Votate per me e per il resto dei vostri giorni non dovrete più disturbarvi a farlo. Questo Donald Trump ha in sostanza detto, non più di qualche giorno fa, rivolto alla molto pia ed entusiasta platea del “Believers’ Summit”, il summit dei credenti che, convocato dal Turn Point Action, un gruppo di pressione ultraconservatore, s’è tenuto in quel di Palm Beach, Florida, ad appena un tiro di schioppo dalla trumpiana Versailles di Mar-a-Lago.
“Cristiani, uscite e votate! Solo per una volta!”, ha per l’esattezza proclamato il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America, oggi alla ricerca di quello che, solo fino a ieri, sembrava un inevitabile “bis”. E subito ha aggiunto: “Poi non lo dovrete fare più. Non voterete più. E sapete perché? Perché quattro anni ancora e tutto sarà posto, tutto sarà come deve essere e voi non dovrete più votare, miei bei cristiani…Io vi amo cristiani. Io sono cristiano. Io vi amo e voi uscite e votate per me. Quattro anni e poi non dovrete votare ancora, perché noi avremo aggiustato le cose così bene che non sarà più necessario votare…”. Parole sante, come chiunque può constatare, quelle di Donald Trump. Sante e – seppur sommerse in un frullato retorico durato oltre un’ora – anche assolutamente chiare e chiaramente riassumibili in un semplice e reiterato concetto: io, Donald Trump, sono l’ultima frontiera della Fede. Ultima in ogni senso. Ultima perché senza di me non c’è possibile salvezza. Ed ultima perché ristabilito, grazie a me e con me al comando, il Regno di Dio, null’altro si potrebbe, senza inquinarla, aggiungere ad una tanto divina perfezione. Votare di nuovo? E perché mai? Per chi?
Così parlò Donald Trump. E così le sue parole sono, fuori da tempio, risuonate: non come una profezia, ma come un richiamo alla realtà. O meglio: come l’eco d’almeno un paio di verità antiche e risapute, ma fino a solo qualche settima fa perdute nelle nebbie d’un sovrastante, onnivoro assunto: quello della senilità di Joe Biden, presidente uscente e – per quella che fino a ieri appariva una pura ma inesorabile, distruttiva forza inerziale – anche candidato democratico alla presidenza.
Un uomo della Provvidenza
Prima ed ovvia verità: Trump considera sé stesso – tesi questa avallata da un Partito Repubblicano ormai trasfiguratosi in una setta dedita al suo culto — un uomo della Provvidenza. E come tutti gli uomini della Provvidenza è anche un pericolo per la democrazia. Seconda ed interconnessa verità: come tutti gli uomini della Provvidenza, a qualunque latitudine e sotto qualunque segno politico, Donald Trump presenta un lato pagliaccesco, ridicolo, nel suo caso strutturalmente predominante perché da sempre esaltato da un narcisismo patologicamente irrefrenabile. E, ancor più, perché irreversibilmente ed incrementalmente accentuato da una senilità non più occultabile, nelle sue più demenziali espressioni, dietro quella, ben più fragile e sommessa, del suo ormai ex rivale.
In sostanza: come testimoniato dai suoi sproloqui autocratici di Palm Beach, il 78enne Donald Trump tende sempre più ad assomigliare alla propria caricatura. O, se si preferisce, ad essere la invecchiata e sgangherata caricatura di sé stesso. Tanto che del tutto lecito è ipotizzare che – per quanto desideroso di metter alla berlina le ben note aspirazioni dittatoriali del 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America – neppure il più ferocemente ostile tra gli autori di satira politica avrebbe, in analoghe circostanze, toccato gli estremi di parodia da Trump raggiunti di fronte ai “bei cristiani” del “Believers’ Summit”. Non votate per me e per il resto dei vostri giorni non dovrete più disturbarvi a farlo: sembra una barzelletta. Ed in qualche misura lo è davvero, specie se considerata nell’attuale contesto della corsa presidenziale.
Da tempo, ormai, i consiglieri di campagna di Donald Trump vanno, per puro calcolo elettorale, cercando di distanziare Trump dal trumpismo. O, più specificamente: di separare Donald Trump – che, strutturalmente incapace di vedere o considerare qualsivoglia entità fisica o filosofica al di fuori di sé medesimo, ideologicamente e politicamente è una sorta di tabula rasa – dalle idee e dai programmi che nel nome suo e della Provvidenza che lo ispira vengono elaborate dal suo entourage politico. Idee e programmi in gran parte contenuti nel cosiddetto “Project 2025”, un malloppo di quasi mille pagine che, ufficialmente elaborato dalla Heritage Foundation, storico centro di raccolta della intellettualità più a destra della destra, delinea, cavalcando l’onda del nazionalismo cristiano che scuote buona parte di quello che va sotto il nome di Occidente, una sorta di orwelliana post-democrazia. Non dichiaratamente una società liberata dai fastidi d’un periodico andare alle urne, come allegramente preconizzato da Donald Trump in quel di Palm Beach, ma di certo caratterizzata da uno Stato sotto il totale controllo, oltre ogni classicamente liberale divisione dei poteri, delle forze più reazionarie, bigotte, bianche e cristiane, in una sorta di definitiva confluenza di tutte le più illiberali correnti che, da sempre, in forma di razzismo, xenofobia e fondamentalismo religioso, scorrono nelle vene della “più antica democrazia del mondo”.
Il “Project 2025”, ovvero: il trumpuismo oltre Trump
Solo qualche giorno prima dell’inizio della Convenzione Repubblicana, lo scorso giugno, quando pareva delinearsi, per Trump, una trionfale marcia verso la Casa Bianca, Kevin Roberts, presidente della Heritage Foundation, aveva presentato questo progetto, non solo come il programma di fatto d’una ormai inevitabile prossima presidenza Trump, ma anche – anzi, soprattutto – come una “seconda rivoluzione americana”. Uno storico, radicale ribaltamento di forze che, aveva aggiunto con molto minacciosi accenti, si preannunciava come “non cruenta”, ma solo a patto che la sinistra – la famosa America “woke” – le consentisse di restare tale. Insomma: arrendersi o perire. Nel nome (nell’ordine) di Dio, di Trump, della proprietà, della Patria e della Famiglia (quella, ovviamente, rigorosamente formata da un uomo e una donna, con divieto d’interruzione della maternità, garantito, in qualunque circostanza, da un pubblico, poliziesco controllo su ogni forma di gravidanza)
Tutte cose bellissime se viste in un’ottica trumpiana, ma anche – nella misura in cui confermavano tutti i timori sugli autocratici destini d’una presidenza Trump – elettoralmente del tutto premature. Tanto che, di fronte alle grida d’allarme scandite in campo democratico, lo stesso Trump – difficile dire se motu proprio o sospinto dai suoi più accorti consiglieri elettorali – s’era affrettato a prendere le distanze da questa sorta di ultimatum. Lo aveva, naturalmente, fatto “alla Trump”. Ovvero: ricorrendo alla più grossolana e sfacciata delle menzogne. Il “Project 2025”? Mai sentito nominare aveva detto rispondendo a sé stesso, da par suo sorvolando sul fatto che praticamente in ogni riga di quelle mille pagine fossero più che evidenti le impronte digitali sue e dei suoi più stretti collaboratori: mai sentito nominare…E questo detto, s’era quindi, con molto trumpiana coerenza logica, affrettato a sottolineare come pur ignorandone totalmente l’esistenza, considerasse quel documento “troppo estremo”.
Quel che passa nella mente di Trump
Belle parole. Parole moderate, da vero statista. Peccato che appena una mezza dozzina di giorni dopo tutti abbiano potuto ascoltare Donald J. Trump – il candidato che mai aveva sentito nominare il “Project 2025” – non solo nominare, ma esaltare, nel nome d’un Dio di cui s’è autonominato profeta, una società nella quale, grazie alla sua vittoria, nessuno dovrà (potrà) più votare. Il che ha spinto un buon numero di persone – nemici ed amici – a chiedersi quale sia l’effettivo stato mentale d’un aspirante presidente che, impegnato a smentire i suoi legami con documenti che delineano svolte autoritarie, estaticamente e pubblicamente s’abbandona a lascive fantasie di dittatoriale onnipotenza che vanno ben oltre i ferali (ferali per la democrazia) traguardi delineati dal “Project 2025”. Votate per me e sarà il vostro ultimo voto. Un po’ troppo, probabilmente, anche per quei cristiani che, per i più vari m motivi, propugnano una molto masochistica versione della propria fede.
Così stanno le cose. Fino a soltanto poche settimane fa tutti i riflettori erano puntati sulle larvatiche sembianze di Joseph Robinette Biden Jr., sul suo camminare a passi corti ed incerti, sulla sua voce arrochita e flebile, sulle sue senili smemoratezze e le sue gaffe. Il tutto contrapposto all’irresistibile ascesa d’un santo-eroe-martire il cui orecchio insanguinato già era diventato, alla vigilia della Convenzione repubblicana di Milwaukee, parte di una immaginetta, la sacra icona d’una nomination diventata cerimonia di beatificazione. Poi è bastato un colpo di vento e la nebbia s’è diradata. O, fuor di metafora, è bastato che Biden annunciasse, per il bene del suo partito e della Patria, il ritiro dalla contesa, e tutto si è ribaltato. O forse, più esattamente, tutto è tornato al suo posto, chiaro e visibile oltre le brume. Adesso è Trump il “vecchio rimbambito” della storia. Sono le sue gaffe, o meglio, i suoi senili pastrocchi oratori a far cronaca. È la sua naturale e pacchiana vocazione autoritaria a trovarsi impietosamente nel cono di luce. Ed è in questo contesto che, in forma di luna di miele, è cominciata la corsa di Kamala Harris. Una storia tutta da scrivere.
Nessun contraccolpo, nessuna divisione interna, nessun caos. Nessuno dei timori che, in casa democratica, avevano accompagnato l’ipotesi d’una repentina (e comunque tardiva) uscita di scena di Joe Biden, ha infine preso corpo. Kamala Harris che difficilmente, vi fossero state, assente Biden, primarie competitive, sarebbe uscita vincente dalla contesa, vola ora verso la Convenzione di Chicago sulle ali d’un partito più che mai unito e di sondaggi più che incoraggianti. A livello nazionale la forbice si è non solo ridotta a zero, ma anche, in non pochi casi, mostra un leggero vantaggio su Trump. Ed anche nei cosiddetti “battleground States” – gli Stati in bilico nei quali di fatto si decideranno le sorti della contesa – Kamala si è riavvicinata ai livelli che, nel 2020, avevano garantito la vittoria di Joe Biden. Nulla è deciso, nulla è scontato. Ma è un dato di fatto che, con il ritiro di Biden, l’inerzia della corsa è repentinamente e radicalmente cambiata. Ed è Trump adesso che deve adattarsi alla nuova realtà.
Michigan, Wisconsin e Pennsylvania
Fossero quelle negli Stati Uniti elezioni “normali”, dove vince chi prende più voti, si potrebbe forse fin d’ora puntare qualche modesta somma su Kamala Harris, i cui indici di gradimento, molto bassi nelle sue vesti di vicepresidente, si sono di repente impennati, fin quasi a raggiungere la fatidica soglia del 50 per cento. Nella logica assurda dei collegi elettorali Trump mantiene però un vantaggio che, per quanto ridimensionato, resta importante. Vinca chi vinca il voto popolare, ribadiscono ogni giorno gli esperti, saranno presumibilmente tre dei cinquanta Stati dell’Unione – Michigan, Wisconsin e Pennsylvania – a decidere chi sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca. E dentro questi tre Stati sarà probabilmente – cosa di non buon auspicio per la Harris – una porzione del vtoto “white male”, del maschio bianco, a spostare gli equilibri in modo decisivo.
Quello che accadrà a novembre resta, per dirla con una frase fatta, “an enigma wrapped in a riddle”, un enigma avvolto in un indovinello. Con una sola certezza. Vinca Trump – che comunque, lo si può per scontato, non accetterà la sconfitta dovesse perdere – o vinca Kamala Harris, la democrazia americana dovrà, per sopravvivere, reinventare se stessa. Trump è il sintomo, non la malattia. E quella che oggi suona come una barzelletta mal raccontata – votate per me non dovrete più votare – potrebbe davvero, in un futuro nient’affatto lontano, diventare una profezia.