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Oprah, la regina diventata “kingmaker”

Barak Obama è un candidato di grande carisma personale. Ma dare impulso alla popolarità che oggi gli consente di sfidare la (un tempo) superfavorita Hillary Clinton nella corsa per la nomination democratica, è stato soprattutto l’appoggio ricevuto da Oprah Winfrey. Poiché è stata Oprah Winfrey a lanciare di fatto la sua candidatura quando ha, nel suo talk show, presentato il libro autobiografico da lui scritto. E perché è stata Oprah Winfrey a garantire, con la sua partecipazione, il coinvolgimento nella campagna presidenziale del primo candidato afro-americano con qualche concreta possibilità di successo di strati di popolazione di norma estranei alla politica. La “speranza” ed il “cambio” annunciati da Obama, volano sulle ali di Oprah. Ma chi è, davvero, quest’ultima versione di “kingmaker” made in USA?

 

12 gennaio 2008

di Massimo Cavallini

 

Per tutti, è una regina. Ma quello che ha fondato è, in realtà, un impero. E certo è che, come tutti gli altri grandi imperi della storia universale, anche quello presieduto da Oprah Winfrey è cominciato con una fatidica traversata. Per Alessandro Magno fu, come ci insegnano i manuali, l’Ellesponto; per Giulio Cesare fu il Rubicone. Per Isabella la Cattolica fu l’Atlantico. E per l’incontrastata e venerata “Queen of Talks” – oggi di gran lunga la più ricca e poderosa donna nel mondo dell’entertainment “made in USA” – fu, semplicemente, se medesima. O meglio: fu il passaggio oltre quella linea impercettibile e sottile, metaforica e tuttavia sostanziale, che – conosciuta sotto il nome di personale discrezione o, più modernamente, di “privacy” – separa l’io pubblico da quello privato. Poiché proprio di questo, a conti fatti, s’è nutrito (ed ancora continua a nutrirsi) il potere di Oprah: della capacità di dare tutta se stessa al talk show che porta il suo nome. Più ancora: della sua inesausta disponibilità a “raccontarsi”, pubblicamente confessando ogni più intimo dettaglio della propria esistenza; della manageriale ed energica disciplina con cui, negli anni, ha saputo trasformare tutto ciò in un lucrativo marchio di fabbrica. L’Etat c’est moi, insomma, come amava ripetere un altro grande sovrano. Laddove, ovviamente, per “moi” s’intende non solo un’affermazione d’inappellabile comando, ma anche – anzi soprattutto – un corpo ed un’anima, un’omogenea ed auto-voyeristica realtà geografica e personale.

All’inizio della storia di Oprah Winfrey c’è, narra la sua leggenda, il piccolo villaggio di Kosciusko, nel delta del Mississippi, dove “The Queen of Talks” nacque (poverissima e da genitori non sposati) il 29 gennaio del 1954. Ed alla sua fine c’è, per l’appunto, l’ “Oprah’s Empire”, un conglomerato di attività multimediatiche che, per un valore prossimo al miliardo di dollari, s’estende oggi dalla televisione al cinema, dall’editoria al cyberspazio. Ma quello che davvero conta, se davvero si vuol capire il “fenomeno Winfrey”, è, in realtà, tutto quello che si trova tra questi due punti estremi. E che – pubblica confessione dopo pubblica confessione – è fin dall’inizio diventato la vera e forse l’unica ragione d’un successo che, negli ultimi due decenni, ha sfidato le leggi del tempo e le più consolidate regole dello “show business”.

Della vita di Oprah si sa, in effetti, ogni cosa. Anzi: ogni cosa è in questi anni diventata, per sua iniziativa, oggetto di pubblica rivelazione davanti alle telecamere: dalle origini del suo nome (dovuto all’erroneo “spelling” di Orpah, un personaggio minore della Bibbia), alla sua miserrima infanzia nel più misero lembo degli Stati Uniti; dalla sua “fuga al nord”, agli anni tenebrosi della sua adolescenza a Milwaukee, marcata da uno stupro e dalle violenze sessuali inflittegli dagli amanti della madre; dalla sua prima, tragica maternità a 14 anni, al suo primo aborto, tutto è stato rivelato e vivisezionato in diretta e senza riserve. Tutto, fino al suo reincontro a Nashville con il padre che, infine, le insegnò a vivere ed a credere in se stessa. Tutto, ed anche più di tutto – ogni sera per cinque sere alla settimana – fino allo spettacolare racconto, in rigoroso “close up”, tra lacrime e singhiozzi, dei suoi “anni da cocainomane”. Mai, prima di Oprah, la televisione aveva conosciuto una tanto completa ed incondizionata identificazione tra un talk show e la vita privata del suo conduttore o conduttrice.

E proprio questa è, in fondo, la più profonda e, per certi aspetti, persino edificante lezione della “Oprah Winfrey’s Story”. Esibendo se stessa senza ritegno di fronte al suo pubblico, infatti, la regina dei talk show americani non ha soltanto inventato un nuovo genere di spettacolo. Ha, soprattutto – come molti altri dei grandi condottieri che l’hanno preceduta – saputo trasformare in punti di forza tutti i motivi che, sulla carta, si contrapponevano al suo successo. Quando, nel lontano 1984, la WJZ di Chicago le affidò il suo primo talk show, Oprah non era solo una donna nera in un mondo ancora totalmente dominato dai maschi bianchi. Era anche una donna grassa (seppur a suo tempo piacente, visto che in gioventù era stata eletta Miss Black Nashville) in un ambiente – quello dello spettacolo – che già venerava sopra ogni cosa la magrezza. E di fronte a sé aveva, nella medesima fascia oraria, un affermato maestro del genere quale Phil Donahue, canuto gentiluomo che, di se stesso solo questo aveva fin lì rivelato ai suoi ascoltatori: “Sono un fervente cattolico”. Oprah lo sbaragliò, narrano gli storici di questo genere televisivo, “capovolgendo ogni schema e lasciando cadere ogni velo”, in ciò rivelandosi – fatto questo che resta la vera essenza della sua “rivoluzione” – in tutto simile a quelli (e soprattutto a quelle) che l’ascoltavano. I rapporti con il suo convivente, Stedman Graham, sono da allora divenuti oggetto di settimanale dibattito, con immancabili riflessi sulle copertine dei giornali tabloid. E la sua battaglia contro il sovrappeso – culminata nella sua ormai mitica partecipazione alla Marines Corp Marathon di Washington DC, nel ‘97 – ha raggiunto livelli di popolarità televisiva mai neppure sfiorati dai reportage sulle molte guerre che affliggono il pianeta.

Ma quel che più conta è che – fin dall’inizio di questa lunga e, insieme, fulminea marcia verso il successo – Oprah ha lucidamente trasformato se stessa e le sue pubbliche confessioni in impresa, da subito diventando, attraverso la Harpo Productions – Harpo come Harpo Marx e come il suo nome pronunciato all’incontrario – unica proprietaria del suo show. E la Harpo productions, raccontano le cronache, è a sua volta rapidamente divenuta proprietaria della maggioranza delle azioni della King World Productions, la casa madre con la quale la presentatrice originalmente rinegoziava – sulla base di sempre più alti compensi e di sempre più consistenti “stocks options” – un contratto di esclusiva. Fu così – come le sue molte agiografie oggi sottolineano – che Oprah Winfrey assai presto divenne la terza donna, dopo Mary Pickford e Lucille Ball, padrona di una “major” televisiva. Nonché, finalmente, la “prima miliardaria nera della storia d’America”.

Quando e come Oprah abbia “visto la luce”, non è chiarissimo. Ma certo è che dal 1994 – anno in cui, ormai prossima alla fatidica soglia dei 40, in un’ennesima pubblica rivelazione dichiarò di voler dare “un più profondo significato al suo lavoro” – il self-improvement (o la redenzione come i più mistici tra i suoi seguaci preferiscono chiamarla) è diventata l’elemento portante delle sue ormai molteplici attività. È stato in quell’anno che Oprah ha fondato l’Angel Network, una rete via cavo dedita a pubblicizzare le buone azioni nei più diseredati quartieri d’America. Ed è stato in quell’anno, soprattutto, che ha concepito la vera perla del suo impero, o meglio, quello che il paludato The Economist, costretto per la prima volta ad occuparsi di lei, due anni fa definì il suo “viatico verso la rispettabilità”. Vale a dire: l’Oprah Winfrey’s Book Club, un circolo di promozione letteraria che, come appendice del suo show, ha in questi anni rivitalizzato (e, a suo modo, rivoluzionato) il mondo della “editoria seria”, regalandole vendite aggiuntive che, alla fine dello scorso anno, sono state calcolate in “almeno” 18 milioni di copie per un giro d’affari assai prossimo, ormai, ai 350 milioni di dollari.

Molti critici hanno, in questi anni, storto il naso. Ed hanno fatto notare come le scelte del Club – quasi sempre storie di donne dalla travagliata infanzia -non siano in fondo state, anch’esse, che un riflesso della vita di Oprah, dei suoi sentimenti e delle sue passioni. Ma è un fatto che, ormai, tutti gli editori hanno – come qualcuno ha scritto – “oprahizzato” la propria selezione delle opere da pubblicare. Ed è un fatto che proprio qui, nel corso della presentazione del libro “The Audacity of Hope” – istantaneamente divenuto un best seller – è cominciata la corsa presidenziale di Barak Obama…

Anni fa, durante la conferenza di presentazione di O: The Oprah Magazine”’ ultima creatura della Harpo Productions, un giornalista ha chiesto alla Winfrey quando, per la prima volta si fosse resa conto d’aver fondato un impero. E la risposta della sovrana è stata netta. “E’ stato – ha detto – quando Toni Morrison (premio Nobel per la letteratura del ’93n.d.r.) ha accettato un mio invito a cena”. Quel giorno la bambina di Kosciusko che ha trasformato la sua vita in soap opera per il consumo di massa, ha capito di esser diventata, finalmente, una vera imperatrice. Anzi, un vero re capace, come Mida, di trasformare in oro tutto quello che le capita di toccare.

In oro e, forse, in presidenti della più grande potenza del pianeta terra…Riuscirà Oprah Winfrey, la regina della chiacchiere che ha fondato un impero ad estendere il suo il suo regno fatto di parole fino all’Ufficio Ovale della Casa Bianca?

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