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Habana, caput mundi

I cinque giorni del summit della CELAC, dal 25 al 29 di gennaio, hanno rappresentato, per Cuba, un successo politico-diplomatico senza precedenti. Non tanto per il buon esito d’un vertice dal quale non sono usciti che generici impegni di lotta contra contro la povertà, la diseguaglianza ed i pericoli di guerra, quanto per le ragioni storiche che hanno spinto le 33 nazioni del CELAC – un’entità ancora molto più prossima a un’idea in fieri che ad una vera e propria organizzazione – a riunirsi proprio all’Avana. L’isolamento di Cuba in America Latina – già da tempo di fatto superato – è ormai soltanto un ricordo del passato. La domanda – parafrasando il celebre appello di papa Giovanni Paolo II nel 1998 – è ora questa: adesso che il mondo (o, almeno, l’America Latina) si è aperto a Cuba, riusciranno le “riforme” in atto ad aprire Cuba al mondo? Per rispondere occorre partire dal Mariel…

di Massimo Cavallini

L’America Latina ha, finalmente, scelto la sua capitale. E sebbene questa scelta non valga che per una manciata di giorni (dal 25 gennaio ad oggi, 29 gennaio) tutti ne vanno sottolineando, e con ragione, la storica portata. Per la prima volta dai tempi della sua ‘rivoluzione’ – e forse per la prima volta da sempre – Cuba ospita e presiede, infatti, un’ecumenica cumbre continentale, quella della CELAC o Comunidad de Estados Latinoamericanos y caribeños, che raccoglie tutti i 33 presidenti delle nazioni che si estendono al sud del Rio Bravo. O, per esser ancor più chiari, tutti i capi di quelle stesse nazioni che, nel 1962, su pressione degli USA, esclusero Cuba dall’Organización de los Estados Americanos e da tutti gli organismo di cooperazione continentale.

La CELAC – che vanta appena due anni di vita e che a tutt’oggi non ha una sede, uno statuto, una segreteria o qualsivoglia riconoscibile struttura organizzativa – è ancora, per la verità, molto più un’idea che una funzionante struttura politico-diplomatica. Più che un’idea, anzi, non è che un’ipotesi appena abbozzata, un’esigenza che, seppur vaga, generica ed anche, per molti aspetti, contradditoria, è tuttavia a suo modo solidamente incentrata su una molto precisa prospettiva storica: quella di creare un luogo d’incontro tra paesi latinoamericani libero dalla tutela o, comunque, dalla presenza degli Stati Uniti d’America. Cuba – la Cuba ribelle, Cuba ‘el primer territorio libre di America Latina’, o, ancor più, la Cuba condannata dagli Usa ad un embargo ingiusto e ridicolmente anacronistico – era davvero il luogo ideale per sottolineare questo inequivocabile bisogno di indipendenza. E così, in effetti, è stato. Il primo summit della (non)organizzazione, che si è tenuto a Santiago del Cile nel gennaio dei 2013, ha ostentatamente depositato nelle mani di Raúl Castro le chiavi di casa. Ovvero: ha affidato a Cuba la presidenza pro-tempore della CELAC con l’incarico d’organizzare all’Avana il summit del 2014.

Non sorprendentemente, i lavori della cumbre habanera non sono andati molto oltre la retorica della “Patria Grande” e l’enunciazione d’una serie di lodevolissimi (ma alquanto indefiniti) propositi di comune impegno contro la povertà, le diseguaglianze ed i pericoli di guerra. Ma anche in questo quadro di molto astratto unanimismo, – o, per meglio dire, grazie proprio a questo quadro – il trionfo diplomatico-politico di Cuba è stato, a tutti gli effetti, completo. Anzi è stato – com’era nelle previsioni e nelle intenzioni – l’unico verificabile esito del summit. Con un gesto che sa di simbolica (e neppure tanto implicita) riparazione per la messa al bando di mezzo secolo fa, José Miguel Insulza, segretario della OEA, s’è recato all’Avana accettando l’invito di Raúl. Ed altrettanto ha fatto il segretario dell’ONU, Ban Ki-moon che, ieri l’atro, per dimostrare il suo appoggio ed il suo entusiasmo per le riforme in atto a Cuba (nessuno deve averlo informato che secondo il lessico ufficiale è, in realtà, non di ‘riforme’ si tratta ma, rigorosamente, di ‘attiualizzazioni’) s’è fatto tagliare i capelli da un parrucchiere ‘en cuenta propia’, vale a dire, non dipendente dallo Stato.

Il tutto in un’Avana opportunamente ripulita, nel suo ‘casco historico’, da ogni traccia di miseria; e, in ogni sua parte, da ogni potenziale segnale di protesta politica. Attivisti dei diritti umani che intendevano partecipare a contro-summit indetti da organizzazioni del dissenso sono stati bloccati alla frontiera e rispediti a casa, mentre – seguendo una molto collaudata routine repressiva – gran parte dei potenziali ‘protestanti’ locali venivano tolti dalla circolazione tramite ‘arresto temporaneo’ (vedi il comunicato di protesta di Amnesty International). Tutto ‘normale’, tutto secondo le attese. Perché proprio questo è quel che la Storia inequivocabilmente ci racconta e che, altrettanto inequivocabilmente, le cronache dal sottosuolo della cumbre ci ricordano: Cuba è una dittatura. La rivoluzione che, a suo tempo, per prima ruppe le regole del “cortile di casa” degli Usa, cambiando la Storia dell’America Latina, la rivoluzione che completò un processo di formazione dello Stato nazionale mutilato dalle ingerenze USA e che, alle sue origini, significò, sovranità, dignità, alfabetizzazione, è sfociata in un regime che nega alla base, strutturalmente, essenziali diritti umani di libertà. Pensiero, parola, stampa, associazione…

Che il mondo si apra a Cuba e che Cuba si apra al mondo” aveva supplicato, nella sua celebre visita all’isola nel 1998, papa Giovanni Paolo II. Ed è lecito chiedersi, ora che il mondo o, almeno, l’America Latina s’è aperta a Cuba al punto da ubicare, per cinque giorni, la sua capitale all’Avana, quanto davvero Cuba si stia, a sua volta, aprendo al mondo. Per abbozzare una risposta vale la pena partire dal porto del Mariel. Non per rammentare il biblico esodo di 125.000 cubani verso le coste della Florida che, tra l’aprile e l’ottobre del 1980, si consumò in quelle acque, ma per considerare quello che è stato, di gran lunga, il più significativo evento ai margini del summit Cepal: la solenne inaugurazione, presenti Raúl Castro e Dilma Rousseff, dei nuovi impianti del nuovo mega-porto per container costruito con un prestito brasiliano da un miliardo di dollari, e punta di diamante d’una “zona franca di sviluppo” apertamente ispirata al modello cinese. Ovvero: porte aperte agli investimenti stranieri ed al capitalismo. E porte praticamente chiuse ad ogni riforma politica. Funzionerà?

Torna alla mente, a questo punto, un’altra e molto meno nobile frase. Quella che, regnante Bill Clinton, nel 1996, il segretario di Stato Madeleine Allbright pronunciò rispondendo alla piuttosto ovvia domanda d’un giornalista. Perché le era stato chiesto, gli Stati Uniti mantengono l’embargo contro Cuba, ma commerciano a pieno, anzi, pienissimo ritmo, con la Cina che, in materia di diritti umani, vanta un record anche peggiore di quello del regime castrista? “La Cina – aveva risposto piccatissima la responsabile della politica estera Usa – è una potenza mondiale, Cuba non è che la vergogna di questo emisfero”. Brutte parole. Parole che la dicono lunga sull’ipocrisia che, da sempre, governa la politica dei diritti umani statunitense. Ma anche parole che contengono un’essenziale, cinica verità. Cuba non è la Cina. Cuba non ha le dimensioni, l’importanza geopolitica, il danaro (e, probabilmente, neppure la volontà riformatrice in campo economico) che alla Cina hanno fin qui consentito (e, presumibilmente, continueranno a consentire) di spazzare sistematicamente sotto il tappeto, con l’assenso del mondo, tutte le miserie e le violenze del suo sistema politico.

Domani le luci dei riflettori si spegneranno sul vertice dell’Avana. E il Mariel potrebbe – insieme a tutte le altre ‘attualizzazioni’, non bastare. O rappresentare, ancora una volta, in modo diversissimo ma paradossalmente analogo, soltanto una nuova, illusoria via di fuga…

 

 

 

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