Come la corsa per la Casa Bianca e diventata una gara di mascolinità
di Massimo Cavallini
12 settembre 2004
Erano quattro. E non sapranno mai, presumibilmente, d’essersi sacrificate per una buona causa (o, per meglio dire, d’esser state a loro insaputa sacrificate sugli altari d’una causa che tale è considerata dagli esperti d’immagine della campagna democratica). Né mai – essendo il “culto della celebrità” notoriamente apprezzato solo dagli umani vivi – le potrà consolare il fatto d’esser finite, da morte ammazzate, sulle prime pagine d’un buon numero di giornali e nei “flash” d’apertura di tutti i notiziari televisivi. Molti, sicuramente, già l’hanno letto o, ancor più spesso, visto: erano quattro oche selvatiche dalle bianche penne. Ed a mostrarle con orgoglio, ormai senza vita, di fronte agli obiettivi dei media, era il candidato John Kerry, reduce, in abiti mimetici e stivaloni, da “un paio d’ore di caccia in una riserva dell’Ohio, giusto nell’intervallo tra un comizio di campagna e l’altro” (la citazione è dal New York Times). Kerry, aggiungeva con qualche malizia il quotidiano, “non perde, in prossimità del voto, occasione alcuna per rammentare agli elettori la sua passione per la caccia”, da lui a quanto pare coltivata “fin dagli anni dell’infanzia”. Dettagli di non secondaria importanza (sottolineati un paio di giorni più tardi, con ancor più evidente malizia, dalla “columnist” Maureen Dowd, acuta osservatrice e taglientissima penna): le mani di Kerry, molto ben alla vista nelle foto, apparivano ancora sporche di sangue. E (come gli uomini dello staff dello stesso Kerry s’erano premurati di dichiarare alla stampa) due delle quattro oche prematuramente defunte erano “destinate alla spedizione”. Più esattamente: sarebbero state, entrambe, impacchettate ed al più presto inviate al candidato “per il consumo”. Messaggio agli elettori: Kerry non è un cacciatore della domenica. Come le foto dimostrano, non solo spara ed uccide, ma – quando è il caso – non esita a finire le prede con le sue mani. E quindi a mangiarsele (le prede, non le mani), come vogliono le primordiali leggi della caccia. Insomma: John Kerry è un vero uomo. Anzi: è un autentico maschiaccio, un indiscutibile “macho-man” o “manly-man”, contrapposto a quei “girlie-men”, effeminate varianti del sesso maschile, che il di gran lunga “più macho” (o “macho-macho”) degli uomini politici oggi sulla piazza – il neo-governatore della California Arnold Schwarzenegger, ovviamente – ha non più di tre mesi fa bollato in un discorso nel quale aveva, con teutonici accenti, censurato la “mollezza legislativa” del Congresso dello Stato.
Di altre due cose, infatti, le quattro oche non potevano, nella loro selvatica innocenza, aver piena consapevolezza. La prima: che l’Ohio è, per loro disgrazia, uno di quegli “swing States”, di quegli stati in bilico, nei quali ogni voto conta (fossero venute alla luce, per dire, nel non lontano Illinois, stato a solida maggioranza democratica, le poverette si sarebbero quasi certamente salvate). La seconda: che le circostanze in cui si svolgono queste elezioni, hanno, per l’appunto, riportato a galla, con forza mai vista prima, l’importanza, per i candidati, di mostrarsi, non solo uomini, ma “più uomini” del rivale. Ovvero: hanno rivalutato ed esaltato, oltre ogni precedente limite, la politica del machismo. Perché?
La risposta più immediata è: per via della guerra. O, più esattamente, per il fatto che l’11 settembre (e, ancor più, la “guerra senza fine” dichiarata da George W. Bush al terrorismo) ha ridato forza all’immagine dell’eroe virile, all’ “uomo soldato”, tutto forza e coraggio. O, se si preferisce, all’ “uomo-uomo”, come la rivista Vanity Fair definì i pompieri ed i poliziotti – ai quali dedicò la copertina del numero dell’ottobre 2001 – che combatterono (e morirono) tra le macerie del World Trade Center. Gli esperti di pubbliche relazioni dei rispettivi partiti non si sono, in fondo, che appropriati di quest’immagine, aggiornando – o ulteriormente deformando ed ingigantendo – quella che è, per molti aspetti, un’antica e solida tradizione americana (non è per caso che, tra le grandi democrazie del mondo, gli Stati Uniti sono forse l’unica che, nell’ultimo secolo, non ha neppure “rischiato” di eleggere una donna presidente). Gli storici rammentano come, tra le vittime delle accuse di “effeminatezza” vi fu, agli albori della Repubblica, nientemeno che Thomas Jefferson, accusato d’essere “womanish” (prima versione conosciuta dell’attuale “girlie-man”). E come, non molto più tardi, nel 1840, William Henry Harrison vinse la corsa alla Casa Bianca accusando pubblicamente il suo rivale di pratiche decisamente femminee, quali l’indossare il busto e fare troppo spesso il bagno (abitudine, quest’ultima, giudicata allora – corsi e ricorsi della storia – “molto francese”). Adlai E. Stevenson per due volte, negli anni ’50, dette l’assalto alla presidenza come candidato democratico. E per due volte fallì, non ultimo per il fatto che era stato (ufficiosamente, ma implacabilmente) bollato come “Adelaide” dalla campagna repubblicana (che, peraltro, esibiva un “macho DOC”: il generale, ed eroe della Seconda Guerra Mondiale, Ike Eisenhower).
Il punto più rilevante – e, come tale, oggi in particolare evidenza – resta tuttavia questo: nella battaglia per l’affermazione della mascolinità del candidato, i repubblicani godono d’uno storico vantaggio. Perché – per una serie di ragioni che troppo lungo sarebbe spiegare e che, almeno in parte, nessuno ha ancora davvero capito – proprio loro vengono percepiti come il “partito degli uomini”. O meglio: perché da tempo – per dirla con il commentatore televisivo Chris Matthews – il senso comune vede nei democratici il “Mommy-Party”, il partito della mamma, che privilegia l’educazione ed il benessere dei figli, e nei repubblicani il “Daddy-Party”, il partito del papà, bravo nel fare le guerra e nel difendere la casa da ogni pericolo. Il che spiega perché un candidato come Bill Clinton – che mai, nonostante considerevoli sforzi – è stato percepito dall’elettorato come un “macho”, sia riuscito, per ben due volte a vincere le elezioni. Ai suoi tempi – tempi di pace e di prosperità – la figura elettorale predominante era quella della “soccer mom” (la mamma, quasi sempre di reddito medio-alto, con casa nei sobborghi, che porta il figlio a giocare al calcio, uno sport che qui, con la sola eccezione delle minoranza ispana, viene considerato “da signorini”). Oggi il “voto in bilico” più ambito e ricercato è, invece, quello del “NASCAR-dad” (il padre di famiglia, perlopiù a reddito basso, che, ingurgitando birra non d’importazione, si diletta guardando le corse d’auto NASCAR, a tutti gli effetti ritenute una “cosa da uomini”). Insomma: quando si tratta di mascolinità, i democratici sono sempre – per usare una metafora sportiva – costretti ad inseguire. E lo sono particolarmente in queste “elezioni di guerra”.
Ed è proprio su questo solido vantaggio, storico e contingente, che la formidabile macchina propagandistica che circonda Bush (forse la più efficace nella storia degli Stati Uniti) è riuscita a costruire una sorta di capolavoro politico. Poiché tale è, in effetti, l’operazione parallela che è riuscita, da un lato, ad edificare sulla sabbia (sia pur sabbia del “machissimo” Texas) la maschia reputazione di un “figlio di papà” come George W. Bush; e, dall’altro a distruggere, pezzo dopo pezzo, la virilità di John Kerry. Proviamo, per capirlo a partire proprio dal valore – di norma fondamentale per la definizione del grado di machismo – dei comportamenti in combattimento. In un angolo del ring – quello democratico – c’era (e c’è) non soltanto un eroe della guerra del Vietnam, carico di ben 5 medaglie, ma un candidato ben deciso a fare di questa parte delle sua personale biografia il punto di partenza, ed il centro, della sua campagna per la presidenza. Dall’altro – quello repubblicano – c’era (e c’è) un giovane privilegiato che – pur appassionatamente appoggiando le ragioni della guerra perché, come ha ricordato uno dei suoi professori della Business School di Harvard, bisognava “dare una lezione ai comunisti” – aveva usato le connessioni paterne per imboscarsi nella guardia nazionale (dove, peraltro, per un anno intero neppure s’era presentato). Oggi il primo è la femminuccia ed il secondo è l’ “Uomo”. Il primo è il “flip-flopper”, l’indeciso, il codardo. Ed il secondo l’impavido condottiero, il leader “tutto d’un pezzo”. Come è accaduto?
Rispondere è complesso e, insieme, semplicissimo. Complesso perché assai arduo è elencare tutti gli errori – il primo dei quali, probabilmente, è proprio quello d’aver accettato il machismo come terreno di scontro – commessi in questa campagna dai democratici. E, nel contempo, semplice perché la campagna repubblicana – capitalizzando sul passato ed usando l’arma antica, turpe, ma efficacissima della calunnia – è molto semplicemente riuscita a rivoltare contro John Kerry quella che doveva, nelle intenzioni, essere la sua arma vincente. Della sua guerra in Vietnam – e, soprattutto, delle sue successive proteste contro una guerra che, pure, aveva combattuto con onore – John Kerry ha dovuto giustificare ogni dettaglio. Era davvero “sotto il fuoco nemico” quando salvò la vita ad un commilitone (azione premiata con una medaglia d’argento)? Era davvero in Cambogia la notte di Natale del 1969? Era davvero sua la medaglia gettata via durante una marcia pacifista? Il tutto mentre una sapiente distribuzione di immagini, di parole e d’oggetti regalava a Bush, l’imboscato, un’inattaccabile corazza di mascolinità. Fatta di nulla eppur invulnerabile. Per “esser uomo” – o meglio, per apparir tale – al presidente bastava poco: farsi vedere nel suo ranch di Crawford mentre, sega elettrica in mano e cappello da cow boy in testa, sfoltiva il sottobosco; esaltare con un ghigno il suo “swaggering”, quell’incedere ondeggiante da pistolero che – come recita una delle battute preferite dal presidente – “noi in Texas chiamiamo camminare”. Persino la sua antica passione per il bere (poi superata grazie all’incontro con Gesù Cristo) è stata spiegata, in un pezzo di propaganda, come il riflesso di “una gola riarsa dalla sabbia del Texas”…
Bush “uomo” per antonomasia. Bush che, sullo sfondo della carcassa delle Torri Gemelle, mette il suo braccio forte sulle spalle del vecchio pompiere mentre con l’altra regge un megafono. Bush che, senza timori, lancia la palla d’avvio nello Yankee Stadium nella prima partita dopo la strage. Bush che saluta la folla in maniche di camicia. Bush che prega con virile concentrazione. Bush, l’uomo, o meglio, il maschio testardo che Dio ha voluto alla Casa Bianca per guidare, senza dubbi o cedimenti, la guerra contro il terrorismo…E, contro di lui, un omarino molliccio, un “liberale del Massachusetts” che “sembra un francese”. E che, come una scimmia, cerca invano di sembrare uomo, come una scimmia sprofondando, ad ogni tentativo, nel ridicolo. Anche quando, travestito da cacciatore, sacrifica le quattro oche selvatiche. Anche quando si fa fotografare a bordo di una Harley Davidson, o segue alla televisione, lattina di birra alla mano, la partita di baseball dei Red Socks. Sempre sbeffeggiato, sempre bersaglio – in materia di machismo – d’una implacabile macchina di derisione…Poco prima del primo dibattito televisivo (quello che Bush, abbandonato a sé stesso ed al suo non formidabile quoziente d’intelligenza, più clamorosamente perse), i commentatori di Fox News – la più repubblicana e, dunque, la più “maschia” delle reti di notizie televisive – per ore dileggiarono il fatto che, in vista della prova, Kerry s’era “fatto fare la manicure”. La notizia risultò, poi, del tutto falsa. Anzi, risultò essere soltanto l’invenzione scherzosa di un cronista privo di humor. Ma, come si dice, tutto fa brodo…
Non ogni ciambella di questo gioco d’immagini riesce, ovviamente, col buco. E, di tanto in tanto, la realtà delle cose riesce a far breccia, come un lampo di luce, oltre l’intonaco della propaganda. Chi ha visto il film “Fahrenheit 9/11”, certo non ha dimenticato la scena dei famosi sette minuti d’attonito silenzio di Bush quando, l’11 settembre del 2001, nella scuola della Florida, gli comunicarono che “il paese era stato attaccato”. Quelle sequenze ebbero un effetto devastante, non tanto per quello che mostravano in superficie, o per le cronologiche dimensioni dello sbigottimento del presidente, quanto per quello che, chiarissimo, si vedeva attraverso lo sguardo perduto del “commander in chief”: un bambinone viziato ed impaurito, il “nulla” oltre l’involucro d’una macchina elettorale perfetta, l’uomo vero sotto la finzione del “macho”. George W. Bush sorpreso, al risveglio, senza belletto, immortalato, finalmente, in un’istantanea che non fosse una “photo-op”
Questo si vedeva nel film. Ma quanti elettori, il prossimo 2 di novembre, si ricorderanno di quell’immagine?