Mentre si appresta a lasciare la Casa Bianca, George W. Bush cerca di spiegare ad un paese che da tempo ha smesso di ascoltarlo i suoi otto anni di presidenza – Mai, nella storia degli Stati Uniti d’America, una “anatra zoppa” era stata tanto zoppa
di Massimo Cavallini
4 dicembre, 2008
Pochi se ne sono accorti. Ed anche quei pochi, considerato quel che vedevano, hanno all’istante, per disinteresse, distolto gli sguardi dalla scena. Eppure proprio questo è accaduto. Lunedì sera, quando ancora viva era l’eco della presentazione del “National Security Team” di Barack Obama, e mentre già divampava il dibattito su quelli che, in futuro, potrebbero essere i rapporti tra il segretario di Stato Hillary Clinton e l’uomo che l’aveva eliminata dalla corsa presidenziale, il presidente in carica – quello che di nome fa George Walker Bush -ha rilasciato una lunga intervista televisiva. Un’intervista di bilancio e, per certi aspetti, di “confessione”, in qualche modo simile agli otto anni del suo governo. Ovvero: pesantissima e, insieme, leggera, quasi impalpabile. Pesante come i macigni delle due guerre e della catastrofica crisi economica che George W. lascia in eredità al mondo. E, al tempo stesso, leggera – tanto leggera ed evanescente, in effetti, da essere ormai diventata pressoché invisibile – come la sua personalità e come la forza del suo pensiero. O meglio: come la sua incapacità di fare davvero i conti con quello che, in questi otto, pesantissimi anni, ha fatto e detto nelle sue vesti di più potente creatura del pianeta Terra. Rispetto a che cosa, tra le molte accadute durante la sua presidenza – gli ha chiesto il giornalista Charles Gibson – si è sentito davvero impreparato? Rispetto alla guerra, ha risposto Bush. “Non ero preparato per la guerra…Voglio dire, io non avevo fatto campagna dicendo: ‘Votate per me perché io so come rispondere a un attacco’. In altre parole, io non avevo previsto una guerra. I presidenti…una delle cose che riguardano la presidenza moderna è che accadono cose inaspettate”.
Tutto qui. Nel corso di quella che, da quando esiste la televisione, è probabilmente stata la meno ascoltata delle interviste presidenziali, il presidente ancora in carica non ha offerto molto più di quest’attonita elegia dell’imprevedibilità della politica e dell’umana esistenza. La guerra in Iraq? Un’altra conseguenza dell’inatteso. Ovvero: dei rapporti d’intelligenza – il “più grande rammarico della mia presidenza” li ha definiti Bush – che “assicuravano la presenza in loco di armi di distruzione di massa”. Una conseguenza (o un errore) che, senza quei rapporti, avrebbe evitato? lo ha incalzato Gibson. Chissà, gli ha risposto Bush, ”indietro non si può tornare”…”Sarò sincero: io non passo molto tempo preoccupandomi della Storia nel breve termine. E non mi preoccupo neppure della Storia a lungo termine, dal momento che non ci sarò quando questa Storia verrà scritta e letta…però, guardi, in questo lavoro si fa quel che si può. La cosa più importante è per me andare a casa e potermi guardare allo specchio dicendo: ‘Non sono venuto meno ai miei principi”…Quali principi? “Quelli che avrei tradito se mi fossi ritirato dall’Iraq…”. E così George W. Bush ha chiuso il cerchio della sua “confessione”. Dichiarandosi innocente, non di fronte alla Storia – della quale ben poco gli importa – ma di fronte allo specchio di casa sua…Al quale specchio non ha, peraltro, che questo da dire: io ha fatto una guerra, non so perché l’ho fatta, ma so che finisco il mio mandato potendo dire che non l’ho perduta…
Tutto qui. E qui, probabilmente, stanno anche le ragioni per le quali l’America non ha ascoltato l’intervista. Perché non c’era niente da ascoltare E perché, mai prima d’oggi, una presidenza aveva vissuto il suo tramonto in un clima di tanto desolata inutilità, più simile ad un brutto ricordo che s’aggira tra le proprie rovine, che, per l’appunto, ad un pezzo di Storia che finisce. Il Bush di questi ultimi giorni – e di quest’ultima esibizione televisiva – sembra, davvero, soltanto l’imitazione dell’amabile nullità in balia degli eventi (e delle forze da cui era stato creato) che Oliver Stone ha descritto nel suo ultimo film, “W”. O quella del ragazzotto viziato e pericoloso – pericoloso perché inconsapevole – descritto nel recentissimo romanzo “American Wife”, di Curtis Sittenfeld. Qualcuno ha definito Bush “the lamest duck”, la più zoppa delle anitre zoppe. E, non più d’una decina di giorni orsono, una fotografia s’è incaricata di fermare, in una surreale istantanea, la realtà di quest’atto di dissoluzione: Bush ritratto in Perù – dove si svolgeva il summit dell’APEC – mentre, piuttosto grottescamente vestito con un classico poncho d’alpaca ed ultimo rimasto su un proscenio che tutti gli altri capi di Stato stanno abbandonando dandogli le spalle, sembra chiedersi le ragioni della sua presenza a quel tavolo. Un uomo ignorato e solitario. Vagamente ridicolo…”Ieri – ha raccontato giorni fa nel suo show televisivo l’entertainer Conan Brian – gli uomini della sicurezza hanno sorpreso un uomo mentre cercava di scalcare il cancello della Casa Bianca. “Altolà – gli hanno intimato – Dobbiamo ricordarle, mr. President, che il suo mandato non scade che tra due mesi…”.
Questo si dice oggi in America. George W. Bush se ne va, indifferente ai giudizi della Storia, nella generale indifferenza (un’indifferenza piena di fastidio) del Paese che ha governato. Se ne va, anzi già se ne è andato, a dispetto degli sforzi dei guardaspalle della barzelletta di Brian. Perché la sua scomparsa già si era consumata, in effetti, nel pieno dell’estate, quando a St. Paul il partito Repubblicano aveva convocato la sua Convention per nominare John McCain. Che Bush, ormai non esistesse più lo si era capito, quando, sul gigantesco schermo della Convenzione, erano scorse, solenni ed inevitabili, le immagini del filmino commemorativo dell’11 Settembre. Quattro anni prima, a New York, un analogo filmino – quello che, prima del gran finale, aveva il candidato lo stesso George W. Bush – era tutto incentrato attorno alla figura d’un presidente che, in cima ad un cumulo di macerie, un braccio posato sulle spalle d’un vecchio pompiere ed un megafono nell’altra, guidava il paese ferito verso un’immancabile riscossa. Orbene: di quell’immagine – fino a non molto tempo prima iconografica – non c’era stavolta traccia. Scomparsa, come la figura di Trotsky dalle fotografie del Comitato Centrale bolscevico prima del 1923. Molti pompieri, anziani e giovani, molto Giuliani (lo stesso Giuliani che, quattro anni prima aveva gridato alla platea “Grazie, buon Dio, per averci dato Bush presidente”), ma nessun presidente, nessun megafono, nessun braccio posato sulla spalla. Macerie, molte macerie, ma nessun George W. Bush. Perché, in realtà, erano proprio le macerie della presidenza di George W. Bush, quelle che la Convezione voleva far dimenticare.
Bush, dunque, se n’è andato ed è ormai (o crede di essere) solo di fronte al suo specchio. Ma, ovviamente, del tutto fuori luogo sarebbe credere che la Storia, da Bush ignorata, sia altrettanto indolente di fronte alla realtà di questo cambio della guardia. Anzi: sono proprio le ragioni di questo suo dissolvimento nel nulla, nella generale noncuranza, quelle che rendono a tutti gli effetti “storico” il momento che stiamo vivendo. Perché Bush non se n’è andato solo. Con sé ha portato altri tre cadaveri: quello del movimento conservatore americano, quello della lotta al terrorismo intesa come “guerra infinita” e come veicolo di un’egemonia basata sull’unilateralismo a dispetto della complessità del mondo; e quello del liberismo economico. Ovvero: quello dell’illiberalità d’un mercato basato sul privilegio e libero, in ultima analisi, di distruggere se stesso. Proprio così, del resto – “La fine della storia” – s’era intitolato, agli inizi degli anni ’90, il saggio che celebrava (o credeva di celebrare) il definitivo trionfo dell’egemonia americana. Ora la Storia – che, peraltro, mai si era fermata – è ripartita e presenta al mondo una pagina bianca, tutta da scrivere. O – per restare in metafora – presenta all’America e al mondo uno specchio. Uno specchio che, contrariamente a quello della camera dal letto di casa Bush, riflette non soltanto l’immagine d’un presidente fallito e impenitente, ma i pericoli e le opportunità d’un epoca nuova. Come scrisse Charles Dickens nel suo “A Tale of Two Cities”. “It was the best of times, it was the worst of times…:, era il migliore dei momenti, era il peggiore dei momenti…