George W. Bush giunge Italia, reduce dal G8, sotto il peso di un indice di gradimento ai minimi storici e d’una ormai molto retorica domanda: spetta a lui la palma di “peggior presidente degli Usa? Probailmente sí. Colpa di una guerra risoltasi in un disastro ancora in corso. Ma non solo…
7 aprile 2008
di Massimo Cavallini
George W. Bush: un grande presidente, o il più grande presidente della storia? Questa è la domanda che Stephen Colbert – solitario conduttore di “The Colbert Report”, in onda tutte le sere sul Comedy Channel – con sistematica ritualità rivolge agli ospiti del suo ascoltatissimo talk show. E ben si comprendono le ragioni d’una tale liturgia: Stephen Colbert è un comico. E nulla, oggi in America, fa più ridere di questo: ascoltare qualcuno che, con affettata serietà, definisca “grande” (o, addirittura, “il più grande”) il capo di Stato che, tra qualche giorno, sbarcherà in Italia in visita ufficiale. Molti altri presidenti americani sono stati chiamati, nel crepuscolo del loro mandato, “anatre zoppe”. Ma nessuno, prima di George W. Bush, aveva mai tanto vistosamente claudicato. O, meglio: nessuno aveva mai tanto faticosamente percorso l’ultimo tratto del suo cammino, trascinando se stesso sotto il peso d’un fallimento globale divenuto ormai – basta un’occhiata ai suoi indici di gradimento – senso comune. Tutto grasso che cola, ovviamente, per chi, come Stephen Colbert, ha in questi ultimi anni costruito la propria popolarità sulla parodia del giornalismo reazionario e patriottardo – il suo modello è con tutta evidenza, Bill O’Reilly, il più visibile ed arrogante tra gli anchorman di Fox News – divenuto, specie dopo l’11 settembre del 2001, la prima cassa di risonanza delle imprese di Bush il Giovane, il condottiero che, di fronte al mondo, si autodefinì “a war president”, un presidente di guerra. E che oggi appare schiacciato sotto il fardello del conflitto che doveva (e che in effetti ha) definito la sua presidenza.
Dunque: chi è George W. Bush? Soltanto un pessimo presidente, o il peggior presidente della storia americana? Basta, in fondo, capovolgere l’assai retorico interrogativo posto da Colbert ai suoi ospiti, per mettere a fuoco il vero quesito che oggi accompagna il gran capo della più grande potenza del pianeta nel suo viaggio nella “vecchia Europa”: quanto davvero “globale” è, in prossimità del prossimo sfratto, il globale fallimento della politica dell’attuale inquilino della Casa Bianca? Ovvero: quali sono – al di là d’ogni parallelo con casi del passato – le vere dimensioni del disastro consumatosi sotto la guida del quarantatreesimo presidente degli Stati Uniti d’America? E questa è la paradossale risposta che, in un articolo dal titolo “Bush’s Amazing Achievement”, lo stupefacente successo di Bush, Jonathan Freedland offre sulle pagine dell’ultimo numero della New York Review of Books: la bancarotta politica dell’attuale presidenza è stata globale al punto da trasfigurarsi in una sorta di miracolo. Poiché un miracolo – sottolinea Freedland nell’esaminare alcune delle ultime novità editoriali dedicate alla politica estera americana – è riuscire, come Bush è riuscito, a “creare un solido consenso che va da Noam Chomsky a Brent Scowcroft, e che s’estende dalle strade di San Francisco percorse da manifestanti pacifisti, fino agli ovattati e molto esclusivi uffici dell’ex segretario di Stato, James Baker III…”.
In cosa consiste questo “consenso”? Sostanzialmente, in un concetto tanto semplice, quanto ormai diffuso oltre ogni tradizionale frontiera ideologica. La guerra in Iraq è stata – scrive Freedland – una “calamità che ha sminuito la reputazione dell’America nel mondo, e che ha, in ultima analisi, reso gli Stati uniti non più, ma meno sicuri, rinfrancando i suoi nemici ed alienando i suoi alleati”. Davanti a sé, Freedland ha una serie di libri, scritti da autori d’ogni tendenza, molti dei quali, tuttavia, appartengono alla più solida tradizione conservatrice. Due su tutti: “Statecraft and How to Restore America’s Standing in the World”, l’arte di governare e come restaurare il prestigio dell’America nel mondo, scritto da quel Dennis Ross che, in tempi nient’affatto remoti, fu inviato speciale nel Medio Oriente, tanto per Bush il Vecchio quanto per Bill Clinton; e “Second Chance: Three presidents and the Crisis of American Superpower”, una seconda possibilità, tre presidenti di fronte alla crisi della superpotenza americana, di Zbigniew Brzezinski, il fervente anticomunista (un “falco” a tutti gli effetti) che fu National Security Adviser sotto Jimmy Carter. Ed è proprio da quest’ultimo libro che Freedland estrae la frase che riassume, con la solennità d’una sentenza senza appello, il finale giudizio sui quasi sette anni spesi da “W” alla Casa Bianca: “per il modo come è stata internamente decisa, esternamente promossa e praticamente condotta – sostiene Brzezinski –, la guerra in Iraq si è risolta in una calamità. Ed ha già bollato la presidenza Bush come un fallimento storico…”.
Un “fallimento storico”. Questo è ciò che, nei prossimi giorni, farà visita all’Italia. Non sembra esserci, in Brzezinki, o in Dennis Ross, alcun manzoniano dubbio circa “l’ardua sentenza” da lasciare ai posteri. Nel Bush di cui, impietosamente, i due autori descrivono la Waterloo a bassa intensità non c’è alcuna napoleonica “vera gloria” da soppesare nella distanza del tempo. C’è solo da misurare la vera portata, per l’appunto, d’una calamità i cui effetti vanno ben oltre il disastro iracheno. Perché, sostengono all’unisono Brzezinski e Ross, la “guerra al terrore” lanciata da Bush all’indomani dell’11 settembre, ha creato un’America più vulnerabile, non solo di fronte ai suoi nemici esterni, ma, in qualche misura, anche di fronte a se stessa ed al proprio destino. Tra i libri esaminati nella lunga recensione di Freedland, c’è anche l’ultimo d’una trilogia scritta da Chalmers Johnson, il cui titolo – “The Last Days of the American Republic”, gli ultimi giorni della Repubblica americana, – ben riassume il senso del dibattito trasversale prepotentemente rilanciato dai sette catastrofici anni della presidenza Bush. Un dibattito che in effetti è, da sempre, parte integrante, permanente della identità d’un paese lacerato da due contrastanti spinte: le idee di libertà che (pur con enormi limiti e stridenti contraddizioni) hanno marcato la sua nascita e la sua – per molti aspetti inevitabile – vocazione imperiale.
George W. Bush, non è infatti soltanto il presidente della “calamitosa”avventura in Iraq. È anche, probabilmente, il presidente che più cose ha sacrificato sugli altari di questa storica, intrinseca contraddizione americana. O, quantomeno, è quello che lo ha fatto nel modo più brutale e mediocre, sfacciato persino, usando l’11 di settembre – come Arthur M. Schlesinger ha sottolineato nel suo ultimo libro, “War and the American Presidency” – per consolidare le fondamenta d’una “presidenza imperiale” destinata a fare a pezzi quel sistema di controlli reciproci (“checks and balances”) che sostiene la democrazia americana. O meglio: che alimenta la Repubblica americana – intesa come “the reluctant warrior”, un guerriero restio, per innato spirito antimperialista, ad impegnarsi in avventure militari lontano dai suoi confini – contrapposta ad un Impero americano la cui crescita universale non può essere (come nel paradigmatico caso dell’antica Roma) che a discapito degli spazi di democrazia e di libertà che marcano le sue radici. La guerra in Iraq, anzi la guerra senza fine e senza confini, la guerra “preventiva” da Bush dichiarata contro il terrore, pur rivelatasi disastrosa sul piano militare, ha riportato (ed è questo il senso del libro di Chalmers Johnson) più d’un sinistro, ma significativo successo sul fronte interno. Perché Bush è stato, anche, il presidente delle decisioni segrete e delle (non solo segrete, ma illegali) intercettazioni telefoniche. Il presidente di Guantánamo e della distruzione del sacro principio dell’habeas corpus. Il presidente della riabilitazione della tortura e di Abu Ghraib. Il presidente – un presidente “scelto da Dio” – che ha reso labile, quasi impercettibile, la linea, un tempo netta, che separava la Chiesa dallo Stato. Un presidente – probabilmente davvero il peggiore della storia degli Stati Uniti – il cui record comincia ad essere fonte d’imbarazzo anche all’interno del partito repubblicano. Non foss’altro perché George W. Bush è anche il presidente che ha presieduto (e, per molti versi, provocato) la più profonda e, forse, irreversibile crisi del movimento conservatore americano.
Due settimane or sono, nel corso d’uno dei primi dibattiti televisivi tra candidati alla nomination repubblicana, un fatto inatteso ha rotto la monotonia d’una scontata schermaglia tra contendenti tesi a misurare, di fronte ad un’audience di provata fede, le proprie credenziali conservatrici. È accaduto allorché, caduto inevitabilmente il discorso sulla guerra, Ron Paul – che già fu candidato del partito libertario nel 1988 e che del gruppo era l’unico contrario all’avventura irachena – con grande tranquillità espose le ragioni de suo molto radicale dissenso (un dissenso di pretto stampo isolazionista, come vuole la tradizione libertaria) con la politica estera presidenziale. La verità, disse, è che l’America non aveva alcuna ragione di invadere un paese estraneo ai fatti dell’11 settembre. Anche perché lo stesso 11 settembre è stato, a sua volta, il prodotto di una indesiderata ed indesiderabile presenza americana nella regione. Loro hanno colpito noi qui, aveva detto Paul con la serena fermezza dei martiri, perché noi eravamo là. E gli altri candidati – con alla testa Rudy Giuliani, l’ormai alquanto sbiadito eroe del “Ground Zero” – avevano prevedibilmente preso la palla al balzo per dare pubblica testimonianza della propria patriottica fede, gettandosi come lupi famelici (o come repubblicani indignati, ch’è anche peggio) su quella pecora nera. Fu, a prima vista, uno scontato massacro. Ma, nei postumi del dibattito, si scoprì che, in realtà, la presenza del massacrato – le cui possibilità di vittoria erano originalmente valutate qualcosina al di sotto dello zero per cento – cominciava ora, quantomeno ad essere registrata dai radar dei sondaggi. E che – a giudicare dal tam-tam dei “blog” conservatori – il medesimo Ron Paul era divenuto, non certo un favorito, ma una forza con cui fare i conti. In alcuni casi, addirittura una sorta di eroe, una voce coraggiosa, un uomo vero, nel mezzo d’una schiera di burattini…
Ed anche questo è stato, a suo modo, un altro miracolo di Bush il Giovane, il presidente che parla con Dio, il figlio di papà che, prima di lanciarsi nella guerra irachena non sentì alcun bisogno d’interpellare la pragmatica saggezza di Bush il Vecchio perché – parole sue – “già s’era rivolto ad un altro Padre, ben più in alto”. Ron Paul, il candidato che non esisteva, resuscitato come Lazzaro. Anche se un altro era, con tutta evidenza, il prodigio che, invano, i dieci contendenti repubblicani erano sembrati attendersi, nel corso del confronto televisivo, dal “loro” presidente: quello della sua sparizione. Nelle quasi due ore di dibattito, Ronald Reagan era stato, narrano le cronache, citato 75 volte, in una quasi ossessiva gara d’emulazione. Bush, nessuna. Eppure faceva capolino ovunque. Non solo perché sua era la guerra di cui non si poteva non parlare. Ma anche perché sua, di George W. Bush, era la realtà di una potenza militare, vero motore dell’espansione imperiale, oggi ridotta allo stremo proprio dal disastro iracheno, e rianimabile soltanto con la reintroduzione (ovviamente assai impopolare) del servizio di leva. Suoi erano gli oltre tremila morti americani in una guerra che i morti iracheni non si è mai presa neppure la briga di contare. Sua, del presidente in carica, era la responsabilità della esplosione del deficit. Una responsabilità analoga a quella dell’osannato Reagan, certo, ma macchiata da una sostanziale differenza. Reagan aveva tagliato (salvo poi rialzarle) le tasse dell’America ricca, nell’illusoria convinzione, alimentata dalle teorie monetariste, che favorendo il privilegio, le entrate fiscali si sarebbero, grazie alla crescita (ricordate la curva di Laffer?), portentosamente moltiplicate. Bush lo ha fatto, invece, del tutto consapevolmente, per pura, brutale logica classista, quasi reclamando di fronte a un paese che si è impoverito, i diritti del suo censo. E ancora: suoi, di George W. Bush, erano (e sono) i ricordi della debacle politica e morale consumatasi dopo il passaggio dell’urgano Katrina, la realtà – spaventosamente rivelata dalle rovine di New Orleans – d’un sistema di potere che valorizza la fedeltà (o il servilismo) a discapito della competenza; e, nel contempo, quella d’un governo sotto di lui tornato, non solo quantitativamente “grande” dopo la cura dimagrante degli anni di Clinton, ma afflitto, in una scia senza fine di scandali, da croniche forme di clientelismo e di subordinazione alle grandi lobbies.
Questo è il Bush che, il 9 giugno, sbarcherà in Italia. Un fantasma che potrebbe in tutta tranquillità, metaforicamente parlando, uscire dall’Air Force One senza neppure la necessità di aprire la porta dell’aereo. Un ormai etereo, impalpabile pezzo di passato che, tuttavia, ha governato e continua a governare. Poiché proprio questa, al di là della posizione occupata da Bush nella classifica dei presidenti americani, è la vera domanda che l’America va sempre più spesso ponendo a se stessa. “Negli anni venire – ha scritto giorni fa in un editoriale aperto sul New York Times l’economista Paul Krugman – gli storici scuoteranno la testa constatando con quanta facilità l’America, il ‘riluttante guerriero’, si è lasciata condurre verso una guerra dichiarata con falsi pretesti”. Ed ancor più si sorprenderanno osservando come – e questa è storia di queste ore – quello stesso presidente sia riuscito a far continuare una guerra che ha già rovinosamente perduto tornando ad agitare, di fronte alla nuova maggioranza democratica eletta da un paese che vuole la pace, lo straccio del vecchio “bogeyman” , l’uomo nero, lo spettro di quel Osama Bin Laden che, alla vigilia dell’invasione dell’Iraq aveva definito “senza importanza” (“Dove sia non lo so. E la cosa non mi preoccupa molto”, aveva dichiarato, nel marzo del 2003, il gran condottiero della “guerra globale contro il terrorismo”). Ora Bin Laden ed Al Qaeda – che non erano in Iraq prima dell’invasione – sono la ragione per la quale non è possibile ritirare le truppe dall’Iraq. Se noi non colpiamo loro laggiù, loro colpiranno noi qui, ha detto Bush. Un’altra menzogna. Ma tanto è bastato perché i democratici, timorosi di mostrarsi deboli in materia di lotta al terrorismo, purgassero da ogni accenno ad un piano di ritiro delle truppe la legge di rifinanziamento della missione.
Brutto segno. Gli anni di Bush sono evidentemente finiti. Ma il dopo-Bush non è ancora cominciato. E non comincerà davvero fino a quando continuerà la sua guerra. Quello che gli italiani vedranno presto “dal vivo” resta, a tutti gli effetti, un fantasma armato, un pericolo per il mondo.