“Grateful and happy”, colmi di gratitudine e di felicità. Così, stando a Donald J. Trump, presidente degli Stati Uniti d’America, dovremmo sentirci oggi, dopo quella che lui ha solennemente catalogato, giorni fa, in un “messaggio alla Nazione”, come una sua ultima, luminosa vittoria. Ovvero: dopo l’attacco missilistico – conclusosi, per scelta degli attaccanti, senza morti né feriti – dall’Iran lanciato nella notte di martedì scorso contro due basi aeree Usa di stanza in Irak. Ed impossibile è dubitare che, di tanta gratitudine e felicità, proprio lui, il presidente che ha “rifatto grande l’America”, sia nelle intenzioni l’oggetto e la causa.
Ovvia domanda: di che cosa noi tutti, l’America ed il mondo, dovremmo, fatti alla mano, essere grati a Donald J. Trump? Fin troppo facile è la risposta. Facile al punto da poter esser ridotta ad una sola parola: “nulla”, opzionalmente preceduta dall’avverbio “assolutamente”. Ancor più facile, tuttavia, è dire a chi, per contro, debba esser grato Donald J. Trump, dopo le sue ultime performance mediorientali. Più esattamente: ancor più facile è individuare quale sia oggi il paradosso che meglio definisce l’incongruenza, la stupidità, l’imprevedibilità e, per la somma di tutte queste virtù, l’estrema pericolosità non solo della politica anti-iraniana, ma di tutta la (non)politica internazionale dell’attuale presidente del più grande e potente paese del pianeta.
Quale paradosso? In un op-ed (editoriale aperto) pubblicato venerdì scorso dal New York Times, John Kerry, il Segretario di Stato che, con Obama presidente, per due anni discusse e nel 2015 sottoscrisse – insieme all’Europa, alla Cina ed alla Russia, con l’appoggio delle Nazioni Unite – l’accordo con l’Iran (lo stesso che Trump ha “stracciato” nel 2018), l’ha così molto succintamente ed efficacemente riassunto: “La politica estera di Trump ha oggi bisogno che l’inaffidabile regime di Teheran si comporti con ragionevolezza per salvare Trump da se stesso”. E, per dargli ragione, sufficiente è andare a rileggere il proclama col quale, mercoledì scorso, il presidente Usa ha tanto pomposamente reclamato, dichiarandosi vincitore della contesa, la riconoscenza dell’America e del mondo. Proprio la “moderazione” della risposta iraniana all’assassinio del generale Qasem Suleimani è stata, infatti, la conditio sine qua non della sua (molto trumpiana) dichiarazione di vittoria. Ed è proprio alla moderazione dell’Iran, del molto perfido Iran, che restano ora legati i tempi ed i modi d’una escalation bellica dallo stesso Trump provocata e per la quale – a dispetto della loro straripante forza militare, da Trump costantemente vantata con infantile iattanza – gli Stati Uniti non sono, con tutta evidenza, strategicamente preparati.
Come il palazzinaro newyorkese assurto alla presidenza Usa si sia infilato in questo tunnel – trascinandosi dietro il mondo intero – è cosa nota. Denunciando il trattato firmato nel 2015 – un compromesso che, come tutti i compromessi era fatto di luci ed ombre, ma che aveva avuto l’indiscutibile merito di bloccare la scalata nucleare dell’Iran – Trump ha, come Kerry sottolinea nel suo op-ed, “fatto il gioco della strategia di linea dura del generale Suleimani, indebolendo la posizione dei sostenitori della via diplomatica”. Questa “linea dura” Trump ha poi ulteriormente – e probabilmente in modo definitivo – rafforzato, assassinando, o meglio “martirizzando”, l’uomo che, forse più d’ogni altro, ne incarnava l’essenza. Con l’uccisione di Suleimani, Trump ha permanentemente consegnato alla parte più reazionaria ed intrattabile della leadership iraniana – che, terrificante dettaglio, ha ora ripreso la corsa verso “la bomba” – le chiavi del conflitto mediorientale.
È però nel perché della decisione di uccidere Qasse Suleimani che in realtà giace, grigio e pesante come il piombo, il più inquietante aspetto del tutto. Nei giorni scorsi il presidente Trump ed il Segretario di Stato Pompeo avevano giustificato l’omicidio del comandante delle milizie Quds – spesso tra loro contraddicendosi e senza mai trovare riscontro alcuno nella testimonianza dei comandi militari o dei servizi d’intelligenza – agitando lo spettro dell’imminenza di programmati attacchi contro obiettivi Usa. In sostanza: i miliziani di Suleimani stavano per far strage di americani – presumibilmente in una o più sedi diplomatiche – con l’intenzione di provocare una escalation bellica. Ed “urgentemente” occorreva, per “salvare la pace”, eliminare il loro capo. Le prove? Nessuna, a livello di pubblica opinione. Ed anche i congressisti, repubblicani e democratici, che nei giorni scorsi, hanno avuto il privilegio di partecipare ad un briefing informativo a porte chiuse, ne sono usciti sapendone quanto prima. Nessun “imminente e grave pericolo”. Nessun riconoscibile “piano di attacco”. Solo qualche risaputa banalità sulla malvagità di Suleinami e la certezza – dai repubblicani ovviamente negata, ma del tutto ovvia nel contesto della politica americana – che Trump avesse, a tutti gli effetti, “wagged the dog”.
To wag the dog, liberamente traducibile in italiano con “scodinzolare il cane”, deriva da un vecchio modo di dire – “the tail wagging the dog”, la coda che muove il cane – usato per descrivere una situazione nella quale qualcosa, o qualcuno, originalmente giudicato di trascurabile importanza, finisce poi per assumere un ruolo assolutamente decisivo. Ma l’attuale significato, ormai diventato parte inamovibile del gergo politico, lo si deve in realtà ad un film – “Wag the Dog”, per l’appunto, uscito nel 1997 e magistralmente interpretato da Dustin Hoffman e Robert De Niro – nel quale, per salvare se stesso dal montare dei problemi domestici, un presidente s’inventa, con la complicità d’un produttore cinematografico hollywoodiano, una “bella guerra” (in quel caso nella regione balcanica).
Nel 1998, quando il suo processo di impeachment per il caso Lewinsky (ahi, quanto innocente rispetto a quello in corso) stava per entrare nel vivo, Bill Clinton lanciò – come risposta a molto fumose “minacce” – una campagna di bombardamenti contro l’Irak (allora ancora sotto il comando di Saddam Hussein) ed il Sudan. Ed altrettanto sta facendo oggi, con più che solare evidenza, Donald Trump. Con un abissale, macabra differenza, tuttavia, rispetto ad ogni precedente cinematografico o reale. Il presidente di “Wag the Dog” la guerra se l’era inventata di sana pianta, in una operazione di pura “fiction” a fini televisivi. Ed i bombardamenti di Bill Clinton – per quanto assolutamente deplorevoli – non alteravano in realtà alcun esistente equilibrio politico. Scodinzolando il cane con l’omicidio di Qasem Suleimani, Trump ha invece gettato il Medioriente nel caos e spalancato un baratro di fronte al mondo. Piccola, ma a suo modo molto rivelatrice parentesi: nel 2012, quando non era che un palazzinaro pluri-fallito ed un personaggio da reality show le cui ambizioni politiche erano oggetto di scherno, Donald Trump aveva profetizzato, ironia della Storia, che Barak Obama avrebbe dichiarato guerra all’Iran per fortificare la sua campagna presidenziale…
Le prove dello scodinzolamento? Fin troppo facile è scovarle – illuminanti nella loro trumpiana strafottenza – tra le pozzanghere prodotte dalla pioggia dei tweet presidenziali. Ne citiamo qui uno tra tanti: “…perdere tempo con questa burla (l’impeachment n.d.r.) in questo momento storico e mentre io sono tanto occupato, è triste…”. Tanto triste da esser già diventato, nei tweet e nelle parole dei più trumpisti tra i repubblicani, un’aperta accusa di “tradimento alla Patria”.
Il vero problema, la vera tragedia, non sta tuttavia, in questo caso, né nella coda, né nel cane. Sta nel fatto che la crisi in corso è, a suo modo, un punto d’arrivo, la fine d’un processo di trumpizzazione della presidenza Usa. Volendo parafrasare in negativo un’espressione a suo tempo riferita al campionissimo Fausto Coppi, Trump è oggi – come i tempi ed i modi della decisione di uccidere Suleimani dimostrano – un “uomo solo al comando”. Più concretamente: al comando d’una compagine governativa dalla quale sono stati uno dopo l’altro epurati tutti quelli che il politicese made in Usa ama definire “the adults in the room”, gli adulti nella stanza dei bottoni. Gente che, a prescindere dalle posizioni politiche, aveva comunque – come l’ex chief of staff John Kelly, come l’ex segretario di Stato Rex Tillerson e come il segretario alla Difesa james Mattis – la proverbiale testa sulle spalle. Il vero orrore è, in questa storia, nei dettagli. O, più esattamente, nelle parole che Donald Trump, ora libero di qualsivoglia filtro, è andato in questi giorni disseminando a briglia sciolta, annunciando – in risposta alle possibili reazioni iraniane all’omicidio di Suleimani – azioni “sproporzionate” ed “attacchi a siti culturali”. Ovvero; azioni che il diritto internazionale qualifica, senza ambiguità, come “crimini di guerra”.
Soltanto parole? Null’altro che un po’ di trumpiano folclore? Può essere. Nella sua totale assenza di spessore strategico ed affidata com’è ai narcisistici istinti del suo creatore, la politica estera di Trump oscilla da sempre imbizzarrita – vedi il caso del Nord Corea – dalle minacce di “fire and fury as the world has never seen”, fuoco e furia quali il mondo mai ha conosciuto, a scene degne delle celebri vignette di Peynet. “He sent me a beautiful letter and we fell in love…”, mi ha mandato una bellissima lettera e ci siamo innamorati. Il tutto riferito a quel simpaticone di Kim Jong Un, anch’egli oggi in procinto di bruciar tappe nella corsa alla bomba. Ed è un fatto che, giorni fa, dopo che, in un sussulto di dignità, le autorità militari Usa hanno fatto sapere che loro, mai e poi mai commetteranno crimini di guerra, Trump ha, con evidente riluttanza, pubblicamente ritirato la sua minaccia di “sproporzionate risposte”. “I siti culturali non si possono colpire e per noi va bene così” ha detto il presidente rispondendo alla domanda d’un giornalista. E sembrava, mentre parlava, uno di quegli scolaretti che, richiamati dal professore perché tiravano palline di carta contro i compagni, promettono che, sì, non lo faranno più, lasciando però con lo sguardo intendere, le dita incrociate dietro la schiena, che alla prima occasione torneranno smontare la sua biro per usare la cannuccia come cerbottana.
Il governo di Donald Trump – un governo che potrebbe uscire non solo indenne, ma rafforzato dalla prova elettorale del prossimo novembre – ricorda sempre più da vicino uno dei più celebrati episodi di quella che io credo sia una delle più belle serie televisive di tutti i tempi: Twilight Zone, arrivata in Italia nei primi anni ’60 sotto il titolo di “Ai confini della realtà”. In quell’episodio si narrava d’una piccola città per misteriose ragioni tirannicamente governata, con capricciosa e crudele immaturità, da un bambino di sei anni dotato di superpoteri. Tutti, in quella città vivevano nella paura, tutti temevano di contraddire il giovanissimo tiranno, nel timore delle sue puerili ma implacabili vendette. E tutti, nel timore di queste vendette, dovevano dissimular la loro paura ostentando allegria. “It’s a Good Life”, è una bella vita, recitava il titolo, profeticamente riecheggiando la “gratitudine” e la “felicità” che Trump reclama oggi dai suoi sudditi. O l’ “all is well”, il tutto va bene, con il quale il presidente ha commentato i bombardamenti iraniani.
Questo ci dice, in ultima analisi, l’omicidio di Quasem Sulemani: che i destini del mondo sono nelle mani dei capricci un bambino cattivo di 74 anni, e d’una teocrazia in procinto di maneggiare la bomba atomica. Il 2020 non è davvero cominciato sotto i migliori auspici.