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Tuesday, November 19, 2024
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Ucraina, le tenebre alla “fine della storia”

L’attacco è imminente, imminentissimo. E, quel che più conta, assolutamente certo. Delle cinque classiche congiunzioni interrogative che, di norma, introducono ogni oracolo – se, come, dove, quando e perché – solo le ultime quattro, ormai, concedono qualche margine alla speculazione. La Russia di Vladimir Putin attaccherà l’Ucraina. Lo farà presto, prestissimo, probabilmente prima che, tra qualche giorno appena, si chiudano i giochi olimpici di Pechino. Lo farà – resta da vedere se con una invasione “parziale” ed “appaltata” a formazioni paramilitari filorusse, come nel Dombass, o in forma diretta e “totale” come in Crimea – in qualche punto della lunghissima linea di frontiera che separa i due paesi. E lo farà usando una “red flag”, una bandiera rossa. Non quella, ovviamente, della vecchia Unione Sovietica – le cui “imperiali” ambizioni, pure, Putin apertamente rimpiange – ma quella, del tutto metaforica, che sta per “pretestuoso incidente”. Più specificamente: per un “casus belli” da lui (Putin) all’uopo creato o, come in Crimea nel 2014, semplicemente inventato.

Questo, solo un paio di giorni fa, ha nella sostanza detto, o meglio ha ripetuto, Jake Sullivan, National Security Adviser di Joe Biden, annunciando l’immediata evacuazione di tutti i cittadini americani da quella che s’appresta a diventare una zona di guerra. E questo prima di lui aveva detto (e ripetuto) lo stesso Joe Biden, a più riprese contrapponendo le parole di Putin – il quale ha reiteratamente assicurato che non sta preparando alcuna invasione – ai “fatti” di Putin. Ovvero: ai 140.000 uomini in armi da quest’ultimo in crescendo ammassati alla frontiera con l’Ucraina (davvero un po’ troppi per le annunciate “manovre militari congiunte” con la Bielorussia). Per gli Stati Uniti d’America l’invasione russa dell’Ucraina sembra ormai essere, a giudicar dalle parole, un fatto compiuto. E poco importa se gli ucraini, designate e più dirette vittime d’un tale “inevitabile” atto di sopraffazione, queste parole vanno con manifesta irritazione respingendo, per bocca del presidente Volodymyr Zelensky, come funesti presagi che “del tutto inutilmente creano allarmismo e panico”. Né, peraltro, sembra destare alcuna perplessità, in quel di Washington, il fatto che tanto apocalittici pronostici di fatto coincidano con il susseguirsi di iniziative diplomatiche condotte, sia pur senza visibili risultati, dai principale paesi europei – vedi Gran Bretagna, Francia e Germania – nonché, paradosso dei paradossi, dagli stessi Stati Uniti.

La guerra è certa, ma la via diplomatica (lo stesso Putin lo ha ribadito giusto ieri) resta aperta o, almeno, ancora socchiusa. Come si spiega questa contraddizione? Molti analisti ritengono che, molto più che un sinistro vaticinio, il pessimismo ostentato in queste ore dagli USA sia, in realtà, una sorta d’esorcismo, rozzamente ma efficacemente riassumibile, abbandonati i paludati accenti della politica e della diplomazia, in cinque semplici parole: “questa volta non mi freghi”. Nel 2014, quando Vladimir Putin giocò la carta della annessione manu militari della Crimea e poi, in rapida successione, della “insurrezione armata” del Donbass, Joe Biden era molto attivamente impegnato, nelle vesti di vicepresidente, nella politica estera Usa. E venne, come Obama, trafitto in contropiede dalle mosse di quello che non pochi, già allora, chiamavano il nuovo Zar (non della Russia ma, come vuole la Storia, di “tutte le Russie”). E per questo, per evitare un clamoroso bis, che Biden preferisce adesso, da presidente, muoversi alla dichiarata ombra del “worst case scenario”, del peggior scenario possibile. So chi sei, conosco e pubblicamente rivelo, anticipandoti, quali sono le tue intenzioni. Con tutte le contromisure del caso pronte a scattare. Invadi e pagherai un prezzo altissimo.

Il “prezzo altissimo” prospettato da Joe Biden non è in realtà più alto di una serie di non ancor precisate sanzioni economiche, la più dura delle quali – certo molto dura per la Russia, ma forse ancor più dura per i paesi sanzionatori – potrebbe essere l’interruzione dei rifornimenti di gas russo a mezza Europa. Nell’inviare rinforzi militari ai paesi aderenti alla Nato più prossimi all’Ucraina, Biden ha chiaramente affermato che, in caso di invasione, non vi sarà alcuna risposta bellica. Nessun soldato Usa o dell’Alleanza Atlantica metterà piede nel paese invaso. Ma molto feroci saranno, sul piano economico e dell’isolamento internazionale, le conseguenze per il paese invasore. In realtà, spogliata dall’allarmismo di questi giorni (un allarmismo che molti considerano di pura circostanza), la proposta di Joe Biden rimane la medesima che era stata da lui esposta, ancor regnante Donald Trump, in un articolo scritto per Foreign Affairs nel gennaio del 2018, in collaborazione con Michael Carpenter (Deputy Assistant Secreatry alla Difesa tra il 2015 ed il 2017). “Washington ed i suoi alleati – aveva scritto allora Biden, dopo aver denunciato i crimini ed i latrocini commessi dalla “cricca di burocrati e magnati” al potere in Russia – non possono solo giocare in difesa, ma devono imporre significativi costi alla Russia, quando vengano alla luce prove di misfatti”. Immediatamente aggiungendo: “Allo stesso tempo Washington deve continuare a parlare con Mosca”.

Parole sagge ed anche – in questa viglia d’una “inevitabile” guerra – in qualche modo rassicuranti. Ma anche, per molti aspetti, ovvietà che galleggiano sulle onde d’un vuoto strategico d’ormai antica data. La crisi Ucraina è notoriamente figlia, l’ultima in ordine di tempo, d’un armistizio – quello che, agli inizi degli anni ’90, pose fine alla Guerra Fredda – che mai è davvero stato tale. Più in concreto: è figlia dell’inestricabile groviglio di mezze promesse – mezze e mai mantenute – di imposizioni travestite da trattati, di colpi di mano, di costanti e reciproche incomprensioni e di altrettanti “tradimenti”, che ha marcato, nel dissolversi dell’Unione Sovietica, quello che, a suo tempo, molti erano convinti fosse il “definitivo trionfo dell’Occidente”. O, come recitava il titolo d’un ormai dimenticato saggio di Francis Fukuyama, della “Fine della Storia”. Chi voglia addentrarsi nei più profondi ed oscuri anfratti di questo trentennale labirinto può leggere un eccellente libro uscito un paio d’anni fa – “ Not One Inch: America, Russia, and the Making of Post-Cold War Stalemate”, non un pollice: l’America, la Russia e la costruzione dello stallo del dopo-Guerra Fredda – e scritto da Mary Elise Sarotte, professoressa della John Hopkins University.

Il “pollice” (unità di misura pari a 2,54 centimetri), o meglio, il “non-pollice” in questione è quello che, a suo tempo James Baker, il segretario di Stato di George Bush Padre, aveva verbalmente garantito a Gorbachov (subito tuttavia smentito dal suo presidente) durante le trattative per la riunificazione delle due Germanie. Non opponetevi alla riunificazione, aveva detto Baker, e la Nato (in teoria anch’essa ormai un residuato della guerra che si avviava alla conclusione) non si muoverà di un pollice verso est. Dove, dopo quella mezza promessa mai diventata trattato, sia arriva la Alleanza Atlantica – sorta come difesa contro un nemico scomparso – è cosa nota. E la sua marcia verso Est, misurabile, non in pollici, ma in migliaia di chilometri, ha attraversato, uno dopo l’altro ben dieci nuovi paesi, giungendo fino ai confini occidentali dell’Ucrania. Ovvero: a quella che Putin e il nazionalismo russo sempre hanno considerato un’ultima spiaggia. Il tutto attraverso una serie di vicende storiche tanto contorte, ambigue ed oscure, da configurare, in un sovrapporsi di contrapposti significati, una sorta (ricordate il capolavoro cinematografico di Akira Kurosawa?) di Rashomon politico-diplomatico. Un magma semantico nel quale ciascuno può raccontare, voltandola e rivoltandola, la sua storia.

E questa è la storia che – partendo proprio da quel “non-pollice” – da tempo va raccontando Vladimir Putin. Noi, la Russia, siamo le vere vittime. Noi siamo gli attaccati, i traditi, gli invasi. E noi, dopo tanti inganni, rivendichiamo oggi, con ogni diritto – o meglio, con il diritto del nostro esser tornati una grande potenza – un completo riassetto dell’intero sistema di reciproca sicurezza in Europa. Di fatto una “nuova Yalta”. Con l’Ucraina destinata, in una forma o nell’altra, a tornare sotto l’ala della Madre Patria. Nella sua ultima conferenza stampa di fine anno, riesumando antichi miti nazionalistici, Putin lo ha detto con tutta chiarezza: non solo l’Ucraina è, per storia e destino, parte della Russia, ma non può esistere Russia senza Ucraina.

È su questo nebbioso e gelatinoso retroterra storico che è risorto il revanscismo russo. È risorto per restare. E per restare non soltanto come semplice, domestica ed inevitabilmente illusoria replica della gloria (zarista molto più che sovietica) dei bei tempi andati. Vladimir Putin è oggi forse il più riconoscibile punto di riferimento di quella che molti chiamano la “Internazionale della destra reazionaria”. Quella degli Orban, delle Marine Lepen, dei Jarosław Kaczyński, dei Matteo Salvini, dei Jair Bolsonaro e, naturalmente, dei Donald Trump. La destra intrinsecamente antidemocratica della difesa ad oltranza della supremazia bianca e cristiana contro le barbariche orde dell’immigrazione. Ed è curiosamente proprio negli Usa che questa nuova fenomenologia appare oggi, a ridosso della crisi ucraina, più evidente. Solo qualche settimana fa, Tucker Carlson, commentatore televisivo di Fox News, da qualche anno legittimamente considerato la più rappresentativa voce della destra reazionaria Usa – quella che, nella forma di “culto a Trump”, ha di fatto assorbito l’intero Partito Repubblicano – si è lanciato in una accorata difesa di Putin e della sua politica. Difendere le frontiere dell’Ucraina? E perché mai? Putin ha ragione. E la frontiera che davvero dobbiamo difendere è la nostra, violata ogni giorno dall’ “anti-America” che arriva dal sud. Solo pochi giorni dopo NewsMax, il magazine della destra più a destra della destra, è uscito con una copertina dal titolo “Vlad the Great”, Vladimiro il grande. Grande e, ovviamente, contrapposto a Joe il Piccolo.

Non tutta la destra repubblicana, ovviamente, si genuflette incondizionatamente di fronte a Vlad. Ma tutta, con pochissime eccezioni, come unanimemente confermano le inchieste d’opinione, vede oggi in lui un “grande leader”. Ragionando per assurdo: dovesse domani un novello Joe McCarty, allestire un nuovo House Committee on Un-American Activities – il comitato parlamentare che, negli anni ’50, perseguitò chiunque fosse sospetto di simpatie comuniste o di qualsivoglia affinità con l’URSS – pressoché l’intero Partito Repubblicano verrebbe messo sotto accusa. Cominciando ovviamente dal suo grottescamente carismatico capo, Donald Trump, la cui storia di amorosi sensi con Putin ha fatto e continua a far scorrere i proverbiali fiumi d’inchiostro.

Qualcuno ricorderà. Nel febbraio del 2017, nel corso di una intervista televisiva, un altro super-reazionario commentatore di FoxNews, Bill O’Reilly, si permise di ricordare a Donald Trump come Putin avesse la simpatica abitudine di assassinare i suoi oppositori. “E allora? – fu la risposta di Trump – di assassini ce ne sono tanti. Noi abbiamo un sacco di assassini. Credi che il nostro paese sia così innocente?”. Un’assoluzione, questa, che, se decontestualizzata, avrebbe potuto tranquillamente rievocare l’evangelico “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. O, addirittura, risuonare come un’ammirevole ammissione di colpa a fronte dei crimini consumati dall’imperialismo Usa. Ma che, in effetti, altro non faceva che rivelare una semplice verità. A destra – la destra di Trump, di Orban e di Salvini – Putin piace. In qualche caso nonostante sia un assassino. Più spesso proprio perché è un assassino.

Tornando a bomba. Finirà davvero, Vlad l’assassino, per invadere l’Ucraina? Probabilmente no. Almeno non questa settimana, a dispetto (o forse a causa) dei vaticini Usa. Putin è un riconosciuto maestro di quella che va sotto il nome di “guerra ibrida”, una guerra non-guerra fatta di assalti improvvisi e di altrettanto improvvise ritirate, di mordi e fuggi, di false promesse, di campagne di disinformazione, di attacchi informatici e di omicidi mirati. E si muove, a suo perfetto agio, nel vuoto strategico di un occidente che mai ha saputo cogliere il vero senso e le vere conseguenze della fine della Guerra Fredda. Di certo sarà, quella si sta vivendo ai confini dell’Ucraina, una storia lunga. Lunga, dolorosa e, fin troppo facile pronosticarlo, senza lieto fine. Quella che era stata annunciata come una luminosa “fine della Storia”, si sta sempre più rivelando come lo stillicidio d’un ritorno alle tenebre. Ed è questo, al di là d’ogni invasione, quello che più fa paura.

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