Nessuno degli intellettuali che, tre anni fa, propugnò l’attacco all’Iraq come primo passo d’una nuova dottrina (quella della guerra preventiva e della diffusione manu militari della democrazia) ha conservato il posto in un’Amministrazione Bush tornata in mano ai “realisti” – Ma l’America rimane ostaggio delle loro teorie
30 aprila 2005
di Massimo Cavallini
Qualcuno, tra il serio e il faceto, ha di recente proposto d’inserirli nella lista delle speci in via d’estinzione. E certo è che – per quanto controversa resti a tutt’oggi, tra gli esperti, la teoria della loro tendenziale scomparsa – ormai quasi impossibile è trovare un “neocon” di pura razza in quello che, fino a soltanto un paio di anni fa, era a tutti gli effetti il loro habitat naturale. Vale a dire: nei più alti uffici del Pentagono e della Casa Bianca, o ai vertici dei think-tanks che, a destra dello schieramento politico, si dedicano in particolare alla definizione delle strategie geopolitiche. Dove sono finiti i pensatori che, fino a ieri, con tanto baldanzosa arroganza percorrevano i corridoi del potere? Dove sono finite le menti che, solo un paio d’anni or sono, sembravano dover decidere i destini del mondo?
Le cronache parlano chiaro. Alcuni di loro – come Paul Wolfowitz e John Bolton, diventati rispettivamente chairman della World Bank ed ambasciatore alle Nazioni Unite – sono stati sbolognati con qualche affanno in direzione di istituzioni formalmente prestigiose, ma considerate strategicamente del tutto marginali dall’Amministrazione. Altri, come Douglas Feith e Richard Perle hanno semplicemente abbandonato il cono di luce dei riflettori per ripiombare nell’anonimato del lavoro accademico. Ed altri ancora sono repentinamente ed inarrestabilmente scivolati, senza tappe intermedie, dall’Olimpo di Washington DC verso i più infimi ed oscuri anfratti della scala politico-sociale. Non più di un mese fa, nel cercare le tracce dei “neocons” scomparsi, due giornalisti del Wall Street Journal, Jay Solomon e Neil King Jr., hanno finito per ritrovarne uno – Lawrence Franklin, già dirigente del Office of Special Plan and Near East South Asia del Pentagono – all’entrata del Charles Town Races & Slots (un cinodromo con annesso casinò) in West Virginia. Per sbarcare il lunario, il pover’uomo faceva il parcheggiatore. Ed anche questo altro non era, per lui, che un temporaneo impiego, un triste momento di transizione in attesa d’un nuovo ed ancor più ignominioso passo verso gli inferi della personale degradazione: quello che, assai presto, lo porterà in carcere. Molto “estrema” – ma, nella sua eccezionalità estremamente significativa – la sua storia recente. Lo scorso agosto, Franklin è stato infatti condannato in prima istanza a 12 anni di carcere per aver passato ai servizi segreti israeliani informazioni “top secret” relative alle forze militari iraniane. Scopo del gesto (definito “disperato” dai due reporters): creare una situazione che spingesse il governo Bush – ormai in mano agli odiati “realisti”- ad una più decisa politica contro gli ayatollah di Teheran. In attesa del definitivo verdetto, Franklin – che parla correntemente Urdu e Parsi – lavora di giorno come barista in un luogo chiamato Harpers Ferry, e di notte come parking valet, arrotondando con qualche lezione di storia asiatica nella Sheperd University del West Virginia…Così, dunque, sono finiti i neocons. Tutti (chi più chi meno) distrutti – come qualcuno ha scritto – dalle “catastrofiche conseguenze dei loro successi”. O, se si preferisce – volendo parafrasare il grande Petrolini – tutti rovinati dall’andamento d’una guerra da loro fortemente (e, a suo modo, vittoriosamente) propugnata come sanguinoso ma indispensabile parto d’un nuovo ordine internazionale.
La guerra in questione è, ovviamente, quella da tre anni esatti in corso in Iraq. Ed il “neocon” era (anzi, ancora è, nonostante la durezza dei tempi) quell’assai aggressiva e, fino a ieri, come il nome stesso sottolinea, “moderna” variante del genere conservatore che dell’attacco al “regno del male di Saddam” aveva elaborato – già all’indomani della prima guerra del Golfo e, con rinnovato vigore, dopo l’11 settembre del 2001 – non tanto le motivazioni immediate (tutte notoriamente risultate menzognere), quanto le ragioni e le prospettive strategiche. Molti ricorderanno. Punto centrale della teoria neoconservatrice – cresciuta intorno al PNAC, Project for a New American Century – era l’uso senza riserve dell’ormai incontrastata forza economica, politica e, soprattutto, militare degli Stati Uniti d’America per “chiudere i conti con la Storia”. Ovvero: per affermare in ogni parte del pianeta – se necessario manu militari – i principi di libertà e di democrazia che sono propri della storica (o “divina”, come non pochi credono) missione dell’America nel mondo. Gli attacchi alle Torri Gemelle ed al Pentagono altro non erano stati, se analizzati nella loro essenza, che un ovvio segnale della improrogabilità di questa politica. Solo in un mondo libero o, per meglio dire, americanizzato, l’America poteva sentirsi sicura. E l’attacco all’Iraq di Saddam Hussein non rappresentava, in questo quadro, che un primo passo, la scintilla destinata a far divampare il fuoco della democrazia in tutto il Medio Oriente. In un’intervista rilasciata a Vanity Fair nel giugno del 2003, il summenzionato Paul Wolfowitz, allora sottosegretario alla Difesa, era stato molto cinicamente chiaro: la storia della armi di distruzione di massa e dei legami tra Saddam ed Al Qaeda non erano che specchietti per le allodole destinati alle masse, notoriamente poco inclini a digerire le complessità delle strategie planetarie. La guerra, allora ancora nelle sue prime fasi, era, piuttosto, l’inizio d’una marcia di liberazione destinata a continuare ben oltre Baghdad. E, ancor più, era il rosseggiante riflesso dell’indispensabile tramonto d’una concezione della politica internazionale – quella, per l’appunto, del realismo di kissingeriana memoria – fondata su un’asfittica difesa dell’interesse nazionale americano. L’attacco all’Iraq era in effetti un ritorno – aggiornato e, quel che più conta, armato e scremato dai suoi originali vizi “multilateralisti” – all’idealismo della visione Wilsoniana del ruolo internazionale dell’America. O ai lumi della dottrina Monroe (la stessa che, nel diciannovesimo e ventesimo secolo, avrebbe regalato anni di tenebre ad un buon numero di nazioni al Sud del nascente gigante). “Ci accoglieranno come liberatori”, aveva detto Wolfowitz testimoniando ai primi di febbraio del 2003 di fronte al Congresso. Ed il petrolio irakeno, finalmente libero di ritornare sul libero mercato – aveva aggiunto – coprirà in abbondanza le spese d’una guerra che sarà breve e vittoriosa.
Come, in seguito, siano andate le cose, è fin troppo noto. Ma troppo facile, anzi, decisamente sbagliato, sarebbe a questo punto credere che, per descrivere le ragioni del disastro, basti mettere a confronto la realtà della guerra che continua – e che sempre più minaccia di sovrapporsi ad una incontrollata e sanguinosa versione “civile” di se stessa – con le parole e le idee a suo tempo espresse dai neocons, oggi in piena rotta. Condoleezza Rice, il nuovo Segretario di Stato, ha nell’ultimo anno condotto una sistematica epurazione (fonte della disperazione che ha condotto alla rovina il povero Franklin) d’ogni presenza neoconservatrice negli apparati della politica estera americana, ridando spazio alla vecchia guardia realista (ben rappresentata dai suoi due vice, Robert Zoellick e Nicholas Burns). E sta ora, viaggio dopo viaggio, pazientemente cercando di rammendare le maglie del multilateralismo lacerato dalla furia neocon. Ma Condoleezza Rice non era sulla luna quando la guerra era cominciata. Era, al contrario, Consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente. E sulla poltrona di Segretario di Stato c’era, in quei giorni, Colin Powell. Quello stesso Colin Powell che, nel 1992, da Capo degli Stati Maggiori congiunti, aveva diligentemente spiegato, in un celebre articolo pubblicato da Foreign Affairs, le ragioni per le quali saggio era stato limitare alla liberazione del Kwait occupato da Saddam gli orizzonti della prima Guerra del Golfo. Avessimo continuato a marciare fino a Baghdad, aveva scritto Powell con precisione involontariamente profetica, a Baghdad saremmo poi dovuti rimanere, dissanguadoci, per un tempo imprevedibile.
A tre anni dall’inizio della guerra in Iraq, l’ovvia verità è che le tenebrose utopie neocoservatrici prevalsero sul tradizionale “realismo” della politica estera repubblicana – dallo stesso George W. Bush vigorosamente propugnata nel corso della campagna elettorale dell’anno 2000 – perché erano, al tempo, il più appropriato abito d’una politica il cui centro strategico era rappresentato, non dai grandi o piccoli cervelli della politica internazionale, ma da Karl Rove, il grande “architetto” delle campagne elettorali del presidente. Più esattamente: da una politica che aveva bisogno della guerra, non per cambiare il mondo, ma per assicurare la rielezione di Bush e per consolidare la nuova maggioranza repubblicana. In breve: per capire le ragioni per cui la guerra continua, bisogna riandare, non alle ormai dimenticate parole con le quali, nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del 29 gennaio del 2002, il presidente sanzionò, tra gli applausi dei neocons, quella che sarebbe diventata la sua effimera “dottrina” (quella, per la’ppunto della “guerra preventiva”), bensì alle immagini delle celebrazioni della “vittoria che non fu”. Primo maggio dell’anno 2003. Tolda della portaerei USS Lincoln, al largo di San Diego. Bush che sbarca mascherato da pilota. E sotto la torre di comando un grande striscione: “Mission accomplished”…
L’America resta, ancor oggi, ostaggio, non delle grandiose illusioni dei neoconservatori, ma dell’intima mediocrità di quel gigantesco spot elettorale ridicolizzato dalla storia, orfana d’una vera politica internazionale, prigioniera d’una guerra che ormai i due terzi degli americani considerano sbagliata. E di un presidente che, da allora, sta sempre più pateticamente marciando verso il nulla. Molti, anche tra i repubblicani, cominciano a chiedersi se il Paese possa permettersi di seguirlo per altri tre anni.