Scende il campo il Senato per rimettere in pista il piano del segretario al Tesoro Paulson – Ma il vero problema è, a questo punto, ridisegnare il sistema finanziario – E proprio questo è il molto radicale compito che attende il prossimo presidente
28 settembre 2008
di M.C.
Come i proverbiali “nostri” dei vecchi film western – quelli che, in una delle filastrocche del grande Renato Rascel , arrivavano “a cavallo d’un caval” – i “magnifici cento” sono scesi ieri in campo per salvare il salvabile. O meglio: per salvare il salvataggio. Uniche (ma fondamentali ) differenze con il prototipo hollywoodiano: la rinuncia ai classici squilli di tromba e, soprattutto, l’assenza d’ogni chiaro discrimine tra buoni e cattivi. Niente bandiere del settimo cavalleggeri che garriscono al vento, niente indiani in fuga, niente grida di gioia tra i pionieri raccolti all’interno del cerchio di carri assediati e, quel che più conta, niente applausi tra il pubblico in sala. Fischi, piuttosto. Fischi assordanti per salvatori e salvati. Fischi per il salvataggio, per i cavalieri e per i cavalli. Fischi per carri raccolti in circolo e per i pionieri. Fischi per tutti. Fischi, come vedremo, persino per quelli che fischiano.
I “magnifici cento” sono, ovviamente, i membri democraticamente eletti – due per ciascuno dei 50 Stati dell’Unione e, ciascuno, per sei lunghi anni di mandato – che compongono il Senato degli Stati Uniti d’America. Ed il “salvataggio da salvare” è quello che il segretario al Tesoro Henry Paulson ha elaborato nei giorni scorso sotto la spinta d’una crisi finanziaria che rischiava (ed ovviamente tuttora rischia) di chiudere i rubinetti del credito, soffocando l’intera economia (americana e, conseguentemente, “globale”). I fatti sono noti: quel piano prevedeva uno stanziamento di 700 miliardi di dollari – il 6 per cento del prodotto interno lordo e, di gran lunga, la più grande operazione di riscatto della storia americana – al fine di “liberare” le banche dall’ormai insopportabile peso di quelli che vanno sotto il nome di “toxic mortgages”, i mutui tossici che avvelenano, anzi, che già hanno avvelenato l’intero sistema finanziario. E doveva (deve) essere approvato con assoluta urgenza, pena l’apocalisse economica. Insomma: prendere o morire. E prendere – in una logica di “socialismo per ricchi”, come qualcuno l’ha piuttosto appropriatamente definito – “cash for trash”, denaro in cambio di spazzatura. In sostanza: in virtù del piano elaborato dal segretario al Tesoro, la collettività acquisisce – senza conoscerne il vero valore, in un tipico caso di scambio “asimmetrico” – i mutui che le banche a suo tempo concessero senza adeguate garanzie, poi rivendendoli (o ricomprandoli) in un vorticoso mercato che, senza regole, ha finito per divorare se stesso. E questo – almeno nell’originale versione di 23 paginette offerta da Paulson – senza verifiche di sorta. Insomma: il classico (se classico può essere definito uno stanziamento di quelle titaniche dimensioni) assegno in bianco.
Modificato in forma anche significativa – specie sul piano delle verifiche e laddove veniva integrato con aiuti non solo alla banche che non ricevono i pagamenti, ma anche ai cittadini che da quei pagamenti sono strangolati – quel piano è stato quindi clamorosamente bocciato lunedì scorso, per 228 voti contro 205, dalla Camera dei Rappresentanti. Clamorosamente, perché la bocciatura era stata preceduta da un accordo “bipartizan” che sembrava aver blindato un voto a favore. E, soprattutto, perché all’annuncio della vittoria dei no, l’indice Dow Jones è caduto, in una delle più precipitose discese della sua non sempre gloriosa storia, di ben 777 punti. Ma, ancor più, perché rivelava – a fronte della crisi – la realtà d’una preoccupante e profonda crisi di leadership politica. Cominciando dal presidente in carica – ormai solo una spaesata comparsa tra le macerie – e finendo con due partiti (il democratico e, soprattutto, il repubblicano) evidentemente non più in grado di controllare le proprie rappresentanze congressuali.
Chi ha votato contro il piano, e perché? Dal lato democratico 93 deputati (il 38 per cento del totale) ha avanzato obiezioni, chiamiamole così, “di sinistra”, del tutto legittimamente (e prevedibilmente) reclamando un piano che partisse dall’esigenza di salvare, non Wall Street dai suoi peccati, ma Main Street (ovvero: l’uomo della strada) dai peccati di Wall Street. Dal lato repubblicano (indubbiamente il più turbolento ed interessante dei due corni della contesa) 133 deputati hanno detto no nel nome d’una sorta di ideologico suicidio, o di biblica vendetta – muoia Sansone con tutti i filistei – a frontedi quella che, con molte ragioni, percepiscono come la fine di un’epoca alla quale appartengono. “Non potevo piantare l’ultimo chiodo nella bara del reaganismo”, ha detto Darrell Issa, repubblicano della California e purissimo sostenitore della “supply-side economics”, spiegando il suo voto contrario. Tutti i deputati ribelli – repubblicani e democratici – hanno sostenuto d’avere ricevuto, prima e dopo il voto, migliaia di telefonate, immancabilmente cariche d’indignazione contro Paulson ed il suo piano, dai proprio elettori. E, con il consueto cinismo, i politologi hanno, dal canto loro, fatto notare come molto difficile fosse per loro (i deputati) non ascoltare quelle voci rabbiose nell’approssimarsi del voto di novembre (l’intera House of Representatives viene rieletta assieme al presidente).
Insomma: il piano Paulson non piace (né a destra, né a sinistra). Il piano Paulson indigna, disgusta, provoca ovunque travasi di bile e fa schiumar rabbia da ogni bocca. E, tuttavia, anche i fischiatori (i deputati del “no”) hanno, come s’è detto, ricevuto la loro dose di fischi. Perché? La risposta è semplice. Perché, in assenza di una ricapitalizzazione del sistema bancario, l’economia americana – e con l’economia americana, inevitabilmente, la vita di tutti – è destinata a precipitare nel vortice d’una crisi dalle imprevedibili conseguenze. Tutti gli economisti, di tutte le tendenze, sono almeno su questo d’accordo. Il piano Paulson può essere giudicato nel più negativo dei modi (sicuramente ingiusto, parziale ed inefficace), ma è comunque (soprattutto nella versione modificata bocciata alla Camera) meglio di nessun piano. Gli anni ’30 – e la famosa Grande Depressione che fece seguito al crack del 1929 – non sono destinati a tornare. L’economia non conoscerà, come allora, un crollo del 30 per cento. Il Central Park di New York City non si riempirà delle “shanty towns” dei senza tetto. Non ci saranno mense collettive agli angoli delle strade. La disoccupazione non arriverà neppure vicino al 25 per cento di quegli anni. E John Steinbeck, dovesse rinascere, non avrebbe occasione di riscrivere (se non con sostanziali varianti) il suo magistrale “The Grapes of Wrath” (Furore). Non foss’altro perché la Grande Depressione già c’è stata e qualcuna delle sue fondamentali lezioni è pur sempre sopravvissuta alle folate della “reaganomics”. Oggi i normali conti bancari sono assicurati (fino a 100mila dollari e qualcuno ha già proposto di elevare il limite a 250.000) dallo stato attraverso la FDIC (Federal Deposit Insurance Corporation). E non c’è ombra della “bank run”, della corsa al ritiro dei depositi, che fu, allora, la causa (molto più che la conseguenza) della crisi. Eppure, egualmente, le conseguenze della (già evidentissima) caduta della fiducia nel sistema del credito potrebbe avere conseguenze devastanti.
Ed è a questo punto che i “nostri” – e tra i nostri, i due candidati alla presidenza, entrambi senatori – sono arrivati. E – come si conviene ad una storia hollywoodiana – hanno vinto. Mercoledì sera, un nuovo piano Paulson – sostanzialmente uguale al vecchio, respinto dalla Camera, ma “adolcito” da una serie di provvedimenti marginali (l’aumento del livello massimo dei depositi garantiti ed un paio di tagli fiscali, sempre popolari tra i nostalgici del reaganismo ) – è stato infine approvato a larga maggioranza: 74 a 25. E venerdì darà ai ribelli della House of Representatives una nuova occasione per liberarsi dall’accusa di avere tirato il siluro che ha affondato l’economia americana. E poi?
E poi, la storia è tutta da scrivere. I fatti hanno già dimostrato come le peripezie di Wall Street – i punti perduti o guadagnati nel corso di una singola seduta – non siano, in fondo, che un “side show”, uno spettacolo secondario (in una sola giornata, martedì scorso, il Dow Jones ha recuperato 500 dei 777 punti perduti il giorno prima). La partita vera è quella della ricostruzione, sulle ceneri della “deregulation”, del sistema finanziario. O meglio: della definizione di una nuova architettura dell’economia americana. E questo sarà l’ineludibile compito del nuovo presidente.
Nessuno dei due candidati – di certo non McCain e neppure Obama l’uomo che, pure, ha fatto del “cambiamento” il tema portante della sua marcia verso la Casa Bianca – può essere in alcun modo definito un “radicale”. Ma radicali sono diventate – ed ancor più diventeranno – le condizioni della loro presidenza. Meglio ancora: radicali sono, inevitabilmente, le soluzioni che portano fuori dalla crisi. E forse proprio questo è il vero, decisivo paradosso di questa tornata elettorale. Per vincere, Obama (o McCain) deve spostarsi al centro. Per governare dovrà andare a sinistra. Dire che l’America si prepara ad aprire una pagina nuova della sua storia, non è a questo punto, in nessun modo, una frase fatta.