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Anche i super-ricchi piangono

12 aprile 2004

di Massimo Cavallini

“Che straordinaria platea! I ricchi ed i più ricchi. Qualcuno vi definisce l’elite economica. Io vi definisco la mia base politica…”. Questo disse, esibendo il più radioso dei suoi sorrisi, tra scroscianti applausi, un George W. Bush perfettamente a suo agio nello smoking. E, per una volta almeno, non v’è motivo alcuno per dubitare dell’assoluta, solare sincerità dell’uomo che, con false motivazioni, ha regalato al mondo la guerra in Iraq. Perché, immortalata da una memorabile sequenza del “Fahrenheit 9/11” di Michael Moore – e pronunciata tra gli stucchi ed i candelabri del più esclusivo degli hotel di Manhattan – quella frase sembra davvero dire, con la forza d’una quasi spudorata confessione, tutto quello che c’è in effetti da dire sui rapporti che legano George W. Bush all’America del denaro. E perché davvero – per ovvie ragioni di censo e di fede politica – Bush si sente “tra i suoi”, a diretto contatto con la sua più naturale “base”, per l’appunto, quando parla ai ricchi grandi e meno grandi. I quali, dal canto loro, mai gli hanno fatto venire meno in questi anni – fundraising dopo fundraising – il conforto di generose donazioni. Ma si tratta davvero d’una storia d’amore? O, per meglio dire: in che misura, con quanto incondizionato vigore, la summenzionata “America del denaro” – chiamatela, se vi piace, il capitalismo USA – appoggia e sostiene il presidente in carica?

Rispondere non è facile. Anche se assai facile – analizzando la politica fiscale del presidente – è individuare le fondamenta di quelle che sembrano, d’acchito, essere vere e proprie, solide e profonde, affinità elettive. I “tagli” di Bush – come John Kerry va ripetendo ad ogni comizio elettorale e come ogni calcolo implacabilmente conferma – hanno in modo “sproporzionato” favorito proprio il “2 per cento più ricco della popolazione”. Ed il tutto sulla base del più classico dei dogmi della “reaganomics”: quello del cosiddetto “trickle down”. Date ai ricchi, ed i benefici immancabilmente “sgoccioleranno” verso il basso per la collettiva felicità. Ma basta scavare appena al di sotto di questa superficialissima crosta, per incontrare una realtà molto più complessa. E ciò non soltanto per il fatto – inevitabilmente molto pubblicizzato – che proprio il candidato democratico ha sposato, nel più letterale dei sensi, un pezzo della grande ricchezza d’America (Teresa Heinz, erede dell’ “impero del ketchup” fondato dall’ex marito H. John Heinz III, morto in un incidente aereo nel 1991). Né per l’altrettanto ovvia ragione che uno dei più visibili tra i “signori del denaro”, George Soros (con quasi 8 miliardi di dollari al 28esimo posto nella classica dei “più ricchi del mondo” annualmente compilata dalla rivista Forbes) è oggi – con quasi 30 milioni di dollari investiti in propaganda contro la rielezione di George W. Bush – tra i più radicali ed attivi nemici dell’attuale Amministrazione.

Proviamo, per capire, a partire da qualche cifra. Lo scorso settembre il gruppo di ricerca Prince & Associates ha condotto, su commissione della rivista Elite Traveler, un’inchiesta campione su 400 dei 2,3 milioni di americani che hanno un reddito annuale superiore al milione di dollari (ovvero: in quella che George Bush considera, lo ripetiamo, la sua “base politica”). Ed i risultati complessivi – anticipatamente pubblicati dal Wall Street Journal – sembrano, ad un primo sguardo, confermare il rapporto di reciproca gratitudine tanto apertamente conclamato dal presidente in “Fahrenheit 9/11”. I “paperoni” d’America scelgono Bush nella non travolgente, ma assai chiara proporzione di 58 a 42. Ma se si prova ad ulteriormente scomporre questa cifra – separando i “piccoli ricchi” che guadagnano da 1 a 10 milioni, dai “grandi ricchi” (dai 10 milioni all’infinito) – il quadro cambia in maniera sorprendente. Mentre, infatti, i “piccoli ricchi” testimoniano un’indiscutibile preferenza (63 a 37) per l’attuale inquilino della Casa Bianca, “grandi ricchi” preferiscono (59 contro 41) il democratico John Kerry.

Lo studio offre, per tutto questo, una spiegazione d’ordine, chiamiamolo così, psicologico. “Per quanto assurdo possa sembrare – ha detto al Wall Street Journal Russ Prince, il titolare del gruppo di ricerca – tutti coloro che vantano una ricchezza tra uno e dieci milioni non si sentono finanziariamente sicuri”. Vale a dire tendono a focalizzare la loro attenzione – con tutto il “greed”, l’insaziabile avidità di privilegi che ne deriva – sulla loro immediata condizione finanziaria. E, per questo, mantengono un “rapporto di riconoscenza fiscale” con il presidente che, con tanto reiterata generosità, ha tagliato loro le tasse. Non così i grandi ricchi che, dall’altro della loro spesso miliardaria “inattaccabilità”, possono con più filosofica obiettività – o con quella che, palesando un’ovvia irritazione, il Wall Street Journal ha definito la “f**k you money attitude”, ovvero l’atteggiamento di chi, avendone in eccesso, può permettersi di “mandare a quel paese” i soldi – i panorami sociali ed economici che li circondano. Vedendone assai più in prospettiva i rischi ed i problemi. Ed è probabilmente in questo quadro che si spiega la “anomalia” sottolineata da molte delle cronache che, lo scorso agosto, hanno preceduto l’apertura della Convention repubblicana a New York.

Il partito del presidente aveva scelto la Grande Mela ed il Madison Square Garden per una più che evidente ragione: la sua vicinanza al “Ground Zero” ed a quello “spirito dell’11 settembre” sul quale aveva impostato gran parte della sua campagna elettorale. Ma probabilmente s’aspettava anche che – in una città tradizionalmente democratica – almeno Wall Street testimoniasse un qualche entusiastico calore per la presenza in città dell’uomo che ama presentarsi come “l’erede autentico di Ronald Reagan”. Quello che ha trovato è stata, invece, solo una tiepida formalità, ulteriormente raffreddata dal contrappeso di qualche significativa ed assai visibile defezione. Quella, tanto per cominciare, di Peter Peterson, co-fondatore e presidente del Blackstone Group, già segretario al commercio sotto Richard Nixon e più volte considerato come possibile membro del team economico dello stesso George W. – pronto, in un’intervista al Financial Times, ad accusare la politica presidenziale d’una “irresponsabilità fiscale senza precedenti”. E, ancor più quella del chief executive di Merrill Lynch, Stanley O’Neal, solo un anno prima protagonista d’una spettacolare raccolta di fondi da 4 milioni per la campagna di Bush. Il quale non ha, come Peterson, rilasciato dichiarazioni o interviste di alcun tipo, ma si è ben guardato dallo smentire le voci che, per le medesime ragioni di Peterson, lo davano per “passato in campo democratico”.

E qui viene quello che – nella valutazione dei rapporti tra l’America ricca e la campagna presidenziale – è forse il punto centrale. Del capitalismo americano – una realtà, ovviamente con un’infinità di anime – Bush non rappresenta che una parte. O meglio, due distinte parti. La prima: quella che l’economista Paul Krugman settimanalmente denuncia, dalle colonne del New York Times, come il “crony capitalism”, il capitalismo clientelare delle grandi lobby perennemente alla ricerca di “privilegi di Stato”. Una realtà che – da Krugman spesso paragonata alla corruzione che caratterizzò la presidenza di Warren Harding, tra il 1920 ed il 1924 – è ben rappresentato dalle storiche relazioni tra la dinastia dei Bush (per non parlare del vicepresidente Dick Cheney) e l’industria petrolifera. La seconda: quella che riflette ciò che resta della “reaganomics”, contrapposta alla “rubinomics”. “La verità – ha scritto Peter Peterson – è che gli otto anni di Ammistrazione Clinton sono stati tra i più ‘business friendly’, favorevoli al mondo degli affari della storia americana, grazie soprattutto ad una semplice ed efficacissima teoria che, incarnata dalla politica del segretario al Tesoro Robert Rubin, ha garantito il più lungo periodo di espansione e di prosperità della storia americana”. Come? In parte ribaltando il credo fondamentale del reaganismo – diminuire il carico fiscale sui ricchi per mettere in moto la macchina degli investimenti (la famosa “marea” destinata a sollevare tutte le barche”) – che negli anni ’80 aveva portato ad un enorme deficit. Per garantire la crescita, aveva con grande forza sostenuto Rubin, bisogna, al contrario, osservare una ferrea “disciplina fiscale”, l’unica via per giungere ad costante abbassamento dei tassi d’interessi. E, di qui, ad una sana espansione dell’economia.

Sotto il “reaganiano” Bush il deficit è tornato ad assumere esplosive dimensioni. E con il deficit – in quello che è certo il più grande paradosso della presidenza Bush – è tornato anche ad espandersi, nel nome del “crony capitalism”, il peso economico del governo federale. Per dirla con “The Economist”: Bush è stato, in questi anni – contrariamente al democratico Clinton – il presidente che più ha contraddetto, sulla base d’un nuovo principio di “big government coservatism”, il più basilare dei concetti di quel reaganismo (“il governo non è la soluzione, il governo è il problema”) che, pure, dice di praticare in forma pura. E per trovare analoghi livelli d’innalzamento della spesa pubblica (colpa, ma solo in parte, della guerra) bisogna risalire fino al varo, negli anni ’60, della “Great Society” di Lyndon Johnson.

E c’è, ovviamente, anche dell’altro. Un “altro” che, per molti aspetti, è alla base dell’impegno anti-Bush del miliardario George Soros e di molti altri esponenti della “f**k the money” elite. La politica estera di George W. – la sua guerra preventiva ed “infinita”, il suo arrogante unilateralismo, o la sua “cattiva diplomazia” come la chiama il professor Joseph Nye nel libro “Soft Power” – è di fatto un bastone tra le ruote dei processi di globalizzazione dei mercati. “Un mondo diviso tra un’economia multilaterale ed una politica di sicurezza unilaterale – ha scritto su BusinessWeek l’economista Bruce Nussbaum – è un mondo pericoloso, che non incoraggia la crescita e la prosperità. Con la sua politica, l’Amministrazione Bush rischia di trasformare quello che è stato annunciato come il secondo secolo Americano, nel primo secolo Anti-Americano”.

George Soros ha chiamato tutto questo, nel suo ultimo libro, “The Bubble of American Supremacy”, la “bolla” della supremazia americana. Ovvero: una forma sopravvalutata e falsa – destinata ad esplodere, perché basata esclusivamente sulla forza delle armi – del predominio planetario degli Stati Uniti. Un’accusa da prendere sul serio, specie se si considera che proprio sull’individuazione (e sullo sfruttamento) delle bolle speculative valutarie, Soros ha costruito, negli anni, la sua immensa fortuna. Forse il 2 novembre la “bolla” di Bush salterà davvero per aria. Tra gli ingrati, ma entusiasti applausi di quei più ricchi tra i ricchi che George il Giovane considerava, ingenuamente, “la sua base”…

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