della disumanizzazione dell’altro. L’ottimismo della volontà, resta invece in silenzio, attonito, in attesa di segnali che, sussurra la ragione, probabilmente mai arriveranno…

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