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White power nell’America di Obama

17 luglio 2010

di Massimo Cavallini

Due anni fa, l’America ha eletto il suo primo presidente nero. E mai come oggi, in America, esser nero è, se non proprio una colpa, quantomeno un più che ragionevole motivo di sospetto. Sospetto di che? Di razzismo, ovviamente. Razzismo contro la maggioranza bianca esposta, come un fuscello al vento, agli abusi ed alla rancorosa volontà di rivalsa del nuovo e rampante “black power”… Stupidaggini? Sicuramente. Ma anche stupidaggini che riflettono un’assai realistica – seppur paradossale – parte della vita politica americana al tempo di Obama. Come dimostrato dalla recentissima (ed assai triste) vicenda del licenziamento in tronco di Shirley Sherrod. Questa è la storia.

Shirley era – e la decenza imporrebbe che immediatamente tornasse ad essere – un’alta funzionaria (di pelle nera) del USDA, United States Department of Agricolture, nello Stato della Georgia. Più esattamente: era, da molti anni, la responsabile del Rural Development Office. Ed il suo licenziamento (comunicato, con effetto istantaneo, via cellulare) si deve ad un breve filmato – piccola frazione d’un discorso che la stessa Sherrod tenne oltre otto anni or sono in un’assemblea della NAAPC (National Association for the Advancement of Colored People) – diffuso la scorsa settimana da un blogger di estrema destra, tal Andrew Breitbart, attraverso uno dei molti siti web che fanno da grancassa al Tea Party.  In quel video, subito ripreso dalle grandi reti televisive (la FoxNews di Rupert Murdoch in testa, ovviamente), Shirley Sherrod sembrava pubblicamente vantarsi, di fronte ad una platea plaudente, d’avere rifiutato il suo aiuto ad un proprietario di fattoria (farmer) che, oberato dai debiti, come molti altri rischiava di perdere le sue proprietà. Quel proprietario di fattoria era, prevedibilmente, bianco. E proprio questa pareva essere la ragione per la quale Sharron gli negava l’aiuto richiesto.

Orrore, scandalo. Orrore, ovviamente, tra i bianchi convinti di vivere, nell’America di Obama (un’America che, peraltro, ai tempi del “crimine” della Sherrod, neppure era stata concepita) l’incubo d’un imminente olocausto. Orrore tra i commentatori di FoxNews – “c’è un problema di razzismo nel Dipartimento all’Agricoltura?” si era retoricamente chiesto Bill O’Reilly presentando il video ai suoi ascoltatori – che alle paure di quest’America danno quotidianamente voice. Ed orrore anche – soprattutto, per molti aspetti – in quell’America nera (marrone, gialla o, comunque, non bianca) che il summenzionato olocausto sarebbe, secondo Breitbart e compagni, ormai pronta a perpetrare. Orrore al punto che la stessa NAACP – organizzatrice dell’evento incriminato – s’era molto goffamente affrettata ad emettere, in giornata, un comunicato d’ “incondizionata condanna” per quel che Shirley aveva fatto. Ed al punto anche che, ancor prima che l’ultimo notiziario televisivo avesse, quello stesso giorno, riproposto le parole e le immagini di tanto scempio , Tom Vilsak, il segretario all’Agricoltura, aveva provveduto a decretare  – pare dopo una fulminea consultazione  con la Casa Bianca – l’istantanea interruzione d’ogni rapporto di lavoro con la peccatrice.  Ragione del licenziamento: una rigorosissima politica di “zero tolerance”, tolleranza zero, verso ogni forma di razzismo. Il gesto di Shirley Sherrod, nessuno sembrava dubitarlo, reclamava giustizia. E giustizia fu. Rapida, implacabile e – quel che più conta – d’acchito consumabile da un sistema d’informazione sempre più bisognoso di immediate emozioni. O meglio: di istantanei rumori sensazionalistici.

Poi – spentisi i fragori del cosiddetto “24 hours news cycle” – l’intero video è venuto alla luce. Ed ha raccontato una storia, non solo diversa, ma diametralmente opposta alle decontestualizzate sequenze che Andrew Breitbart aveva fabbricato con grossolana faziosità. Quella che Shirley Sherrod aveva raccontato otto anni fa era, in realtà, una storia di pregiudizio e di redenzione. Un’autentica parabola contro tutti i razzismi, ivi incluso quello, per reazione, di quanti del razzismo sono a loro volta stati vittime. Era la storia di una donna di colore che il razzismo – il vero razzismo, non quello millantato da Breitbart  – l’aveva conosciuto nella sua forma più brutale, quando, negli anni ’50, suo padre (un attivista per i diritti civili) era stato assassinato da un bianco che, sebbene individuato dalla giustizia, mai era finito sotto processo. Proprio con il ricordo di quest’America – e con la convinzione che fare giustizia significasse essenzialmente raddrizzare un’ingiustizia storicamente “bianca”– Shirley aveva cominciato a lavorare come “public servant” in un Dipartimento (quello all’Agricoltura, per l’appunto) che, dai tempi della Ricostruzione, vanta un alquanto vergognoso record di discriminazioni contro le minoranze negra e ispana.  Shirley aveva, nel suo discorso, raccontato dei dubbi di questa donna – i suoi dubbi – di fronte ad una richiesta di giustizia che veniva da un bianco. Ed aveva spiegato come questi dubbi li avesse infine superati scoprendo, nei problemi di quel bianco sul punto di perdere la sua terra, una verità antica. È la sofferenza che crea l’ingiustizia. E la sofferenza non ha colore. Essere contro il razzismo, aveva detto in sostanza Shirley, è soprattutto questo: riconoscere l’ indivisibilità della sofferenza, l’ineludibile, ovvia, eguaglianza degli uomini di fronte ai dolori della vita. “Shirley Sherrod – avrebbe confermato poco più tardi Roger Spooner, il “farmer” che del razzismo della Sherrod era stato la presunta vittima – mi ha sempre trattato con grande equità ed umanità. E mi ha dato tutto l’aiuto necessario per superare i miei problemi. Nei suoi confronti non posso provare che gratitudine e rispetto…”.

Di questa storia di gratitudine e rispetto Andrew Breitbart – un autentico specialista in questo genere di mascalzonate – aveva senza rispetto alcuno (per la verità o per se stesso) isolato, a riprova del “razzismo” della Sherrod, esclusivamente la parte relativa ai dubbi. E l’aveva consegnata, non soltanto alla ben oliata macchina della propaganda anti-Obama (con FoxNews a dirigere l’orchestra), ma anche ad un Obama che di questa macchina (e del vittimismo bianco che l’alimenta) appare – in tema di razzismo – consenziente ostaggio. Proprio ieri, il segretario all’Agricoltura, Tom Vilsak, si è detto pronto a porgere a Shirley Sherrod le scuse sue e del governo, ammettendo d’essersi lasciato con troppa fretta influenzare da quel che aveva ascoltato in tv e letto sui giornali. Doveroso. Ma un fatto resta in clamorosa evidenza: l’episodio è ritornato a dimostrare come oggi, con un nero alla Casa Bianca, basti anche soltanto il più infondato sospetto di discriminazione anti-bianchi per finire sul banco degli imputati. O per essere messi alla porta. I casi vanno, infatti, accumulandosi. Prima della Sherrod c’era stata – sempre sulla base d’una molto disonesta denuncia di favoreggiamento della prostituzione lanciata da Breitbart – la liquidazione di Acorn (un’organizzazione non-profit, prevalentemente nera, che si occupava soprattutto di organizzare l’iscrizione nelle liste elettorali delle minoranze). Ed ancor prima era bastata una molto aggressiva e strumentale campagna di Glenn Beck – il più reazionario ed esaltato tra i molti reazionari ed esaltati commentatori di FoxNews – per spingere Obama a privarsi di uno dei non molti collaboratori  neri (forse il più interessante) presenti nel suo governo: quel Van Jones che doveva curare il lancio della “economia verde”.

In conclusione: oggi, dopo l’emergere della verità, il banco degli imputati appare alquanto affollato. Alla sbarra si vedono, ovviamente, Andrew Breitbart,  Fox News e l’intero sistema dell’informazione “usa e getta” che consuma notizie alla ricerca non della verità, ma della sensazione. Più, in primissima fila, Tom Vilsak e l’intera Amministrazione Obama. La loro colpa? Ascoltare con troppa condiscendenza il lamento di un’America bianca che, dopo la storica svolta del novembre del 2008, ama presentare se stessa (e la “vera” America di cui crede d’essere espressione)come una specie in via d’estinzione. Quello che si va davvero estinguendo, in realtà, è – in questo clima d’isteria razziale ad arte creata – la pubblica percezione della spinta al cambiamento che, della vittoria di Obama, era stata la forza propulsiva. È tempo che Shirley Sherrod torni al lavoro che ha sempre svolto con tanta meticolosa equità. È tempo che Obama ritrovi, senza ascoltare gli urli che risuonano a destra, il cammino della speranza.

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