…e difficilmente troverà la via di un “accordo umanitario” dopo una liberazione che assomiglia molto più ad un premio di consolazione al termine d’una gara perduta che alla prima tappa d’un processo – Clara Rojas e Consuelo González de Perdomo hanno, “dal più profondo dell’anima”, ringraziato Hugo Chávez per il suo impegno. Ed altrettanto ha fatto Álvaro Uribe – Ma il presidente colombiano ha poi ribadito vecchie proposte già respinte dalle Farc – Forse la guerriglia farà, in un futuro prossimo, altri “regali” al presidente bolivariano. Ma la pace, in Colombia, appare più lontana che mai
di Massimo Cavallini
Grazie Chávez. Grazie per tutto quello che hai fatto e per tutto quello che, fin qui, non hai potuto fare, ma che certo farai in futuro. Grazie, signor presidente, grazie. E per favore non abbassi la guardia, glielo chiedono quelli che ancora sono in prigionia. Grazie per la prova di umanità e di saggezza che ha dato a noi ed al mondo. Grazie, grazie, grazie. Questo, quando ancora si trovavano in un non identificato punto della selva del Guaviare (vedi video), pronte ad abbordare l’elicottero della Croce Rossa, hanno detto al presidente venezuelano Clara Rojas e Consuelo González de Perdomo, entrambe apparentemente in eccellenti condizioni di salute. E questo le due donne hanno in esclusiva ripetuto – con la costante eco di Piedad Córdoba, la senatrice liberale che ha, nel bene e nel male, accompagnato tutte le fasi della mediazione – di fronte alle telecamere di Telesur (la rete televisiva internazionale che lo stesso Chávez ha fondato), mentre viaggiavano in aereo verso Caracas. E poi, di nuovo, quando, in un tripudio di abbracci e di lacrime sono infine sbarcate nell’aeroporto di Maiquetía, Clara Rojas stringendosi alla madre vecchia e malata – un autentico monumento di dignità in questi sei anni di lotta – Consuelo circondata da figli e nipoti. Grazie Chávez, grazie dal più profondo dell’anima e del cuore…
Parole toccanti, pronunciate – davvero dal più profondo dell’anima e del cuore – da due esseri umani che, dopo sei anni, possono finalmente tornare a casa. Non la stessa che avevano lasciato, ma , comunque, una casa, casa loro. Una casa, per Clara Rojas, in cui vivere – se la curiosità del mondo la lascerà vivere in pace – con il figlio che ha partorito nella giungla. O, come nel caso di Consuelo, in una casa divenuta più vuota e più fredda, perché nel frattempo la più prossima tra le persone che le corrispondevano, il marito Jairo, morto d’infarto due anni fa, è venuto meno. Parole toccanti che sembrano anche, di primo acchito, parole di rinnovata speranza per tutti, e di personale trionfo per il presidente bolivariano del Venezuela. “Libertad para todos, ya”, recitavano le magliette indossate dai parenti ed amici che, appena oltre la pista d’atterraggio, aspettavano Clara e Consuelo. Grazie Chávez, grazie, grazie, grazie. Grazie, verrebbe da aggiungere, anche per essere una volta tanto riuscito – pur in un momento d’apparente apoteosi e nonostante gli impulsi narcisistici che sono parte integrante della sua personalità – a far uso d’una certa discrezione, evitando (almeno fino a questo momento) di dominare oltre il lecito il proscenio (il suo incontro a Caracas con i due ostaggi liberati è lodevolmente stato, rispetto agli standard del cerimoniale chavista, di assai contenuta spettacolarità e di appena sussurrate intonazioni retoriche).
Molti, sospinti dall’emozione, già vanno chiedendosi chi sarà il prossimo. O la prossima. Le cronache annunciano che Clara e Consuelo hanno portato con sé anche le “prove di vita” di almeno altre 8 delle 43 persone “canjeables”, scambiabili. E qualcuno – vedi il video con le dichiarazioni dell’ex commissario per la pace Carlos Eduardo Jaramillo – già s’azzarda a prevedere il rilascio incondizionato ed in tempi rapidi di Ingrid Betancourt, il più noto degli ostaggi la cui immagine emaciata è in queste ultime settimane divenuta il simbolo della barbarie dei sequestri . Ma stanno davvero così le cose? Davvero la liberazione di Clara Rojas e di Consuelo González de Perdomo apre – al di là della gioia per la sorte di due persone – nuove prospettive di pace o, quantomeno, d’un più ampio “accordo umanitario”? Davvero si tratta di un “primo passo” verso il giorno agognato del “liberi tutti”? Un’analisi lucida dei fatti che hanno portato al rilascio delle due donne non lascia in verità molto spazio a qualsivoglia tipo d’ottimismo. E ciò per due fondamentali ragioni. La prima: lungi dall’essere il prodotto d’un negoziato andato a buon fine, la liberazione dei due ostaggi è, con tutta evidenza, il prodotto del suo fallimento. Clara Rojas e Consuelo González rappresentano – proprio in virtù di un fallimento di cui loro, le Farc, sono in gran parte responsabili – una sorta di “premio di consolazione” consegnato a Hugo Chávez. Ed in quanto tali marcano la fine di una gara – una gara perduta nel caso specifico – assai più che un nuovo inizio.
Proviamo a rammentare. Mesi fa, il 12 di agosto per l’esattezza, il governo colombiano aveva dato il suo assenso alla senatrice liberale Piedad Córdoba affinché, com’era nei suoi desideri, coinvolgesse il presidente venezuelano Hugo Chávez, considerato, per affinità politiche, il leader che, in un processo di mediazione, più possibilità di dialogo aveva con la Fuerzas Armada Revolucionarias Colombianas. Il tutto con il dichiarato obiettivo di giungere in tempi brevi ad uno “scambio umanitario globale”: i 500 uomini delle Farc oggi nelle carceri di Stato, contro tutti i 45 ostaggi definiti “canjeables”. Ovvero: quelle, tra le almeno 750 persone (ma qualcuno parla addirittura di 3000) oggi nelle loro mani, che per le Farc hanno valore di scambio politico. Personaggi politici, parlamentari , militari, poliziotti, sindaci e funzionari vari (più tre civili americani che lavoravano per il Plan Colombia. Per tutti gli altri le Farc chiedono riscatti in danaro. E proprio questa è per loro, insieme ai proventi derivanti dalla tassazione al narcotraffico, o dalla diretta organizzazione del narcotraffico, la più consistente fonte di sostentamento).
Chávez aveva accettato l’incarico con molto entusiasmo. Anche troppo, secondo alcuni. E certo è che – seguendo il suo istinto – s’era lanciato nell’operazione con molto generosa loquacità. Al punto da ergersi, prima ancora che un solo ostaggio fosse stato liberato, a protagonista di un epocale processo di pace fondamentalmente innescato da un suo storico (ed alquanto ipotetico) incontro con Manuel Marulanda Vélez, detto “Tirofijo”, l’ormai ultraottantenne capo storico delle Farc. È stato, il leader bolivariano, silurato dalla sua stessa ansia di protagonismo? Forse. Ma – come sempre quando si tratta di Chávez – molto complicato è, in realtà, distinguere tra il fumo delle sue esibizioni retoriche (talune ai limiti del ridicolo) e la sostanza d’un processo che sembrava, a molti, sul punto di aprire qualche porta. Quel che oggettivamente accadde fu comunque questo: tutte le porte si richiusero bruscamente lo scorso 21 di novembre, quando il presidente colombiano. Álvaro Uribe, dichiarò terminata la partecipazione di Chávez nel processo. Ragione della decisione: una telefonata che Chávez, rompendo regole in precedenza definite tra i due presidenti, aveva fatto al capo di Stato Maggiore colombiano. Conseguenze: la più grave crisi diplomatica – alimentata da insulti degni d’una rissa da taverna – nella storia delle relazioni tra i due paesi . Ovvia domanda: a che punto era arrivata, nel momento della sua liquidazione, l’iniziativa di Chávez? A nessun punto, se considerano i risultati pratici, tangibili. Il presidente venezuelano non era a conti fatti riuscito ad ottenere dalle Farc, tra agosto e novembre, neppure una “prova di vita”. Ma impossibile è dire quel che, in effetti, stesse bollendo in pentola. L’arresto – appena una settimana dopo la rottura – d’un gruppo di emissari delle Farc con la “prova di vita” di Ingrid Betancourt e di altri dodici sequestrati (tra i quali i tre statunitensi) ha sollevato il sospetto che, in realtà, Uribe (un presidente che deve la sua popolarità proprio alla promessa di vincere la guerra) abbia interrotto la mediazione, non per le scorrettezze di Chávez, ma perché, in prospettiva, la sua mediazione avrebbe potuto portare a risultati concreti, ben oltre un limitato scambio umanitario destinato ad acquietare le pressioni della Francia (Ingrid Betancourt è cittadina francese) e della comunità internazionale.
Quale che sia la verità, di questa proposta non era rimasta in piedi, in prossimità del Natale, che la replica delle Farc al “licenziamento” di Chávez. Ovvero: la loro decisione di – per l’appunto – “consolare” il presidente venezuelano (vibrando nel contempo una sprezzante sberla al suo licenziatore) consegnando unilateralmente a lui (o chi da lui designato) tre delle persone nelle loro mani. Segnatamente: Clara Rojas con il figlio Emmanuel, nato in cattività, e la ex congressista Consuelo González. Ed è questa una storia le cui surreali sequenze – surreali ed estremamente imbarazzanti per tutti coloro che avevano consapevolmente o inconsapevolmente partecipato al gioco delle Farc – sono troppo recenti e vive nella memoria per dover essere riassunte.
La liberazione di Clara e di Consuelo – e qui viene la seconda ragione di pessimismo – ha dimostrato come – contrariamente a quanto avvenuto in quel di Villavicencio – non sia necessario allestire alcun “circo mediatico” per liberare gli ostaggi. E, quel che più conta, è stata in qualche modo il risarcimento d’un risarcimento. O, per meglio dire: una sorta di consolazione di riserva, dopo che la prima consolazione, prodotto del fallimento degli originali negoziati, era affondata nel mare di menzogne della vicenda di Emmanuel. Insomma: è stata (ed è), la libertà di Clara e Consuelo, il prodotto di un duplice naufragio, una sorta di ciambella lanciata nella direzione di Chávez. Una bellissima ciambella, se vogliamo. Ma potrà Chávez, con questo splendido salvagente, raggiungere la riva di qualche significativa ripresa dei negoziati? Potrà la libertà riconquistata da Clara e Consuelo rivelarsi, a dispetto delle premesse, con o senza Chávez, la prima tappa d’un nuovo processo di pace? Difficile crederlo, anche se, proverbialmente, la speranza è sempre l’ultima a morire. Ed il discorso con cui, ieri sera, il presidente Uribe ha salutato la liberazione dei due ostaggi non ha in verità contribuito granché a rischiarare l’orizzonte.
Che cosa ha detto Uribe? Anche lui è stato – ed a più riprese – prodigo di ringraziamenti nei confronti del “presidente de la hermana República Bolivariana de Venezuela, Hugo Chávez Frías”, la cui mediazione non ha esitato a definire – cosa a suo modo sorprendete visti i recentissimi scambi di gentilezze – “generosa” e “efficace”. Ma ha nel contempo sottolineato – tra l’atro maliziosamente ricordando il ruolo che, negli ultimi cinque anni, anche Cuba e Fidel Castro hanno, “con molta discrezione”, svolto nel processo di pace colombiano – come oltre la liberazione di Clara e Consuelo non vi siano, a dispetto della gratitudine e dell’emozione del momento, che la sua politica di “sicurezza democratica” (ovvero, la lotta senza quartiere contro il “terrorismo” delle Farc) e la vecchia proposta di creazione d’una “zona di incontro– un centinaio di chilometri quadrati semi-disabitati demilitarizzati ai fini di una “scambio umanitario” (vedi articolo) – lanciata agli inizi di dicembre dalla chiesa cattolica, accettata dal governo e rimandata immediatamente al mittente dalle Farc. Così come era stata rimandata al mittente nel 2005, quando ad avanzarla erano state Francia, Spagna e Svizzera.
Insomma: la guerra continua perché la guerra – una guerra le cui ragioni sono sempre più difficili da identificare e che, proprio per questo sembra destinata a durare in eterno – è, a conti fatti (vedi l’articolo di Antonio Caballero, pubblicato da La Semana ai primi di dicembre)quello che le due parti che dovrebbero trattare la pace in ultima istanza davvero vogliono. Consumato il rituale dei ringraziamenti a Chávez e la gioia per la liberazione di due creature di Dio, tutto ritorna, come nel gioco dell’oca, alla casella di partenza. Forse le Farc faranno – nelle prossime settimane, o nei prossimi mesi – qualche altro “regalo” a Hugo Chávez. E forse tra questi “regali” ci sarà anche Ingrid Betancourt, divenuta il simbolo della tragedia. Ma cupe restano le prospettive della pace. Molti degli ostaggi che contano (i restanti 43 “canjeables”) non seguiranno le orme di Clara e Consuelo. Ed a quelli che non contano – centinaia, forse migliaia di comuni mortali scambiabili solo per danaro o, per assenza di denaro, eliminabili – toccherà un’ancor più triste sorte. La sorte di sempre. Sei di loro, ancora senza nome, li hanno ritrovati quattro giorni fa, strangolati come animali e gettati in una fossa comune, in una regione a trecento chilometri da Bogotà.
Questa è la Colombia, baby – verrebbe da dire disperatamente parafrasando una celebre battuta di Humphrey Bogart –. E tu non puoi farci nulla…