“La nostra lunga notte di dolore e di violenza è finita” aveva annunciato il presidente Juan Manuel Santos lo scorso 26 di settembre di fronte ai dignitari del mondo intero convenuti a Cartagena per assistere alla cerimonia della firma del trattato di pace tra il governo colombiano e le Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias Colombianas). Ed il mondo intero aveva applaudito. Ma Santos si sbagliava. E con lui si sbagliava il mondo intero. Perché ieri, 2 ottobre, la Colombia ha detto “no” alla pace. O meglio: alla pace – a quella pace che sembrava inevitabile e logica, quella pace che il mondo già aveva celebrato come “irreversibile” – ha detto “no” il 50,23 per cento dei poco più di 13 milioni di colombiani (meno del 40 per cento degli aventi diritto) che si sono recati alle urne per approvare o respingere gli accordi sottoscritti a fine agosto All’Avana, al termine di quattro lunghi e tormentati anni di trattative. La pace ha perso. Dopo più di mezzo secolo, oltre 200mila morti (per i due terzi civili) e quasi otto milioni di desplazados, la guerra continua. Continua la notte. Continuano il dolore e la violenza.
Juan Manuel Santos ha accolto la notizia della sconfitta con una sorta di forzato ottimismo. Non mi rassegno, ha detto in sostanza. La pace – la “pace che tutti cerchiamo” – resta, per me e per il mio governo, l’obiettivo da raggiungere. Ed è per questo che la commissione negoziatrice già è partita per l’Avana per studiare con la controparte, le Farc, la possibilità d’una ridefinizione degli accordi alla luce del risultato del referendum…Ovvero: per fare qualcosa che entrambe le parti avevano, alla vigilia, drasticamente escluso. Quegli accordi, giocati su complessi equilibri raggiunti dopo anni di altrettanto complesse discussioni, s’era detto, non sono in alcun modo rinegoziabili. E l’unica possibile alternativa è un incerto ritorno allo status quo. Più esattamente: allo status quo d’un paese che, nonostante le celebrazioni e gli annunci, ancora è in guerra. In guerra e, da ieri, con sulle spalle il peso aggiuntivo, la ferita d’una storica – forse irripetibile – occasione perduta. Democraticamente, masochisticamente perduta.
Che cosa accadrà ora? Torneranno le Farc – che già avevano annunciato il proprio “definitivo” disarmo in una assemblea generale in quel del Caguán – nei loro accampamenti per ricominciare a combattere? Difficile dirlo. Ed ancor più difficile è rispondere alla più importante delle domande. Perché ha vinto il “no”? Che cosa ha spinto più di sei milioni di colombiani – una risicatissima ma vincente parte della minoranza che si è recata alle urne – a “scegliere le tenebre della notte”? E, se i colombiani (quelli che hanno votato) hanno scelto le tenebre, chi di queste tenebre è stato il vero “principe”? Insomma: chi, oltre alla guerra, al dolore ed alla violenza, ha vinto ieri notte?
Gli accordi firmati all’Avana – 297 intricatissime pagine – erano, come ogni accordo, frutto d’un compromesso. E, come ogni compromesso, non sono, a conti fatti, che una somma di imperfezioni che, se singolarmente esaminate, possono dar adito a più che legittimi dubbi, arrivando poi tuttavia, al di là d’ogni ragionevole dubbio, ad una conclusione chiarissima, perfettamente comprensibile: le Farc, la più antica guerriglia marxista del continente, dopo ben più di mezzo secolo, avrebbero lasciato le armi per la politica. E l’avrebbero fatto sulla base di regole che – specie se paragonate ai due più significativi precedenti colombiani: la smobilitazione del M19 nei primi anni ’90 ed il più recente ed ancora inconcluso processo di “Paz y Justicia” che, a partire dal 2005, ha portato al disarmo delle feroci formazioni paramilitari delle Auc (Autodefensas Unidas de Colombia) – appaiono molto più rigorosamente definite. Dopotutto a favore dell’accordo s’era pronunciata anche la stragrande maggioranza delle vittime (della guerra in generale e delle Farc in particolare)…
La verità è che il “no” della Colombia è stato qualcosa di più e di peggio d’un “no” a quel documento intricatissimo nella sua formulazione, ma più che chiaro nelle sue conclusioni. E per coglierne a fondo il significato occorre analizzare gli argomenti, o meglio, i sentimenti – il rancore, la paura – sui quali ha fatto leva il “principe della notte” di cui sopra. Vale a dire: l’indiscusso leader della campagna per il “no”, l’ex presidente Alvaro Uribe, tenebroso personaggio che, proprio come “angelo della guerra” contro le Farc, ha governato il paese tra il 2002 ed il 2010. Uribe ha vinto, in sostanza, perché è riuscito a trasformare quello che doveva essere un plebiscito a favore o contro gli accordi di pace, in un referendum pro o contro le Farc. Ossia: pro o contro una replica del “chavocastrimo“ (o “castrochavismo, permini entrambi assai cari ad Uribe) in chiave colombiana. “Vuoi Timoshenko – il comandante supremo delle Farc n.d.r. – per presidente? Vota sì”, era il più ripetuto degli slogan.
Quello che ieri ha – sia pur di pochissimo – prevalso nelle urne è, in realtà, una idea molto semplice. Semplice e menzognera. Quella secondo la quale gli accordi dell’Avana avrebbero non solo garantito impunità ai guerriglieri (cosa logicamente inevitabile in qualsivoglia accordo di pace), ma avrebbero anche inevitabilmente aperto le porte del potere alle Farc, identificate, contro ogni verità storica, come l’unica fonte d’ogni male, d’ogni dolore e d’ogni violenza lungo i molti decenni della guerra.
Tutte le analisi delle innumerevoli violazioni dei diritti umani commesse in Colombia durante questo conflitto infame ed interminabile sono a questo proposito inequivocabili: le Farc ne hanno, per così dire, fatte di tutti i colori (dai sequestri, al narcotraffico, dal reclutamento forzoso di minori, alla indiscriminata disseminazione di mine anti-uomo); ma i più gravi peccati mortali sono, da sempre, quantitativamente e qualitativamente, in forma diretta o indiretta attraverso formazioni paramilitari e sicari, a carico dello Stato. Solo un esempio (che tra l’altro chiama direttamente proprio il “principe delle tenebre”). Tra il 2002 ed il 2010, regnante Alvaro Uribe, si sono registrati in Colombia, almeno 3.000 “falsos positivos”. Nel linguaggio di tutti i giorni: tremila poveri disgraziati (disgraziati e disarmati, perlopiù contadini) assassinati a freddo dall’esercito e fatti passare per guerriglieri uccisi in combattimento.
E proprio questo è, se vogliamo, il lato più tragico e triste del voto: è questa Colombia – quella dei “falsos positivos” – la vera vincitrice. Forse, come Santos ha sostenuto conosciuto l’esito del referendum, la pace non è ancora morta. Ma l’aurora annunciata il 26 settembre a Cartagena appare oggi lontana. Anzi: è più lontana che mai.