Il giorno della cerimonia inaugurale di Donald Trump – quella stessa cerimonia che lui stesso, ignorando i numeri fatti, in un primo ridicolo esempio di narcisistica grandeur definì “la più grande di sempre” – non è alle nostre spalle che da cinque mesi scarsi. Ma tale è fin qui stata – in particolare via Twitter – l’intensità della teatrale performance del neoeletto presidente, che già è tempo di definizioni.
Chi è dunque Donald J. Trump, leader eletto della più grande potenza del pianeta? Qual è la frase, l’espressione che meglio ne illustra l’anima e la personalità? La scelta è ovviamente ampia quanto ampie sono state, in queste 17 settimane, le opportunità di giudizio che Trump ha – ogni giorno e più volte al giorno – offerto a amici e nemici. Ma io sono personalmente convinto che – a conferma della storica stabilità di quello che, per comodità, chiamerò il trumpismo – il più azzeccato di questi giudizi sia ancora il più antico e ampiamente “pre-presidenziale”. Più precisamente: sono convinto che, nei suoi cinque mesi di presidenza, Donald Trump altro non abbia fatto, in sostanza, che confermare quel che di lui amava scrivere “Spy”, la rivista (troppo prematuramente scomparsa) che a suo tempo meglio satirizzò il mondo dei cosiddetti “yuppies“, gli “young urban professionals” che, negli anni 80, marcarono e involgarirono, con le storie delle loro vere o immaginarie ma sempre ostentate ricchezze, le cronache mondane di New York City.
Per “Spy”, Donald Trump – di certo il più rozzamente vistoso di questi “yuppies” – immancabilmente era “The short-fingered vulgarian”, il cafone dalle corte dita (cliccate qui per leggere, su Vanity fair, l’intera ed ancor viva storia di questa definizione). Perché questa scelta? Per diversi motivi, il primo dei quali sta, ovviamente, proprio nell’”antichità” dell’espressione. Ovvero: perché in questi cinque mesi, Trump ha ineludibilmente dimostrato di essere ancora il cafone che era negli anni 80 quando, da figlio di papà e con l’aiuto della mafia che controllava l’industria delle costruzioni, cercava d’imporsi, quasi sempre con ridicolo esibizionismo, come imprenditore immobiliare nella giungla d’asfalto di Manhattan. E poi per il fatto che quello “short-fingered” è – a dimostrazione di quanto poco Trump sia cambiato nel corso del tempo – rimasto per sempre “under the skin”: sotto la pelle dell’attuale presidente Usa, tormentandolo ancor oggi, mentre a notte fonda va, con le sue corte dita, freneticamente twittando tra le pareti della Casa Bianca.
Per ogni persona, diciamo così, normale, aver le mani piccole e le dita corte è ovviamente – come l’esser biondi o bruni, brevi o longilinei – una cosa che può non piacere, ma non certo un motivo di vergogna o, ancor meno, una realtà da negare con stizzosa furia. Non vale lo stesso per chi – come il Trump di ieri e quello di oggi – non può ammettere, per innata egolatria che, ci sia una qualsivoglia cosa, in lui, piccola o corta. Specie se questo “chi” è – come il Trump di ieri e quello di oggi – istintivamente portato, per “machistica” deformazione, a mettere l’aggettivo corto, o piccolo, in relazione con i propri attributi virili. E molti ricorderanno, a tal proposito come, nel corso delle primarie repubblicane, Trump abbia reagito – pubblicamente, difendendo le dimensioni del suo apparato genitale – agli accenni che un suo rivale, Marco Rubio, maliziosamente fece alle sue “piccole mani”.
Il punto è questo. I primi cinque (intensi e per molti versi allucinanti) mesi di Trump alla Casa Bianca hanno dimostrato come il neo-presidente sia a tutti gli effetti – e a prescindere dalle misure delle sue mani – il medesimo “cafone” che, nei rutilanti anni 80, telefonava ai tabloid newyorkini (fingendo di essere il suo agente in vena di “rivelazioni”) per esaltare le proprie quasi sempre inventate performance sessuali con le bellezze dell’epoca (tra le sue più celebri vittime Carla Bruni e Madonna). Un personaggio non solo intrinsecamente, moralmente “piccolo” e meschino, ma anche meschinamente concentrato sulla propria intrinseca piccineria. Come ancora recentemente – al termine di una lunga serie di analoghe testimonianze – dimostrato i tweet con i quali ha approfittato della tragedia londinese per “regolare i conti” – manco a dirlo con menzognere argomentazioni – con quanti avevano a suo tempo criticato la sua messa al bando degli immigrati di religione musulmana.
E in particolare con il sindaco di Londra (un musulmano che, non-rispondendogli a dovere, gli ha anche impartito una lezione di leadership politica e di umana decenza che Trump non ha ovviamente colto). Donald Trump, presidente degli Stati Uniti d’America è, da qualunque angolatura lo si guardi, un uomo piccolo. E, quel che è peggio, è un uomo piccolo che, innamorato di se stesso, ha posto la propria piccineria al centro dell’universo, drasticamente abbassando, in poche settimane, il livello di moralità d’una grande potenza, anzi, dell’unica grande potenza planetaria che – a ragione o a torto – sempre ha considerato la propria moralità, o la propria “eccezionalità“, una essenziale parte della propria identità nazionale.
E ben poco hanno da rallegrarsi quanti hanno – come me – trascorso una vita scrutando segnali di una possibile (e oggi ovvia) “decadenza dell’impero”; o quanti, in questi ultimi anni, sono andati cianciando di “rivolta contro le élites”. Perché questo cafone-presidente – le cui corte dita poggiano oggi sul fatidico bottone nucleare – già ha cominciato, come dimostrato dall’abbandono degli accordi di Parigi, ad avvelenare il mondo. Ha ragione Noam Chomsky (un intellettuale il cui anti-americanismo non sempre mi ha convinto): il peggio ancora deve venire. E a questo peggio occorre – senza rassegnazione – prepararsi fin d’ora.