Fu, dopo anni di lotta clandestina nelle fila del FSLN, il primo presidente del Nicaragua che, nel luglio del 1979, aveva finalmente liberato sé stesso dalla lunga tirannia dei Somoza. E fu anche il presidente al quale toccò, fino alla sconfitta elettorale del 1990, guidare un paese aggredito ed assediato da una superpotenza, gli Stati Uniti d’America, abituata a considerare (ed a trattare) il Centro America come un’aiuola del suo “cortile di casa”. Ora – a quasi un quarto di secolo da quei giorni – Daniel Ortega è ancora, anzi, è più che mai presidente. Lo è, per l’esattezza, dall’anno del Signore 2007, grazie al 38 per cento dei voti col quale, al termine d’una lunga stagione di tentativi falliti e di molti squallidi compromessi, sconfisse i candidati di un Partito Liberale diviso. E presidente – è fin troppo facile prevederlo – Daniel Ortega resterà per molti anni a venire. O per sempre, dovessero realizzarsi nella loro plenitudine quelli che sono gli ovvi propositi degli emendamenti costituzionali che, con assai allegre procedure, un Parlamento da Ortega controllato ha approvato alla fine di gennaio. Peccato, tuttavia, che di “quel” Daniel Ortega – il primo dei nove comandanti che guidarono la resistenza (armata e non) che infine costrinse alla fuga “Tachito” Somoza ed i suoi gerarchi – non vanti che una molto arrugginita somiglianza fisica. Quanto basta per rendere ancor più triste la sua attuale somiglianza politica con il Somoza che contribuì a cacciare 35 anni orsono. Il Nicaragua del quale Daniel Ortega si appresta a diventare “presidente a vita” non solo non è il paese socialista sognato da molti sandinisti, ma non è più nemmeno una democrazia. È, in effetti, soltanto un regime ibrido nel quale tutti i poteri sono controllati dall’esecutivo, una sorta feudo familiare, caratterizzato da un capitalismo ultra-clientelare e corrotto.
In questo articolo per Infolatam, Rogelio Nuñez ripercorre le tappe di questa desolante involuzione.