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Martin Luther King, mezzo secolo dopo

Esattamente cinquant’anni fa, alle ore 6 e un minuto del pomeriggio, Martin Luther King moriva ammazzato sul balcone antistante l’entrata della camera numero 306 del Motel Lorraine, a Memphis, nel Tennessee. E chi oggi ritorna sul luogo del delitto non ritrova, all’ombra dei nuovi grattacieli del “downtown” e nella fredda luce dei neon che illuminano Beale Street, che la memoria imbalsamata di quel giorno. Tutto com’era allora. Tutto meticolosamente uguale. La balconata, il numero della stanza, il colore delle pareti, il cortile e, oltre la strada, la Bessie Brewer boarding house da una delle cui finestre era partito il colpo mortale. Tutto al suo posto, diligentemente pietrificato nella religiosa immobilità d’un museo – il National Civil Rights Museum – che pur non vantando la marmorea solennità d’un monumento, come un monumento (o come un mausoleo) ha il compito di congelare, nella fredda ed artefatta realtà del mito, il senso ultimo, le più profonde ragioni del ricordo. L’uomo condannato per quell’omicidio, James Earl Ray, è morto in carcere vent’anni fa (il 23 aprile del 1998), in quasi perfetta coincidenza con il trentesimo anniversario dell’assassinio. Ed è, a suo modo, morto innocente. Non per la legge, com’è ovvio, ma per se stesso e, quel che più conta, per la famiglia e per i più stretti seguaci dell’uomo al quale quel monumento è dedicato. Pochi credono che davvero sia stato lui – James Earl Ray, un piccolo e maldestro criminale latitante, uno scialbo personaggio estraneo ad ogni ideologia razzista – a sparare il colpo di fucile che, il 4 aprile del 1968, ha ucciso quella che è oggi un’intoccabile icona, un “santino” quasi, della storia ufficiale americana. E praticamente nessuno – nemmeno il House Selected Committee on Assassination, la commissione d’indagine creata dal Congresso nel 1976 – ha in questi anni sposato quella teoria dell’ assassino solitario (“one crazy man”) che nel marzo del ‘69, senza un vero processo, ha chiuso il caso con i 99 anni di carcere inflitti a Earl Ray.

Come l’attentato che, a Dallas, uccise John Fitzgerald Kennedy, e come quello che due mesi appena dopo Memphis, avrebbe stroncato la corsa presidenziale di Bob Kennedy, anche l’assassinio di Martin Luther King si muove in un cono d’ombra popolato dai fantasmi di troppe incongruenze e strane coincidenze, dal lo sfregio d’una condanna definita (extra giudizialmente, come si dice in gergo) sulla base d’una confessione che sarebbe stata subito dopo ritrattata, dai fumi fetidi d’una verità prima negata e, poi, cristallizzata in una edificante leggenda. Eppure, non c’è dubbio: per cogliere il significato più autentico di questo anniversario – quello che i mausolei ed i “santini” tendono a nascondere – occorre davvero “tornare a Memphis”. Non per visitare il museo dei diritti civili sorto sul luogo del delitto, ma per ritrovare le ragioni che, in quel giorno d’aprile, avevano spinto il reverendo Martin Luther King verso la più grande città del Tennessee.

C’era uno sciopero in corso a Memphis, in quell’inizio di primavera del 1968. E non si trattava d’uno sciopero qualunque. Ad incrociare le braccia erano stati, tre settimane prima, gli ultimi degli ultimi. Ovvero: i lavoratori delle immondizie, 1200 anime, uomini “invisibili” in grande maggioranza di pelle nera, che, lungo le strade secondarie o immersi nelle fognature, raccoglievano i rifiuti della città. E che come rifiuti vivevano o, non di rado, morivano. Proprio per questo, infatti, la sera del 12 febbraio, lo sciopero era cominciato. Per il cattivo funzionamento d’uno dei camion della raccolta, due lavoratori erano stati risucchiati, come immondizia, dagli ingranaggi che triturano il sudiciume. Le cose che i “garbage men” chiedevano erano legate, nel modo più semplice e diretto, alla difesa della vita e della dignità umana. Chiedevano più sicurezza. Chiedevano una doccia per potersi lavare al termine del turno di lavoro ed un posto dove poter orinare. Chiedevano orari meno massacranti (la giornata lavorativa poteva arrivare a 14 ore, senza straordinari) e salari che consentissero di sopravvivere. Chiedevano la fine della discriminazione (solo ai lavoratori di pelle bianca venivano pagate le giornate perdute a causa del maltempo). Ma per il sindaco della città, Henry Loeb – un personaggio il cui ritratto spicca nella galleria dell’America più reazionaria e razzista – erano soltanto dei “comunisti”, nemici della Patria e dell’ordine. Sovversivi da rimettere al loro posto. La sua amministrazione aveva compensato con un mese aggiuntivo di salario (300 dollari) e con un assegno di 500 dollari le vedove dei due lavoratori morti. E tanto doveva bastare. Nessuna concessione, nessuna trattativa.

Il Martin Luther King che era disceso a Memphis per dare il suo appoggio ai lavoratori in lotta era già, a tutto tondo, una “celebrità” politica. Ma era, nel contempo, un uomo molto diverso da quello che nel 1964 aveva ritirato – a riconoscimento della sua battaglia per i diritti civili dei negri d’America – il premio Nobel per la Pace. E molto diverso, anche, da quello del “Bloody Sunday” di Selma, punto culminante, nel marzo del ’65, della battaglia contro l’apartheid. Lo sfondo della sua visita – uno sfondo turbolento, luminoso e cupo al tempo stesso – era quello del 1968, l’anno nel quale tutti i nodi della Storia d’America era parsi collidere nel medesimo crocevia. L’anno cruciale della protesta contro la guerra nel Vietnam. L’anno della ribellione nei campus, delle rivolte nei ghetti urbani e, sull’altra sponda, l’anno del consolidamento della “maggioranza silenziosa”. Martin Luther King era, in quei giorni di fuoco, un uomo alla ricerca di nuovi cammini, di nuove verità. Ed era, a suo modo, un uomo solo.

Esattamente un anno prima di quello che sarebbe diventato il giorno della sua morte, il 4 aprile del 1967, nella Riverside Church di New York, King aveva definito in un memorabile discorso – consegnato alla Storia sotto il titolo “Beyond Vietnam”, oltre il Vietnam – le ragioni filosofiche, politiche e religiose della sua opposizione ad una guerra “assurda ed ingiusta”. E questo aveva tagliato, in pratica, tutti i ponti che, nel corso della battaglia per i diritti civili, erano stati gettati tra lui ed il presidente Lyndon Johnson. O, per meglio dire, tra lui e l’establishment bianco. “Calunnie demagogiche che assomigliano a comunicati di Radio Hanoi”. Così il settimanale Time aveva definito le sue parole contro la presenza americana in Vietnam. E subito il Washington Post aveva fatto eco sottolineando come quelle stesse parole avessero irrimediabilmente “sminuito l’utilità della causa” di cui King era divenuto simbolo. Tra i neri d’America era, intanto, andata crescendo l’influenza di quelle che King chiamava “le sirene della separazione e della violenza”. Vale a dire: la forza del “Black Power” che ratificava la “inconciliabilità” tra gli interessi dell’America nera e quelli dell’America bianca, rimarcando la necessità del ricorso alla forza. In questo quadro la nuova e tormentata frontiera di Martin Luther King si chiamava, in quella primavera del 1968, “Poor People Campaign”, campagna contro la povertà. E, contro la povertà, contro la “umiliazione del bisogno e della diseguaglianza” King stava cercando di forgiare una nuova coalizione sociale “senza distinzione di razza” capace, senza violenza, di “ricostruire la società americana” sulla base del nuovo paradigma d’una “giustizia che non ha colore”. Ed il suo obiettivo era, per l’appunto, come nel 1964, una nuova grande marcia su Washington. Una marcia per la pace e la giustizia.

Non era la prima volta che King arrivava a Memphis. Solo due settimane prima, il 18 marzo, proprio lui aveva condotto un corteo per le vie della città. Ed aveva, in quell’occasione, potuto ascoltare e vedere le “sirene della separazione e della violenza”. Ai margini della manifestazione, gruppi di giovani – chiamati “The Invaders”, gli invasori – avevano fracassato vetrine e rovesciato automobili, consentendo alla stampa locale e nazionale di definire “il pacifista reverendo King” come un proverbiale “lupo nella pelle d’agnello”. Martin Luther King era dunque tornato tra gli uomini della spazzatura, tra gli ultimi degli ultimi, per ribadire, una volta di più, il suo “sovversivo” credo di non violenza, la sua fede in una giustizia sociale che fosse, senza distinzioni, giustizia per tutti. La sua idea di un’America nella quale finalmente, come recita la Dichiarazione d’Indipendenza, “tutti gli uomini sono creati uguali”.

Raccontano le cronache come King fosse arrivato in città, esausto dopo un lungo viaggio, la sera del 3 di aprile. E come avesse, per stanchezza, deciso di non partecipare all’assemblea che, quella notte, era stata programmata nel Mason Temple, affidando a Ralph Albernathy, il più in vista dei suoi seguaci, il compito di parlare alla gente. Ma non ci fu nulla da fare, i “garbage men” di Memphis volevano sentire lui e solo lui. Sicché a King altro non rimase che lasciare la sua stanza d’albergo e, giunto nel Mason Temple, improvvisare un discorso. Fu così, seguendo d’istinto il filo dei suoi pensieri e dei suoi tormenti , che pronunciò parole (le sue ultime) destinate a restare – come si usa dire – scolpite nella pietra. Parole piene di poesia e di forza. Parole profetiche. Gli annali rammentano quel discorso sotto il titolo “I’ve been to the Montaintop”, sono stato in cima alla montagna. Ma al centro del discorso c’era – come spesso nei discorsi di King – una parabola evangelica: quella del buon Samaritano che, lungo la strada che porta Gerico, assiste un viandante derubato e picchiato dai banditi. Anche l’America, aveva detto King, sta camminando lungo la via Gerico, tutti noi, bianchi, neri, gialli e marroni, stiamo camminando lungo la via Gerico…

Martin Luther King aveva parlato anche di se stesso, del suo cammino. Ed aveva raccontato del giorno in cui, a New York, una squilibrata lo aveva accoltellato. La lama, disse, era penetrata nel petto e si era fermata a meno di un millimetro dall’aorta. Sarebbe bastato uno starnuto e lui sarebbe morto dissanguato. Ma così non fu. Ed oggi – aveva aggiunto – “sono contento di non avere starnutito perché ho potuto continuare a camminare lungo la strada di Gerico”. Perché ho potuto vedere il boicottaggio degli autobus di Montgomery e la resurrezione della grande marcia su Washington. Ho potuto vedere Selma. Sono contento di non avere starnutito perché ho potuto venire qui, a Memphis, dove altri viandanti, picchiati ed umiliati, hanno bisogno di amore e di giustizia. “Non so quel che accadrà ora…ma non m’importa perché io sono stato in cima alla montagna…Anch’io, come tutti, vorrei vivere una lunga vita…ma non è a questo che penso ora, perché io voglio fare la volontà di Dio. E Dio mi ha permesso di raggiungere la cima della montagna. E dalla montagna io ho guardato ed ho visto la terra promessa. Forse io non la potrò raggiungere insieme a voi. Ma voglio che voi sappiate che noi, come popolo, raggiungeremo la terra promessa. E per questo, stasera io sono felice. Sono felice e non ho paura di nulla, non temo nessuno. Perché i miei occhi hanno visto la gloria e l’avvento del Signore”.

Il giorno dopo, Martin Luther King moriva ammazzato. Ed oggi nel luogo della sua morte sorge un museo. King – il sovversivo King che sobillava gli uomini della spazzatura e che il Fbi perseguitava – è diventato “patrimonio nazionale”. Ed in una della sale, un manichino-robot ripete incessantemente le parole finali del suo ultimo discorso. Parole intatte nella loro potenza evocativa. Ma l’America che l’ascolta – un’America finita nelle grinfie d’un ciarlatano miliardario che, nella sua campagna elettorale è tornato a cavalcare la tigre del razzismo e della xenofobia  – è, oggi, molto più diseguale ed ingiusta di quella che mezzo secolo fa fu testimone dell’assassinio di Martin Luther King. La terra promessa che il reverendo aveva visto dalla cima della montagna, appare più che perduta oltre gli orizzonti della retorica e del mito.  Lontana. Irraggiungibile.

 

 

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