Molti (e tra questi chi scrive) avevano, lungo questa interminabile campagna elettorale, pensato che fosse un incubo, una di quelle storie che – avete presente l’interminabile serie dedicata al diabolico Freddy Krueger di Elm Street? – tante volte ci hanno regalato i più classici film dell’orrore. Il “mostro” sembra – una, due, dieci volte nell’incedere della trama – morto, finito, esorcizzato, restituito per sempre al regno del male. E per una, due, dieci volte il “mostro” riappare, più vivo e feroce che mai, terrificando una platea ad arte rilassata.
Proprio così erano, fino a ieri, andate le cose: nel corso di questa maratonica corsa verso la Casa Bianca, Donald J. Trump – il bancarottiere seriale Donald J. Trump, Trump il “bullshit artist” che in questi lunghi mesi di campagna elettorale aveva, quasi giorno, arricchito di nuovi e più profondi significati il termine “volgarità”, Trump il più indiscutibilmente impreparato ed “ineleggibile” aspirante alla presidenza dell’ormai lunga storia degli Stati Uniti d’America – era, una, due, dieci volte, sembrato morto, il più delle volte per suicidio, sepolto dalla permanente slavina d’una incompetenza tanto ovvia quanto sfoggiata con inedita grossolanità e, nel contempo, dalla monumentale quantità di sterco di toro (il “bullshit’, per l’appunto, come in gergo vengono definite le più sfacciate menzogne) da lui prodotta, non solo come candidato ma, forse ancor più, come “imprenditore di successo”. O, più propriamente come “con man”, imbroglione, secondo la molto azzeccata definizione che di lui ha dato un imprenditore vero, Michael Bloomberg, ex sindaco di New York. Ed una, due, dieci volte, “Trumpzilla” era poi riemerso, sondaggio dopo sondaggio, dalle profondità nelle quali pareva esser precipitato. Vivo e “competitivo”, nonostante tutto.
Oggi l’incubo è finito. L’America s’è svegliata ed ha scoperto che Freddy Krueger è, contro ogni attesa, il presidente della Nazione. Più esattamente: ha – a dispetto di “tracking polls” che non davano al candidato repubblicano più del 25 per cento di possibilità di vittoria e del fatto che Hillary aveva ottenuto, oltre la logica assurda dei collegi elettorali, la maggioranza del voto popolare – scoperto d’avere, lei stessa, eletto presidente Freddy Krueger, trasformando l’incubo in una tangibilissima, ineludibile realtà. Trump ha vinto e per almeno quattro anni governerà la nazione più potente del mondo. Quello che molti (e tra questi chi scrive) avevano definito come il sintomo d’una malattia – quella che oggi affligge la democrazia americana e, a livello globale, il concetto stesso di democrazia – è diventato il medico curante. E – per quanto spaventose appaiano le circostanze – bisognerà farsene una ragione.
Capire quel che è accaduto, quello che sta accadendo e quel che accadrà, è ovviamente difficile. Anche se molto facile è prevedere le banalità – i vari “io l’avevo detto” – che ci accompagneranno nei prossimi mesi. Qualcuno ci parlerà del “grido di dolore” – quello di un’America dimenticata – di cui Trump-Krueger si è fatto interprete. Una tesi, questa, statisticamente sbagliata – vedi questa analisi di Nate Silver, forse il più acuto osservatore delle tendenze elettorali, nonché l’unico che avesse alla vigilia concesso a Trump concrete chance di vittoria – e comunque incapace di spiegare le ragioni per le quali questa America diseredata abbia potuto prima credere a, e poi votare per, il più visibile tra i rappresentanti del capitalismo più esibizionista e cialtrone, quello che la ricchezza te la sbatte in faccia con la più pacchiana delle ostentazioni. Qualcuno tornerà all’attacco di Hillary (una persona che, al contrario, io ho imparato ad amare come si può amare l’unica barriera che ti separa, Goya docet, dal caos del sonno della ragione) e della sua perlopiù inventata o ingigantita “corruzione” (una gocciolina nel mare, rispetto corruzione di cui Trump è simbolo). Altri – quelli che io chiamo i trumpisti-leninisti – si rallegreranno per il fatto che Trump è la prova d’un irreversibile declino della “tirannia del capitale” (un atteggiamento, questo, che, notoriamente, dette splendidi risultati nella Germania degli anni ’30). Ed altri ancora citeranno, per l’appunto, Adolf Hitler come inquietante antecedente di questo democratico trionfo del Male…
No, Trump non è Hitler, anche se la sua candidature ha fatto leva sui peggiori sentimenti – la xenofobia, il razzismo, il nativismo, la misoginia, l’intolleranza – che da sempre scorrono nelle vene della democrazia americana. E per capirlo basta dare un’occhiata al suo “Mein Kampf”. Ovvero a quel “Art of the Deal” – dal medesimo Trump senza alcuna ironia definito “il più grande libro scritto dopo la Bibbia” – che potrebbe tranquillamente esser tradotto con “l’arte di imbrogliare il prossimo”. Magari arricchendo questa celestiale lettura con quella della fondamentale e molto “filosofica” intervista che il nuovo presidente degli Usa rilasciò nel 1990 a Playboy, spiegando come l’esibizione d’una ricchezza non necessariamente autentica – auto di lusso, yacht, champagne e belle donne – fosse una componente della sua “arte del negoziato”. Donald Trump è in realtà soltanto – tornando alla definizione di Bloomberg – un “con man”, un imbonitore da baraccone (“carnival barker” lo ha felicemente definito qualcuno) un imbroglione megalomane e vanitoso, una “tabula rasa” ideologico-politica convinta che l’imbroglio sia l’unica forma di governo possibile. E che lui soltanto – “I’m alone can fix it”, io solo posso mettere a posto le cose, gridò mesi fa dal podio della Convention repubblicana – sia in grado di praticarla appropriatamente. Il problema è che, da domani, sarà il dito indice di questo “carnival barker” a poggiare sul rosso bottone che può scatenare una guerra nucleare. O che – volendo, per misericordia, evitare apocalittiche prospettive – sarà in ogni caso questo dito ad indicare, da domani, i destini di un mondo nel quale la democrazia e la tolleranza sembrano di giorno in giorno più propensi a commettere suicidio.
La storia della Germania (o quella di altre democrazie auto-immolatesi) non si ripeterà in America, né in forma di tragedia, né in forma di farsa. Ma non c’è dubbio che ieri l’America ed il mondo sono entrati in un tunnel del quale non s’intravvede l’uscita. Fossi un credente, comincerei a pregare.