Muore a 92 anni – senz’ombra di rimorso, Paul W. Tibbets Jr., il pilota che sganciò la prima bomba atomica della storia dell’umanità – Credevadi dare il suo contributo alla fine d’una guerra. Ne stava, invece, cominciando un’altra (che ancora continua)
3 agosto 2006
di Massimo Cavallini
Niente funerali, niente pietre tombali, niente fiori e niente opere di bene. Soltanto cenere. Cenere sparsa nei venti che battono il tratto di mare – la Manica – che separa la Gran Bretagna dal continente. Qui, sotto questi cieli, sfidando gli attacchi degli Sturzkampflugzeug (o Stukas, come venivano chiamati i caccia dell’aviazione tedesca) Paul W. Tibbets Jr. aveva vissuto quelle che considerava le pagine più belle della sua vita di soldato e di pilota. E qui aveva, da molto tempo, deciso di riposare dopo la sua morte. Lontano dalle proteste dei vivi e da quelle dei morti, di nuovo solo tra cielo e mare, avvolto in una miriade ricordi capaci d’assopire e diluire, di fronte all’eternità, il “Grande Ricordo”, la memoria di quella “sberla nel culo” che aveva indelebilmente accompagnato tutta la sua lunga vita…
Paul W. Tibbets Jr. – morto giovedì scorso, a Columbus, nell’Ohio, all’età di 92 anni – è, o meglio, era il pilota al quale, il 6 agosto del 1945, era toccato “l’onere e l’onore” di pilotare l’Enola Gay, il B-29 che, da lui ribattezzato con il nome della madre, alle 8,15 esatte di mattina, avrebbe sganciato, sulla città giapponese di Hiroshima, la prima bomba atomica della storia dell’umanità. E proprio così, come una “sberla nel culo” – “the seat slapped me on the ass” – aveva ricordato in un’intervista rilasciata sette anni fa, il primissimo impatto con gli effetti dell’esplosione. Tibbets aveva, quel giorno, ordini precisi e cento volte simulati prima del volo finale: subito dopo lo sgancio di “The Little Boy” (così la Bomba era stata soprannominata) doveva compiere una virata di 180 gradi ed una difficilissima picchiata di almeno 2.000 metri, necessaria per recuperare la giusta quota dopo il balzo all’insù provocato dalla perdita delle 10 tonnellate dell’ordigno. E proprio questo lui aveva fatto con grande perizia, dando le spalle a quello che il mitragliere di coda, Charles Albury, gli avrebbe poi descritto come “un inferno a forma di fungo”. Ci fu dapprima – racconta Tibbets in “The Tibbets’ Story”, il libro di memorie da lui scritto 20 anni fa – una “luce accecante”. Accecante “come il flash d’una macchina fotografica, ma grande come l’universo”. E poi, in pochi secondi, quel colpo terribile alle spalle, quell’accelerazione violentissima e preannunciata, forte come “lo schiaffone d’un titano”.
Quando, infine, l’Enola Gay si riassestò sulla linea di volo, tuttavia, anche lui, Paul Tibbets, colonnello e pilota, ebbe modo di guardare i paesaggi che il bombardiere s’era lasciato alle spalle. E quel che vide – là dove prima c’era una città – fu “una cosa che friggeva in una nuvola di fumo e polvere color porpora, orribile e terribilmente viva”. Tibbets guardò quello spettacolo e pensò ai morti. A quelli che stavano bruciando nella ribollente massa rossastra sotto di lui. A quelli che aveva visto cadere in cinque anni di combattimenti e, soprattutto, a quelli che morti non sarebbero mai stati. “La guerra è finita”, disse a se stesso. E questo – a giudicare dalle non molte parole che in questi 62 anni ha detto o scritto – è lo stesso pensiero, la stessa “verità” che, giovedì scorso, Paul ha portato con sé nel suo ultimo viaggio verso i cieli che sovrastano la Manica. Poiché di questo “l’uomo che sganciò la Bomba” era convinto quella mattina del 6 agosto del 1945: di star facendo la cosa giusta. E di aver fatto la cosa giusta è rimasto convinto – a dispetto di diffuse leggende che lo davano morto suicida per il rimorso, o sepolto in qualche manicomio – fino all’ultimo dei 92 anni d’una vita vissuta, ha raccontato nel suo libro, “senza perdere una sola ora di sonno”. Dopo Hiroshima, Paul Tibbets ha continuato senza sobbalzi la sua carriera militare, fino al ritiro, con il grado di generale, nel 1966. E poi, trasferitosi a Columbus, nell’Ohio, ha per molti anni – fino all’85, anno della pensione – gestito un servizio di aerotaxi. Una vita lunga e tranquilla, una vita normale, la sua. Normale come quella di tutti gli altri uomini dell’equipaggio dell’Enola Gay. O come quella di Charles W. Sweeney – morto nel 2004 a 84 anni – l’uomo che tre giorni dopo Hiroshima, il 9 agosto, avrebbe sganciato su Nagasaki “The Fat Man”, un altro ed ancor più micidiale ordigno atomico. Riesumando il sottotitolo del celeberrimo “Dottor Stranamore” di Stanley Kubrik, si può, apparentemente, affermare che Tibbets e gli altri hanno davvero, dopo averne visto gli effetti, “imparato ad amare la Bomba. Ed a vivere (e morire) felici”…
Ma qual’era (e qual è) la “verità” del colonnello Paul W. Tibbets Jr.? La storia – la stessa che Harry Truman raccontò all’America ed al mondo (e probabilmente anche a se stesso) subito dopo gli eventi – suona grossomodo così. La Bomba, o meglio le due bombe di Hiroshima e Nagasaki, erano necessarie per evitare una tragica coda della guerra già vinta. Piegato e sconfitto, il Giappone minacciava di resistere fino all’ultimo uomo. Ed i costi umani d’una invasione erano stati calcolati tra le 200.000 ed il milione di vite umane. L’uso della Bomba ha, in effetti- recita questa “verità” – evitato un nuovo e terribile sacrificio alla “Great Generation”, alla grande generazione che aveva fin lì combattuto salvando il mondo dagli orrori del nazismo. Ed ha, in prospettiva, regalato anche al Giappone una possibilità di rinascita nelle vesti di paese democratico e di superpotenza economica. I conti sono presto fatti. Solo qualche settimana prima di Hiroshima e Nagasaki – che congiuntamente, cancellarono, all’istante, tra le 150 e le 240mila vite umane – il bombardamento a tappeto di Tokio, con ordigni incendiari, aveva fatto più di 100mila morti civili. Quanti altri di quei bombardamenti sarebbero stati necessari senza il volo dell’Enola Gay? E, soprattutto: quante altre guerre – guerre mondiali – sarebbero in seguito scoppiate senza l’apocalittico ricordo di Hiroshima? O meglio: senza la forza deterrente dell’ “equilibrio del terrore” che congelò ogni prospettiva di conflitto globale? Dunque: viva la Bomba!, come recitava un grande striscione che, nel 1976, durante un “air show” in Texas, accompagnò, con la convinta partecipazione di Tibbets – e provocando le vibrate proteste dell’ambasciata giapponese – il “reinactment”, la ripetizione simulata, del bombardamento di Hiroshima…
Il “giudizio della Storia” – se mai arriverà – arriverà, ovviamente, solo tra moltissimi anni. Ma un’infinità di documenti usciti dagli Archivi di Stato ha da tempo rivelato come quella “verità” – ancor oggi ripetuta come un ritornello – fosse, in effetti, soltanto una menzogna. La resistenza giapponese non era affatto una prospettiva scontata. Già a luglio, quando ancora mancava quasi un mese ad Hiroshima, l’imperatore Hirohito aveva cercato contatti per aprire trattative di pace prima che, come stabilito a Yalta, l’Unione Sovietica entrasse in guerra contro il Giappone ed iniziasse l’invasione (già pianificata per il 15 agosto). E proprio contro l’Unione Sovietica – e contro la necessità di venire a patti con le pretese espansioniste asiatiche dell’URSS di Stalin – era stata, in realtà, lanciata la bomba. Hiroshima non era un obiettivo militare. Non lo era mai stato e proprio per questo era quasi intatta. Un bersaglio ideale per testimoniare di fronte al “nuovo nemico” le devastanti capacità della nuova arma, tutto il suo potere distruttivo.
Quella mattina del 6 agosto 1945, il colonnello Paul W. Tibbets Jr. era convinto, nel rimirare i “danteschi” effetti della bomba che aveva sganciato, di avere contribuito a far finire una guerra feroce (e di avere per questo – come ora va raccontando tra i venti che soffiano lungo il canale della Manica – “salvato vite umane”). Ne stava, invece, soltanto cominciando un’altra. Una guerra che ancor oggi continua, ben oltre la fine della sua versione “fredda’, svanita con la caduta del muro di Berlino. Una guerra che va riproducendosi, in questi giorni, nelle minacce nucleari del terrorismo e nei contrapposti piani di George W. Bush, deciso a costruire bombe più piccole e, proprio per questo, più “usabili”. Forse nessuno, nei cieli della Manica, riuscirà mai a raccontare al colonnello questa parte della storia che, in vita, lui non ha mai voluto ascoltare. Ma, dal giorno di Hiroshima, il mondo è – tornando a parafrasare Kubrik – costretto a convivere con la Bomba, senza amarla. E proprio per questo, non riuscirà mai più, all’ombra della sua paura, ad essere felice.