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Sunday, December 22, 2024
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Yankees come home I

Un regalo. Un regalo di Obama ai fratelli Castro. Così Jeb Bush – candidato presidenziale repubblicano e fratello di quello che, quasi unanimemente, è considerato uno dei peggiori presidenti della storia americana – ha sprezzantemente commentato ieri le immagini della cerimonia di riapertura dell’ambasciata Usa all’Avana. Ed aveva, almeno per una metà, pienamente ragione. Quella cerimonia – ultimo passo del processo di distensione iniziato lo scorso 17 dicembre e primo passo verso un futuro fino a ieri pietrificato in uno status quo troppo a lungo sopravvissuto alla propria ragion d’essere – è stato davvero un “regalo”. Non ai fratelli Castro, come l’ex governatore della Florida ha sostenuto in isterica sintonia con i più cavernicoli settori dell’esilio cubano, bensì a tutti coloro che del regime di Fidel e Raúl sono – o aspirano ad essere – la nemesi politica. I veri (anche se in parte assai riluttanti) beneficiari della storica visita del segretario di Stato Usa – la prima dopo 70 anni – sono stati, infatti, proprio quei “dissidenti” che John Kerry ha accuratamente evitato di invitare alla cerimonia dell’alzabandiera. E proprio questo, il non averli invitati, è stato il vero (ed in prospettiva il più importante) dei molti “regali” che, riaprendo le relazioni con Cuba, Obama ha fatto a quanti, in tutto il mondo, hanno a cuore la democrazia.

Non tutti, è vero, hanno apprezzato. Due giorni fa, ancora una volta duramente represse dalla polizia, le “dame in bianco” – forse il più visibile dei gruppi del dissenso – sono sfilate lungo la Quinta Avenida, coprendosi simbolicamente il volto con il ritratto del presidente Usa, da loro apertamente accusato di “tradimento”. E l’ “editorial board” del Washington Post – un grande giornale che, in materia di politica cubana, sembra incapace di uscire dalle caverne della preistoria – ha senza mezzi termini definito “insultante” la decisione di escludere dalla cerimonia dell’alzabandiera coloro i quali (i dissidenti) “meglio incarnano i valori che quella bandiera rappresenta”, a continuazione rammentando come, in questi mesi di “disgelo”, la repressione dello “sclerotico regime dei fratelli Castro” non solo non si sia in alcun modo allentata, ma si sia alquanto intensificata (quasi 700 arresti nel solo mese di luglio).

Tutto vero, naturalmente. Dallo scorso 17 dicembre ad oggi, nulla è cambiato, a Cuba, in termini di diritti umani. Ed anche ieri, nel corso della conferenza stampa congiunta che ha fatto seguito alla cerimonia di riapertura dell’ambasciata, il ministro degli esteri cubano, Bruno Rodríguez, ha, da un lato, tenuto a sottolineare i non riformabili pregi della “democrazia cubana”, molto calorosamente invitando, dall’altro, le grandi compagnie americane ad investire senza timori nell’isola. Dal che fin troppo facile è dedurre come, a dispetto degli “aggiornamenti” del socialismo in corso, il regime cubano non solo non abbia intenzione alcuna di modificare la propria natura totalitaria – allentando la morsa che istituzionalmente vieta ogni forma di libertà d’espressione e d’associazione -, ma sia anche implicitamente intenzionato (messaggio agli investitori: qui non si sciopera) ad usare questa natura totalitario-repressiva come specchietto per le allodole capitaliste, oggi allettate dalla riapertura delle relazioni con gli Usa e dalla prospettiva una eventuale fine di quel ridicolo relitto bellico che sia chiama “embargo”.

Vero è anche, tuttavia – anzi, vero è soprattutto – che invitando la dissidenza alla cerimonia, John Kerry altro non avrebbe fatto che ribadire un dannosissimo e ormai obsoleto equivoco. Il più dannoso, certo, dei molti equivoci che hanno fin qui impedito la nascita, a Cuba, d’un dissenso con profonde radici nella popolazione. Ovvero: l’idea, in quasi perfetta concordanza sostenuta dal regime e dalla parte politicamente dominante dell’esilio, che la riconquista a Cuba della libertà negata fosse legata al “prerivoluzionario” ritorno dell’antica egemonia Usa sull’isola. Chiamatela, se vi pare la “sindrome della Baia dei Porci”. Una sindrome che, tra le molte ragioni della longevità del regime castrista, ha certo avuto un ruolo preminente.

I critici della “svolta” di Obama hanno, su un punto, perfettamente ragione: non esiste – né si vede come potrebbe esistere – alcuna garanzia che il disgelo delle relazioni diplomatiche porti, di per sé, ad un miglioramento nel miserando stato dei diritti umani a Cuba. Ma due cose sono certe. La prima: dovessero le relazioni diplomatiche americane essere davvero subordinate al rispetto dei diritti umani, gli Stati Uniti da tempo avrebbero dovuto chiudere ben più della metà delle loro ambasciate (e paradossalmente, data un’occhiata a Guantánamo, persino rompere ogni rapporto con sé stessi). Contrariamente a quel che ha scritto il Washington Post, la bandiera a stelle e strisce è tornata a sventolare all’Avana non per simboleggiare “valori di libertà” che nel suo nome (soprattutto a Cuba ed in America Latina) tante volte sono stati calpestati, ma per riaprire una strada ostruita proprio dall’equivoco – un equivoco diventato, per il regime, un grande alibi – del suo ruolo nella “liberazione” dell’isola. Una strada ora parzialmente sgombra ma difficile, questa, che chi vuole la libertà a Cuba dovrà in futuro, senza dannosi padrini, percorrere con le proprie gambe. Questo è stato, ieri, il messaggio di Obama ai cubani. Questo è stato il suo “regalo”.

Ci sono molte storie da raccontare a questo proposito. Storie del passato e storie del presente. Lo farò in un prossimo post.

 

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