Esattamente 55 anni fa, poco dopo la mezzanotte del 5 di giugno d’un anno cruciale nella storia degli USA e del mondo – quel 1968 che già aveva visto cadere morto ammazzato Martin Luther King appena due mesi prima – nella cucina al lato della grande sala da ballo dell’hotel Ambassador di Los Angeles veniva assassinato Robert Francis “Bob” Kennedy, senatore dello Stato di New York, candidato presidenziale e celeberrimo fratello – erede politico, per molti aspetti – di John Fitzgerald Kennedy, il presidente della “Nuova Frontiera” ucciso in quel di Dallas, Texas, nel novembre del ’63.
Quella notte, Bob Kennedy aveva appena celebrato, tra applausi, palloncini colorati e pioggia di coriandoli, la sua netta vittoria nelle primarie democratiche della California, un passo importante in vista dell’ancora apertissima battaglia della Convention di Chicago. E ad ucciderlo fu, per la legge Usa e per gli annali, Sirhan Bishara Sirhan, un palestinese che – questo fu quel che a spizzichi e bocconi rivelò poi nella sua molto ondivaga confessione – voleva vendicare l’appoggio garantito dagli Usa ad Israele in occasione della Guerra dei Sei Giorni. Fu anche lui – sempre per la legge e per gli annali – un solitario e allucinato pistolero. Così come solitari e allucinati cecchini erano stati, prima di lui, gli assassini di John Kennedy e, nell’aprile di quel medesimo anno, di Martin Luther King.
Lee Harvey Oswald, James Earl Ray, Sirhan Bashara Sirhan. Uomini soli. Piccoli uomini dentro grandi storie. Grandi, inconcluse, misteriosamente improbabili o probabilmente false, come non pochi pur senza prove continuano a credere. E presumibilmente anche destinate a restar per sempre tali – storie senza verità – perdute in un inestricabile groviglio di talora credibili, talora bizzarre, talora volutamente fuorvianti teorie cospirative. Storie che, come spesso capita alle storie di morte, hanno alimentato un mito – quello per l’appunto del “kennedismo” – che ha marcato una parte non piccola della contemporaneità americana. E che per molti aspetti è stata la più visibile bandiera della sua anima progressista.
Che cosa resta oggi – più di mezzo secolo dopo la morte di Bob – di quel mito?
La prima e più immediata risposta è: nulla. O anche qualcosa meno di nulla, se per un attimo – un attimo soltanto, perché di più non val la pena – ci si sofferma sulle cronache elettoral-politiche di queste primissime battute della corsa verso le presidenziali del novembre del prossimo anno. Di questa corsa l’ultimo dei Kennedy – il 69enne Robert Francis Kennedy Jr., terzo dei ben 11 figli di Bob – è infatti parte diciamo così “folclorica”. E in questo consiste il folclore delle sue molto stiracchiate ambizioni presidenziali: nelle sue fanatizzate passioni antivax, condite da altrettanto fanatizzate teorie cospirative che, formalmente “antielitarie” e genericamente “anticapitaliste”, le grandi corporazioni sono per lui il nemico da battere – non sono in realtà che la brutta copia di quelle promosse dalla destra più a destra. Non per caso, all’annuncio della sua candidatura, i più scroscianti applausi sono arrivati da Steve Bannon, già “consigliere speciale” di Donald Trump e gran teorico della sunnominata destra più a destra. O di quella che molti analisti amano chiamare la “destra globale”. Il che non lascia margini al dubbio. Con questa candidatura, più che azzeratosi, il “kennedismo” è decisamente entrato in territorio negativo. E, peggio che morto, non è ormai che la caricatura di se stesso.
La domanda è: che cosa, prima di precipitare sottozero, è davvero stato il kennedismo? Che cosa ha rappresentato? Di che cosa si è nutrito un mito che, come a suo tempo scrisse lo storico David Von Drehle, è in realtà “un inestricabile groviglio di vere leggende e di leggendarie verità”? Come e perché John e Bob – e più tardi Ted, seppur in molto meno mitologici termini – sono diventati, nell’immaginario collettivo americano (e non solo dell’America progressista) il simbolo di quello che avrebbe potuto essere e non è stato, di quello che dovrebbe essere e insieme, con l’andar del tempo, di quello che è stato e che non è più?
La prima e più immediata (quasi lapalissiana) risposta sta ovviamente nella morte dei due protagonisti, nell’interruzione violenta d’un percorso politico oltre il quale si può immaginare, anche contro la logica della Storia, tutto ciò che si vuole. Gli studiosi del kennedismo hanno spesso sottolineato il contrasto, talora molto stridente, tra la realtà dei fatti, quasi sempre di piuttosto opaca tonalità, e lo splendore d’un mito basato – in chiave per l’appunto di leggendaria verità o di vera leggenda – su tre fondamentali pilastri: la battaglia per i diritti civili, la lotta per la giustizia sociale e la pace (pace nel senso storicamente specifico della fine della guerra del Vietnam e nel più generale senso di pace nel mondo).
La realtà dei fatti (o, se si preferisce, la Storia) ci racconta di come John Kennedy avesse, nel 1960, condotto la sua battaglia contro Richard Nixon non invocando la pace, ma al contrario reclamando, in chiave anti-sovietica, una politica più aggressiva. E come proprio di questa politica sia stata figlia, storicamente, la guerra in Vietnam (di fatto proprio da Kennedy iniziata, prima con l’invio di consiglieri e poi, giusto prima della tragedia di Dallas, con la diretta partecipazione al golpe che, con l’omicidio di Ngo Dinh Diem, di fatto spianò la strada alla successiva escalation). E altre ancora, al di sopra (o al di sotto) del mito, sono le cose che ci racconta la Storia. Di come, ad esempio, John Kennedy sia in realtà stato, per molto pragmatiche ragioni politiche, un molto tiepido e riluttante sostenitore della battaglia per i diritti civili. E di come le passioni “liberal” di Bob siano state – dopo la sua molto convinta e attiva partecipazione ai lavori del malfamato House Un-American Activities Committee di Joseph McCarty – una piuttosto tardiva acquisizione. Tanto che questo, nel 1965, scriveva di lui il molto “liberal” scrittore Gore Vidal: “Bob Kennedy è un uomo pericoloso e spietato…una personalità degna di Torquemada capace soltanto, contrariamente al fratello, di vedere le cose in bianco e nero…”.
Paradossalmente il più kennediano dei Kennedy, il più coerentemente “liberal” (o il più coerentemente di sinistra come si direbbe da noi), fu proprio Ted Kennedy. Ovvero quello dei tre fratelli che, privo dell’aura del martirio, dovette camminare – e camminare a lungo sporcandosi le scarpe – lungo le strade fangose della politica e della vita. Fu lui, uomo in carne ed ossa, a difendere nel tempo, fino alla fine dei suoi giorni, in cento ed antieroiche battaglie, tra peccati e redenzioni, cadendo e rialzandosi, l’idea del kennedismo, il mito, la speranza che la morte dei due fratelli avevano, spesso contro la Storia, generato.
Nell’agosto di quindici anni fa, Ted aveva chiuso il suo discorso alla Convention democratica che a Denver, in Colorado, avrebbe sancito la vincente candidatura di Barack Obama, quello che sembrava essere il possibile punto di partenza di una nuova America. Debilitato da un terminale tumore al cervello, Ted sarebbe morto poche settimane dopo. E quelle sue parole risuonano ancor oggi – dopo gli otto anni di presidenza Obama sfociati nella realtà del trumpismo e d’una democrazia dimezzata della trasfigurazione sovversiva del Partito Repubblicano – come cupi rintocchi della memoria o, per tornare a bomba, come il ricordo di quello che avrebbe potuto essere e non è stato, di quello che dovrebbe essere e, insieme, di quello che è stato e che non è più.
Belle e struggenti parole, quelle di Ted. Parole poetiche. Parole da ricordare. Tristi, dolci e lontane come il canto d’un cigno.