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Obaminami

20 maggio 2009

 

Di Gabriella Saba

 

Qualcuno lo ha soprannominato Oh my money, con assonanza non perfetta, perché viene da una famiglia famosa. Fino a qualche tempo fa era un signor nessuno, un deputato come tanti, e così quando annunciò che avrebbe corso per le presidenziali del prossimo dicembre, furono pochi a prenderlo sul serio. E invece, inaspettatamente, il 35 enne Marco Enríquez-Ominami è l’uomo del momento in Cile (nonché la spina nel fianco della Concertazione, la coalizione al governo, da cui proviene e al cui candidato Eduardo Frei la candidatura del “discolo” Ominami potrebbe nuocere parecchio). In poche settimane è salito nei sondaggi dall’8,7 per cento al 15 per cento, benché non abbia raccolto ancora le 36.037 firme necessarie per candidarsi.

 

Di certo c’è che il neo candidato si da parecchio fare, e che le sue chance di farcela aumentano di giorno in giorno. Non solo ha ufficializzato la sua richiesta di appoggio al Partito Ecologista (che gliel’ha concessa di buon grado, una manovra che gli faciliterà il recupero delle firme), ma ha anche presentato un programma di governo piuttosto dettagliato, sfidando i candidati più papabili, Eduardo Frei e Sebastián Piñera, rispettavamente della Concertazione e della opposizione, a confrontarsi  con lui in qualunque luogo o sede, “che sia questo un canale, una radio, un quotidiano o quello che è”. “Sono disponibile”, ha dichiarato. “A un dibattito di idee e non a questa “denostación mutua” (reciproco scambio di insulti). Invito i candidati a confrontare le proposte, mi appello al Paese perché esiga un dibattuto formale, sereno e degno”.

 

La storia di Ominami non è originalissima, per uno della sua classe, o meglio è quella tipica del classico rampollo intelligente di una famiglia colta e progressista. Figlio di un personaggio storico della sinistra cilena, quel Miguel Enríquez che fondò il Mir, e della giornalista Manuela Gumucio, e poi adottato dal senatore socialista Carlos che gli ha dato il cognome, ha studiato in Francia e in seguito presso il St. George di Santiago, liceo rituale per i ragazzi bene. Si è laureato in filosofia presso l’Università del Cile (quella che, per inciso, è considerata di sinistra e si contrappone all’altra università prestigiosa, la Catolica, più conservatrice e perbene), ma finì per fare il cineasta e, come tale, fece qualche serie televisiva e un film, per poi sposarsi con la brillante animatrice della Tv Karen Doggerweiler dalla quale ha avuto una figlia, Manuela.

 

Più tardi, fu eletto deputato. Un deputato come tanti. Non si parlava molto di lui fino a qualche settimana fa. Poi, di botto, è diventato il numero uno. Ha tirato fuori le unghie, e una grinta insospettata. Qualcuno lo chiama l’Obama cileno. Il suo programma è un misto di pragmatismo e di attenzione al sociale. L’idea generale sembra quella di recuperare dinamismo la competitività, ma allo stesso tempo di migliorare la distribuzione delle entrate, creare opportunità per tutti, e fare un uso più razionale del territorio e delle risorse naturali. A tutto questo andrebbe aggiunta la riduzione delle imposte (alle persone), che andrebbero invece aumentate alle imprese, un aumento della spesa sociale (soprattutto per l’istruzione e la salute) e, per finire, la riduzione dell’Iva su libri e arte mentre aumenterebbero, per contro, le tasse  su tabacco e alcool.

Forse è proprio per questo programma o, forse,  è soltanto per la novità della sua apparizione sulla scena elettorale in un paese che sente un disperato bisogno di facce nuove, capaci di dare un segnale di cambiamento. O forse per nessuno di questo i motivi. Fatto sta che i sondaggi dicono che, oggi, il 52 per cento degli intervistati è convinto che Maro Enrique arriverà alla fine della campagna, il 50,7 per cento che si tratta di un politico onesto e  il 48,5 per cento ritiene che è provvisto di leadership. Vero è anche, però, che la maggioranza non crede sia pronto per fare il presidente, né per risolvere i problemi che affliggono il Paese. Un buon 52,1 per cento ha inoltrerisposto che il candidato Ominami, semplicemente, non gli ispira fiducia.

 

Ed è porprio nel nome della fiducia – quella che alcuni già gli concedono e che molti ancora gli negano – che Marco Enrique – non ha esitato ad esporsi, per due giorni filati, alle domande “a tutto campo” di un giornalista del Mercurio per l’occasione aggregatosi alla sua campagna elettorale. L’impegno – mantenuto, anche se non sempre con il necessario distacco – era quello di non sottrarsi a nessun quesito, foss’anche il più imbarazzante. Tra le altre cose, Ominami ha ammesso candidamente di avere provato la marijuana e, perfino la cocaina, sostenendo che proprio in virtù di questa personale esperienza, può oggi consapevolmente affermare di contrario alle droghe. “Sono disposto a rivelare le mie contraddizioni”, ha risposto al giornalista che non gli dava tregua. “Ti senti come Obama, adesso?”, gli ha chiesto quest’ultimo, e lui: “Questo lo dici tu. Forse si”.

 

Il pezzo forte delle vicende ominamiane di questi giorni è stato però lo scontro di ieri con il presidente del suo (ex) partito. Irritato dalla candidatura di Marco, Ricardo Lagos ha criticato duramente la sua proposta di far entrare capitale privato in una parte delle imprese statali, aggiungendo che l’idea è più o meno la stessa del programma del candidato di destra. Ominami non si è tirato indietro e ha replicato: “Non siamo noi quelli che abbiamo privatizzato la sanità. Chi deve dare spiegazioni sulla privatizzazione delle imprese in Cile è Eduardo Frei. Quelli che mi criticano, sono gli stessi che hanno un candidato che difese Pinochet a Londra”.

 

 

 

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