Mentre, tra grida d’orrore ed atti di pubblica espiazione, ancora non s’è spenta del tutto l’eco della ‘guerra dei ritratti’ – quello del ‘Bolívar de Chávez’ e quelli del medesimo ‘comandante supremo ed eterno’ d’autorità sloggiati, giorni fa, dalle pareti della Assemblea Nazionale – il Venezuela s’appresta ora a vivere una nuova e assai meno folcloristica fase dello scontro istituzionale innescato dalla travolgente vittoria dell’opposizione nelle elezioni parlamentari. La buona notizia è che il Venezuela sembra destinato ad affrontare la prova evitando – almeno nell’immediato – gli esiti cruenti che non pochi avevano pronosticato come immanenti ed ineluttabili.
In una rara testimonianza di buon senso, infatti, i tre deputati d’opposizione eletti nello Stato dell’Amazzonia – oggetto del conflitto che contrappone il Tribunal Supremo de Justicia alla nuova Asamblea Nacional – si sono ieri volontariamente ‘autosospesi’, disinnescando così la bomba della sentenza con la quale la ‘sala electoral’ del TSJ aveva due giorni fa dichiarato, in quello che a tutti gli effetti si configurava come un classico golpe istituzionale, la preventiva nullità di tutti gli atti della nuova An. La cattiva notizia (cattiva e anche ovvia) è invece che tutte le premesse dello scontro di cui sopra – e le rovine sulle quali questo scontro va crescendo – restano tristemente e minacciosamente al loro posto.
Proviamo a riassumere gli eventi. E proviamo a riassumerli partendo dalla fine – vale a dire: proprio dai tre deputati ‘autosospesi’ – per poi risalire alle origini d’una storia, quella del Tribunal Supremo di Justicia, che, per la grossolanità dei suoi risvolti, sembra di primo acchito una barzelletta, ma che in realtà è, in ogni sua parte, una vera e propria tragedia. E, quel che è peggio, una tragedia reale vissuta in carne viva da un paese allo sbando.
I tre deputati, dunque. Trattasi, per l’appunto, dei tre candidati dell’opposizione nello Stato di Amazonas che, in prossimità dell’alba del 7 di dicembre, contati i voti, erano stati regolarmente proclamati vincitori dal Consejo Nacional Electoral (che, si badi bene, in Venezuela è un potere costituzionale le cui decisioni non possono essere cancellate da un altro potere costituzionale). Accadde tuttavia che, a proclamazione avvenuta, il governo – sì, proprio quel governo che, con tanto di solenne firma a reti unificate, aveva giurato d’accettare qualsivoglia decisione del CNE – denunciasse l’irregolarità delle elezioni in quello Stato. Motivo della contestazione: voti comprati. E comprati a ‘mano armata’ da ‘delinquenti’ all’uopo ingaggiati: questo disse il presidente Nicolás Maduro in diretta televisiva, annunciando ‘prove, nomi, luoghi e fatti’…
Non sorprendentemente – nell’ennesima replica d’uno spettacolo fanfaronesco già centinaia d’altre volte messo in scena dai governi bolivariani – nessuna delle ‘prove’ annunciate dall’‘apostolo Nicolás” (per non dir dei nomi, dei luoghi e dei fatti) s’è fin qui materializzata. Tutto quello che è venuto alla luce sono una mezza dozzina di pasticciatissime registrazioni video e audio assolutamente inconcludenti, tutte d’assai dubbia autenticità, tutte quasi certamente ottenute per vie illegali e, in ogni caso, tutte riguardanti la compera di non più d’una ventina di voti in seggi dove hanno votato meno di mille persone.
Due sono però le cose più interessanti della storia. La prima: la Sala Electoral del TSJ ha, non solo accettato queste prove, ma le ha accettate – addirittura interrompendo, per accoglierle, le sue vacanze natalizie – ‘al buio’. Ovvero: senza nemmeno un’udienza destinata a valutarne a grandi linee l’attendibilità. E, la seconda: una volta accettate ‘sulla fiducia’ tali prove, quella medesima Sala ha (cosa che, secondo molti giuristi, non poteva costituzionalmente fare) immediatamente decretato, rispondendo ad una petizione del Psuv, la ‘sospensione cautelare’ di tutti i deputati eletti nello Stato (tre dell’opposizione ed uno filo-governativo, guarda caso il numero necessario per sottrarre all’opposizione la maggioranza qualificata dei 2/3 dell’Assemblea).
Piccola digressione storica, a fini comparativi. Come molti ricorderanno, nell’aprile del 2013, quando Maduro vinse di strettissima misura la corsa presidenziale, il candidato dell’opposizione Henrique Capriles aveva contestato il risultato delle elezioni ed inviato al TSJ le prove (un fascicolo di circa 300 pagine) di quella che considerava una frode. Anche il quel caso, narrano le cronache, il TSJ aveva agito al buio. Non per accettare, ovviamente, ma per respingere quelle prove. E in aggiunta aveva anche deciso di multare Capriles – suggerendo nel contempo alla Procuraduria General l’inizio d’una azione penale nei confronti del denunciante – per essersi azzardato a mettere in dubbio l’obiettività del CNE e del medesimo TSJ…
Se, in base a quanto raccontato, qualcuno di voi è già arrivato alla (del tutto corretta) conclusione che il TSJ usa due pesi e due misure, o se più brutalmente (ed ancor più correttamente) già pensa che, nel Venezuela ‘bolivariano’, il TSJ altro non sia che una servile appendice del governo, dovrebbe considerare, a sostegno di questa convinzione, alcuni aggiuntivi elementi di prova.
Quanti? 45.474, tanti quante sono, dal 2004 – anno nel quale Hugo Chávez d’autorità ne modificò la composizione – le sentenze emesse dal TSJ. 45.474 e tutte (ripeto, tutte) a favore del governo (clicca qui, qui e qui per alcuni tra i casi di più sfacciata violazione della Costituzione avvallati dal TSJ). 45.474 prove, più una: la più importante e, insieme, la più tragicamente ridicola, una sorta di ciliegina sulla torta di questa sorta d’indecente sceneggiata giudiziario-politica.
Trattasi della storia del magistrato che ha guidato la Sala Elettorale del TSJ nell’emissione della summenzionata sentenza di sospensione cautelare. Una storia – mezza barzelletta e mezza tragedia, per l’appunto – indispensabile per cogliere la sostanza della crisi in corso. E anche per capire, nell’ora del suo torvo tramonto, di che pasta sia davvero fatto il chavismo. La racconterò nel prossimo post.