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Assemblea, assemblea…

25 aprile 2006

di M.C.

 

È difficile non simpatizzare con un’iniziativa che, sulla carta, è chiamata a promuovere una “transizione pacifica alla democrazia” in un paese che proprio di questo ha un vitale bisogno. Ed ancor più difficile è non solidarizzare con chi – come Martha Beatriz Roque – ha negli ultimi anni accumulato condanne per 23 anni di carcere per il solo fatto di “dissentire”. O, più esattamente: per avere sostenuto in un documento da lei firmato nel 1997 (insieme a Vladimiro Roca, Félix Bonne e René Gómex Manzano) che “la patria es de todos” (3 anni); nonché per avere – come gli altri 75 “sovversivi” condannati nell’aprile del 2003 – “complottato con il nemico” scrivendo articoli ed esprimendo opinioni (20 anni).

Martha è, nessuno lo dubita, una donna intelligente, coraggiosa e tenace. Come testimonia lo sciopero della fame che, lo scorso luglio – con qualche mese d’anticipo rispetto a Raúl Rivero ed agli altri – costrinse il governo cubano, timoroso delle possibili ripercussioni internazionali, a liberarla per “ragioni di salute”.

E, tuttavia, c’è qualcosa che non quadra nella – chiamiamola così – frettolosa ed irruente solitudine (o quasi solitudine) con cui, ieri, ha convocato l’assemblea di tutto il dissenso. Al punto che una parola mutuata dal linguaggio del poker subito è venuta alla mente di quanti hanno partecipato alla sua conferenza stampa: “bluff”. E ciò non soltanto per la piuttosto ovvia ragione che ben poche sono, allo stato delle cose, le possibilità che il regime consenta lo svolgimento (o anche solo la preparazione) della riunione.

Nel presentare l’iniziativa, Martha Beatriz Roque ha da par suo – con linguaggio da economista – sottolineato due cose sacrosante. Lungi dal prefigurare una qualche liberalizzazione del regime – ha detto – le ultime scarcerazioni di dissidenti vanno interpretate nella chiave d’un temporaneo “interscambio”. “Per Fidel Castro – ha detto Roque – noi non siamo che un altro tipo di moneda convertibe. Vale a dire: valuta pregiata da usare, quando occorre, per “comprare la benevolenza dell’Europa”. E chiaro è come, in questo contesto, sia necessario continuare a “mantenere alta la pressione”. Ovvero: continuare ad incalzare il regime senza “abbassare la guardia”.

Giustissimo. Quello che non è chiaro, tuttavia, è in quale misura la convocazione di questa sorta di “assemblea generale” abbia lo scopo di mantener vivo, anzi, di sospingere verso più alti livelli, il dibattito sul fondamentale obiettivo d’una “transizione pacifica verso la democrazia” (magari obbligando il regime a proibire la manifestazione); ed in quale misura rappresenti, per contro, un tentativo d’affermare, o meglio, di forzare una sorta di egemonia all’interno del movimento del dissenso interno cubano.

La battaglia per la democrazia dentro Cuba ha patito (e per molti versi ancora patisce) di due gravi malattie: l’isolamento e la divisione. Alimentate, entrambe, dalla sapiente opera d’infiltrazione del regime (quasi grottescamente testimoniata nelle vicende che hanno portato, un anno e mezzo fa, all’arresto ed alla condanna dei 75 dissidenti), e dalla perenne incombenza del “grande nemico del nord”. O meglio: dalla “storica” sensazione che opporsi al totalitarismo castrista significhi automaticamente schierarsi con gli Stati Uniti e con i – più o meno veri – propositi “annessionisti” dell’esilio cubano di Miami. Solo recentemente – con il lancio del “progetto Varela” – il dissenso è, almeno in parte, riuscito ad uscire da questa morsa fatale, ed a dare a se stesso – contro Castro e contro le pretese di “leadership” dell’esilio storico – una riconoscibile dimensione politica. Ma questa dimensione ancora si regge su equilibri fragili. Tanto fragili, in effetti, che proprio dall’iniziativa della “assemblea generale” richiano di venir compromessi.

Martha Breatriz Roque Cabello è, tra i dissidenti interni, uno dei pochi che sostengono l’utilità di quel vergognoso residuato politico che va sotto il nome di embargo Usa. E gli Usa sono oggi rappresentati all’Avana da un diplomatico, il signor James Cason, che – non per caso definito “un elefante in un negozio di porcellana” – non esita ad affrontare impavido il ridicolo (vedi “Pagliacciata in casa Cason” nella nostra rubrica “da buttare”), pur di affermare l’egida statunitense sul processo di democratizzazione a Cuba. Dovesse l’iniziativa lanciata ieri essere (come a molti sembra) un tentativo di mettere il capello di queste idee sul dissenso, sarebbe davvero qualcosa di molto peggio d’un semplice “bluff” mal riuscito. Sarebbe un regalo al regime. Ed ovviamente a quel medesimo signor Cason i cui metodi sembrano ispirarsi a quel singolarissimo principio della guerra del Vietnam, secondo il quale era necessario “distruggere un villaggio al fine di salvarlo”.

Riassumendo: Cason (e Bush) voglio salvare il processo democratico distruggendolo (o, più probabilmente, vogliono soltanto salvare le proprie relazioni, elettoralmente lucrose, con l’esilio “duro” di Miami). Fidel Castro vuole invece – più coerentemente – distruggerlo distruggendolo. E Martha Beatriz Roque rischia, con la sua iniziativa, di dare una mano ad entrambi. Un brutto presagio per tutti coloro che avevano sperato di potersi godere, almeno per qualche giorno, l’allegria per la liberazione di Rivero e di tutti gli altri.

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