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Una crisi d’Egitto

3 febbraio 2011 – “Now”, adesso. Adesso come oggi, anzi, come ieri. Robert Gibbs, portavoce ufficiale della Casa Bianca e, di norma, grande maestro dell’arte del “non dire”, non ha, per una volta, lasciato margini al dubbio. E, giovedì scorso, rispondendo alla domanda d’un giornalista nel corso del suo quotidiano incontro con la stampa, ha (almeno in termini temporali) spogliato la politica egiziana del presidente Usa da ogni possibile ambiguità. Adesso vuol dire adesso, immediatamente, subito. Non a settembre, come – annunciando la sua decisione di non presentarsi alle prossime elezioni – Hosni Mubarak (o il suo fantasma) aveva poche ore prima ipotizzato nel suo discorso alla Nazione. Non domani, non “presto”.  Subito. E poiché – ha aggiunto Gibbs – quel “now” il presidente l’ha pronunciato ventiquattro ore or sono, adesso vuole, per l’appunto, dire ieri. Insomma: in Egitto, la “transizione ” – una transizione che, per gli Usa, non può che essere “significativa” – è già di fatto cominciata. E Hosni Mubarak, il “fedele alleato” Hosni Mubarak, non ha in effetti – anzi, aveva, perché, a quest’ora, già avrebbe dovuto essere in cammino – che una sola strada da percorrere: quella che porta verso l’uscita.

Questo aveva detto, infatti, Barack Obama: “…dopo il suo discorso di questa notte, ho parlato direttamente con il presidente Mubarak, il quale ha riconosciuto che lo status quo non è più sostenibile e che un cambiamento deve aver luogo….Nel corso di migliaia di anni, l’Egitto ha conosciuto molti momenti di trasformazione, e la voce del popolo egiziano ci dice che questo è uno di quei momenti…non è compito di qualsivoglia altro paese decidere chi debba guidare l’Egitto. Solo il popolo egiziano è legittimato a farlo. Quello che è chiaro e che ho fatto presente al presidente Mubarak, è la mia convinzione che un’ordinata transizione debba essere significativa, che debba essere pacifica e che debba cominciare adesso…”.

Chiaro, inequivocabile. Perentorio (o, almeno, verbalmente perentorio) come le immagini che i notiziari televisivi andavano in quelle ore (e tuttora vanno) trasmettendo dalle strade del Cairo. La Storia ha – come si usa dire – voltato pagina. Per gli Usa – ha fatto sapere Obama – Mubarak è già parte d’un passato che non può né tornare, né sopravvivere a se stesso. E che proprio per questo – quali che siano stati i suoi benefici in termini di “stabilità” – non merita alcun rimpianto. Ma in che misura – ci si chiede – va considerata parte del passato anche quella “politica mediorientale” di cui il generale Hosni Mubarak è stato, per 30 anni, un elemento integrante o, meglio, un essenziale punto di equilibrio? Che cosa prevede, sul versante Usa, la realtà, già cominciata, del dopo-Mubarak? Che cosa, chi riempirà lo spazio lasciato vuoto da quello che, per tre decenni, è a tutti gli effetti stato, per gli Usa, il “nostro uomo al Cairo”?

A questa domanda Gibbs non ha risposto. Né è lecito attendersi che una risposta arrivi – da lui o, ancor meno, direttamente dal presidente – nei prossimi giorni. O nelle prossime settimane, o dei prossimi mesi.  Del tutto probabile, anzi, è che – fino a quando le circostanze lo consentiranno – la politica Usa resti genericamente ancorata, in una sorta di “standby”, ai quattro aggettivi elencati da Obama. Ovvero:  all’auspicio che la transizione sia “immediata” (now), “ordinata” , “pacifica” e, per l’appunto, “significativa”. Nell’ovvia speranza che il primo e l’ultimo di questi aggettivi – vale a dire: la rapidità e la profondità del cambio – non finiscano per divorarsi gli altri due. E tuttavia proprio qui, in questo spazio vuoto – o meglio, in questo spazio pieno d’una storia che non può essere ignorata, né mutata, o dimenticata, con una battuta o con un discorso – sta la vera chiave di un futuro che, se davvero è cominciato “ieri”, nessuno ha ancora ben capito in che direzione stia procedendo oggi. Né dove finirà domani.

Con l’insurrezione del Cairo (e, prima ancora con quella di Tunisi) la storia del Medio Oriente e del mondo arabo è entrata in un territorio ancora inesplorato. Ma anche, paradossalmente, pieno di ineludibili certezze. La prima delle quali non è, in fondo, che la chiamata d’un collaudatissimo “bluff”. Per oltre mezzo secolo, Israele, gli Usa e, più in generale, l’intero Occidente, hanno criticato la “assenza di democrazia” nel mondo arabo e, nel contempo, hanno trasformato questa assenza in una delle architravi della loro politica. L’Egitto – quello di Anwar Sadat prima e, poi, quello di Hosni Mubarak – era (è) un regime autoritario e corrotto. E tale era (è), ovviamente, per forza propria. Né gli Usa, né Israele, né l’Occidente sono direttamente responsabili per le efferatezze che al suo interno si sono andate commettendo. Ma è stato grazie a queste efferatezze che l’Egitto ha potuto svolgere i compiti che – in cambio di 70 miliardi di aiuti economici – gli era stato dall’Occidente affidato: mantenere aperto lo stretto di Suez, garantire i flussi petrolio verso Ovest, reprimere i movimenti islamici (insieme ad ogni altra forma di opposizione) e, soprattutto, garantire un fronte di non belligeranza grazie al quale Israele ha, in questi anni, potuto più agevolmente combattere la sua guerra, incrementando gli insediamenti  nei territori palestinesi, bombardando l’Iraq e la Siria, invadendo il Libano (due volte), nominando Gerusalemme capitale e, infine, chiudendo (con la diretta complicità di Mubarak) l’assedio della striscia di Gaza governata da Hamas.

Di tutto questo, curiosamente, non v’era pressoché traccia, in questi giorni, nelle piazze e nelle strade del Cairo. Per la grande sorpresa degli osservatori internazionali, nessuno, nella spianata di Tahrir, ha bruciato bandiere Usa, o gridato “morte ad Israele”.  L’insurrezione appare, in realtà, tutta rivolta “all’interno”. Ossia: contro Mubarak ed i suoi trent’anni di repressione, contro la mancanza di libertà e contro il disastro economico nel quale è sfociato il processo cominciato nel 1952 con la “rivoluzione degli ufficiali liberi” guidata da Gamal Abdel Nasser. Ma per quanto fumose siano le origini dell’insurrezione ed incerti i suoi esiti – e per quanto ancora del tutto aperta sia, in effetti, la possibilità d’una qualche gattopardesca svolta guidata da ufficiali delle forze armate vicini a Washington – nessuno in Occidente può farsi illusioni: quale che sia il governo nato dall’insurrezione – o, persino, quale che sia, eventualmente, il governo nato “contro” l’insurrezione – il ruolo dell’Egitto come punto d’equilibrio della strategia mediorientale degli Stati Uniti è, comunque, destinato a venir meno. È già cominciato a venir  meno. E se non arriverà, forse, questo nuovo Egitto, a cancellare la pace separata di Camp David (1978), certo procederà quanto basta (ed avanza) per imporre, agli Usa, ad Israele ed all’intero Occidente, una radicale – o, per ripetere le parole di Obama, “significativa” – ridefinizione strategica.

Molti sono i fantasmi che, in questi giorni, le immagini che provengono dalle strade del Cairo (e di molte altre città arabe) vanno evocando. E, tra essi, il più ovvio e spaventevole è, naturalmente, quello dello Shah di Persia. Come a suo tempo Jimmy Carter – un nome che, negli Usa, è, a torto o a ragione, diventato sinonimo di debolezza sugli scenari internazionali – anche Obama deve fronteggiare un’insurrezione popolare che, originalmente rivolta contro un secolare tiranno, minaccia di aprire la strada, non alla democrazia, ma ad un regime marcato dal fondamentalismo e dal fanatismo religioso.  Strumento di questa possibile – o, per qualcuno, addirittura inevitabile – svolta: la Società dei Fratelli Mussulmani, o Al-Ikhwan, un gruppo politico-religioso (forse il più grande ed influente del mondo islamico) che, in questi anni, Mubarak (come prima di lui gli inglesi e gli altri leader nazionalisti) ha messo al bando e perseguitato. Al-Ikhwan era fino a ieri considerata l’unica forza politica, oltre al Partito Nazional Democratico di Mubarak ed alle forze armate, capace, come si dice, di fare la differenza. E di certo l’unica – grazie soprattutto ad una serie di organizzazioni assistenziali – con una riconoscibile base di massa.

Vero? Falso? Davvero la Società dei Fratelli Mussulmani s’appresta, nel caos di questi giorni, a replicare ciò che gli Ayatollah di Qom fecero, con un immenso appoggio popolare, nel 1979 in Iran? Le analisi sulla natura, sul ruolo e sull’effettiva forza di Al-Ikhwan sono, in effetti, molto differenziate. E certo è che – sotto l’ombrello dell’autoritarismo di Mubarak e degli altri dittatori arabi (ivi compresi i meno filo-occidentali, come gli Assad siriani) – gli Stati Uniti ben poco hanno fatto, in questi anni, per capire che cosa in effetti fosse la Fratellanza. E che cosa davvero si proponessero i suoi membri. Meglio considerarli, semplicemente, dei terroristi. Meglio, anzi, ucciderli nella culla. Come ha non sempre metaforicamente fatto, lungo il trentennio del suo regno, il buon alleato Mubarak. O come, a suo tempo, ancor meglio fece il baathista siriano Hafez al-Assad. Il quale, nel 1982,– nella completa indifferenza di quel  civilissimo occidente che, pure, di lui diceva peste e corna –  bombardando a tappeto e radendo al suolo la città di Hama, di Fratelli Mussulmani ne massacrò a conti fatti (anche se nessuno, mai, si prese la briga di farli, quei conti) almeno 20mila, senza troppo distinguere tra militanti, civili, donne, vecchi e bambini.

La Fratellanza è, di certo, un gruppo con fortissimi connotati fondamentalisti, nei cui orizzonti scompare ogni distinzione tra politica e religione. Ed è, altrettanto certamente, un gruppo politicamente moderato che ha sempre, almeno dopo l’omicidio di Sadat, inequivocabilmente condannato ogni forma di violenza, sulla carta accettando le regole di quella democrazia occidentale che il buon amico dell’Occidente, Hosni Mubarak, andava, al contrario, molto allegramente calpestando. Nell’Egitto di oggi, nulla – o molto poco – sembra in realtà rammentare l’Iran del 1979. Al-Ikhwan – oggi di fatto allineata dietro l’ipotesi d’una candidatura di Mohamed ElBaradei, il premio Nobel per la Pace in questi giorni tornato in Egitto – non ha alcun leader carismatico che possa, in qualche modo, esser paragonato all’Ayatollah Khomeini. E non pochi sono gli osservatori convinti che, alla prova dei fatti, minimo sia stato il suo ruolo in una sollevazione popolare di fronte alla quale l’intero quadro politico – Fratellanza inclusa – appare repentinamente invecchiato.

Invecchiato ma, ovviamente, non scomparso. Tanto che, dovesse l’Egitto davvero arrivare ad un voto libero, nessuno dubita che di tutto rilievo resterebbe, nel nuovo Parlamento, l’influenza dei Fratelli Mussulmani. Non c’è possibile scappatoia: se davvero vuol nascere – in Egitto, o in altri paesi – la democrazia araba non può prescindere dalla sfida che la presenza del fondamentalismo religioso definisce. Nel giugno del 2009 – parlando proprio al Cairo, in un discorso che, forse a ragione, alcuni boiardi locali e buona parte della destra americana considerò “sovversivo” – Barak Obama disse: “L’America rispetta il diritto ad essere ascoltate di tutte le voci pacifiche e rispettose della legge, anche quando con quelle voci è in disaccordo. E l’America dà il suo benvenuto a tutti i governi eletti pacificamente e liberamente, a patto che quel governo venga esercitato rispettando tutto il popolo, in tutte le sue espressioni…”.

Quel discorso voleva essere – dopo gli anni bui di George W. Bush – una prima apertura nei confronti del mondo mussulmano. Un piccolo passo che le circostanze hanno, d’acchito, trasformato in un avventuroso viaggio cominciato, probabilmente, molto prima (ed in forma ben più drammatica) di quanto lo stesso  Obama avesse pronosticato. La strada è – volendo usare una piuttosto scontata metafora – contorta e piena di pericoli. Ma è anche, piaccia o no, l’unica percorribile.

 

 

 

 

 

 

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