Poco più di nulla si sa, allo stato delle indagini, sul ventenne che, venerdì scorso, a Butler, in Pennsylvania, ha tentato di uccidere Donald Trump durante uno dei suoi “bagni di folla” elettorali. Le cronache non ci hanno fin qui restituito che la foto d’un ragazzino occhialuto e slavato – tratta, a quanto pare dagli annali della scuola secondaria da lui frequentata – e qualche insignificante dettaglio sulla sua vita. Thomas Matthew Crooks era, apparentemente, un qualunque “ragazzo di classe media”, un buon studente (aveva due anni fa vinto un premio da 500 dollari destinato ai più brillanti alunni in matematica), da circa un annetto lavorava come dietista in un istituto per anziani e, politicamente, era registrato come repubblicano. Interrogati, i suoi vecchi suoi compagni di scuola unanimemente descrivono come “decisamente di destra”. Pare fosse un tipo solitario e, di certo, non era – come attestato dal colore della sua pelle e dal suo cognome – uno “pericolosi criminali, stupratori, assassini e malati di mente” che, secondo Trump ogni giorno – favoriti dalla politica di “open borders” di Joe Biden – attraversano la frontiera Sud volutamente avvelenando “il sangue della nazione”.
Nulla, assolutamente nulla, si sa sui possibili motivi del suo gesto. Ed inevitabile è che, in questo nulla, si vadano in queste ore intrecciando le più bizzarre e contrapposte teorie cospirative. Tanto a destra, dove si intravvede, dietro quel volto slavato, la mano diabolica del “deep State” e di una cultura “woke” che, decisa a distruggere l’America, ha di conseguenza messo nel mirino l’uomo che dell’America è, per volontà di Dio, il profeta e protettore. Quanto a sinistra dove, altrettanto prevedibilmente, qua e là affiora, l’ipotesi un auto-attentato. Un po’ come accadde – qualcuno lo ricorderà – in un bel fil di Tim Robbins, “Bob Roberts”, che, datato 1992, sarebbe bello poter rivedere oggi.
L’ AR-15, un’arma, un simbolo
Tutto si sa, invece, sull’arma usata da Thomas Matthew Crooks. Si tratta del AR-15, un fucile automatico – di fatto un mitragliatore – che ormai da molti anni è, per l’America che in Donald Trump si riconosce, un vero e proprio simbolo. Di più: l’AR-15 è un mito, una bandiera per tutti coloro – i “second amendment people”, come, con paterna amorevolezza, usa chiamarli Trump – che considerano quello di “bear arms”, portare armi, non solo un diritto, ma il diritto dei diritti, quello dal quale tutti gli altri diritti dipendono.
L’AR-15 – originalmente prodotto dalla Smith&Wesson, ma ormai imitato da pressoché tutti i produttori d’armi – è ormai da almeno una decina d’anni il grande volano d’un mercato (quello, per l’appunto, delle armi per uso privato) che soddisfa, negli Usa, le sempre crescenti esigenze di 250 milioni di clienti. Tanto che, da tempo, “arma” e “R-15”, sono, per questa parte d’America, diventati sinonimi. “Vogliono portarvi via il vostro R-15” disse tempo fa Marjorie Taylor Greene, oggi la più trumpista dei trumpisti della House of Representatives. E la cosa fece notizia, non per la originalità del concetto, ma per il fatto che la Taylor Green attribuì questa volontà d’espropriazione alla “Gaspacho police” della diabolica Nancy Pelosi, leader democratica della Camera. Voleva, ovviamente dire, la simpatica Marjorie, “Gestapo”, ma confuse la polizia segreta hitleriana con la deliziosa zuppa andalusa.
No, quello che ha colpito Donald Trump, non è stato un “auto-attentato”. È però un fatto che – quali che siano stati i motivi che hanno spinto Thomas Matthew Crooks a sparare – Donald J. Trump è stato colpito dalla “sua” arma. Il suo orecchio destro – mostrato sanguinate in mondovisione due giorni fa – è stato a tutti gli effetti ferito (solo di striscio, per fortuna sua e nostra) da una pallottola che portava la sua firma, accompagnata dalla migliore delle sue foto di campagna. Se non un auto-attentato, quello di Butler è sicuramente stato, almeno in termini balistici, un Trump-attentato.
Una pallottola con firma. Quella di Donald Trump
La prova? Collegatevi con Google, o con qualunque altro motore di ricerca, e digitate “Trump R-15” o, a scelta, “MAGA R-15”. Riceverete una industriale quantità di offerte – io ne ho contate più di 30 – di “edizioni speciali” del mitragliatore, in versione totale o in qualcuna delle sue parti, espressamente dedicata a Donald Trump, con tanto di nome – ovviamente scolpito a lettere dorate – e con tanto di volto dell’ex-presidente inciso di fronte o di profilo.
Qualche esempio. La Missouri Guns & Ammo, LLT e la Thompson Auto-Ordnanc, offrono una versione elaborata “in onore del 45esimo presidente degli Stati Uniti e del suo sacro impegno a far grande l’America”, precisando come “sul lato sinistro del ricevitore superiore” siano incisi “il nome e il titolo del presidente Trump, Commander in Chief delle forze armate” , e come “la solenne immagine del presidente di fronte alla Casa Bianca” adorni “la parte sinistra, insieme al sigillo presidenziale”.
VERIFORCE TACTICAL è ancora più enfatica nel proporre un pezzo di ricambio – la canna superiore, ribattezzata “upper Trump” – specialmente dedicata all’uomo che da una pallottola passata per quella canna è stato colpito due giorni fa. “Patrioti! – recita l’offerta -Abbiamo ascoltato le vostre voci che reclamavano più uppers Trump. E per questo abbiamo prodotto il “Trump MAGA” edizione AR-15, ricevitore superiore, per celebrare il secondo emendamento! Mostra il tuo apprezzamento! Fai incazzare i tuoi amici liberali! Compra oggi stesso il kit receiver superiore Trump AR-15!”
Make America Armed Again
Si trova di tutto in rete. Caricatori (in inglese “magazines”, opportunamente ribattezzati MAGA-zines), T-Shirt che, con stampate le immagini di Trump e del AR-15 ,gridano “Make America Armed Again”, portachiavi, piatti, targhe dorate o argentate, magneti per frigoriferi, distintivi. E ciascuno di questi souvenir accoppia, in una relazione di vere e proprie goethiane affinità elettive, la vittima dell’attentato di venerdì in Pennsylvania e l’arma che lo ha colpito.
La morale della favola? A ciascuno di voi il compito di scoprirla. Magari preventivamente chiedendovi chi siano, in questa storia, i veri “seminatori d’odio”.