Non una burla, ma una profezia…
“I could stand in the middle of Fifth Avenue and shoot somebody, and I wouldn’t lose any vote, OK?”, potrei sparare a qualcuno nel pieno della Quinta Strada e non perderei un solo voto. Questo – in quella che è giustamente considerata una delle più significative “perle” del suo vastissimo repertorio d’auto-esaltanti accenti – disse Donald J. Trump tempo addietro, quando ancora ben pochi analisti politici pensavano potesse diventare il 44esimo (e di gran lunga il peggiore) dei successori di George Washington, o anche soltanto un credibile candidato alla nomination repubblicana. Molti la presero, allora, per una macabra burla. Ma si trattò, a tutti gli effetti, d’una profezia. O, se si preferisce, d’una macabra e burlesca profezia della quale, tra appena un paio di giorni, cadrà il quinto anniversario.
Vale la pena ricordarlo: era il 16 gennaio del 2016. Ed in quel di Sioux Center, nello Stato dello Iowa – il punto dal quale, per una delle molte bizzarrie del sistema elettorale Usa, da sempre parte, nella obsoleta forma del “caucus”, la stagione delle primarie – Donald J. Trump appena cominciava, insieme ad altri otto aspiranti, la sua corsa verso 1600 Pennsylvania Avenue. Lo faceva da par suo, esaltando l’arma che a suo dire (ed a dire anche delle cronache che seguirono) lo avrebbero portato alla vittoria: l’irresistibile ed invincibile fascino del suo carisma, il magnetismo d’una personalità, la sua, capace d’imporre livelli di fedeltà e di venerazione che nessun altro candidato poteva, anche soltanto alla lontana, vantare o comandare. Una fedeltà ed una venerazione, per l’appunto, a prova d’omicidio.
I could stand in the middle of Fifth Avenue and shoot somebody, and I wouldn’t lose any vote, OK?
Donald Trump
È, da quel giorno, passato quasi esattamente un lustro. E molte sono le cose che, in questo lustro, sono accadute. Donald J. Trump ha vinto da “outsider” le primarie, sbaragliando, uno dopo l’altro, tutti i candidati più o meno entusiasticamente sostenuti dall’establishment repubblicano. Conquistata la “nomination” e totalmente sottomesso – per la verità senza grande sforzo – l’establishment di cui sopra, Trump ha poi vinto (pur perdendo nel voto popolare) la corsa alla Casa Bianca. Ed alla Casa Bianca per quattro anni è rimasto, violando ogni norma di democrazia e di decenza, grazie alla religiosa ferocia con la quale la sua devotissima “base” e quel medesimo establishment – ora trasfiguratosi nella congregazione d’un culto a lui dedicato – lo hanno sistematicamente difeso ed incoraggiato.
Non ha sparato a nessuno nel bel mezzo della più importante arteria di Manhattan, Donald J. Trump. Ma ha fatto di molto peggio: ha ripetutamente ed impunemente cercato di assassinare la democrazia americana. Gli orrori che, nei giorni scorsi, hanno insudiciato il già di per sé immondo crepuscolo della sua presidenza – le false (e sempre risibili) denunce di frodi altrui, i suoi paralleli tentativi di cancellare, in questo caso davverio in modo fraudolento, voti assolutamente validi; e, infine, lo scatenarsi della violenza contro il Congresso che da quelle denunce e da quei fraudolenti tentativi era stata apertamente sobillata – non sono state, in fondo, che le ultime stridenti note, una sorta di sordido gran finale, d’un crescendo durato quattro anni. Anzi: d’un crescendo cominciato molto prima di Donald Trump. E da Trump enfatizzato e rappresentato – sceneggiato, verrebbe da dire – come solo un gran ciarlatano, un patologico narcisista ed un divo di reality show rimasto fondamentalmente estraneo, per boria, non per onestà, alle regole ed alle ipocrisie della politica di Palazzo, era in grado di fare.
As never before…
“As never before”, come mai prima d’ora. Questa è stata forse la più reiterata catch-phrase, lo slogan che, in questi suoi anni di presidenza – e, di fatto, lungo la sua intera esistenza di venditore di fumo – Donald Trump ha usato per commentare qualsivoglia opera sua. Secondo la vulgata agiografica trumpiana, tutto ciò che lui ha fatto, tutto ciò che lui ha “venduto” al paese, per quantità e qualità è sempre stato senza precedenti e senza eguali nella Storia, non solo degli Stati Uniti, ma dell’intero pianeta. Ed è certo che, in almeno due casi, questo “come mai prima d’ora”, di norma prodotto d’una instancabile produzione di menzogne (per una media di 15 al giorno, stando agli addetti al fact-checking) s’è davvero incontrata, a dispetto delle intenzioni, con la realtà dei fatti.
Fu così nel settembre del 2018 quando, grazie ad una molto tracotante e risibilissima esibizione di vanagloria (sostenne che lui, in appena due anni di presidenza, aveva fatto di più e meglio, in ogni campo, di tutti i suoi predecessori negli oltre due secoli previi) Trump – cosa mai prima riuscita a nessun presidente Usa e, probabilmente, a nessun altro capo di Stato – involontariamente provocò un’ondata di spontanea ilarità nel molto solenne clima dell’Assemblea Generale dell’Onu. Ed è accaduto di nuovo ieri, in virtù quello che certamente, e senza ilarità alcuna, resterà nella Storia, come il vero suggello, l’atto dirimente, il senso ultimo della sua presidenza. Ovvero: in virtù del suo secondo impeachment, approvato la notte scorsa, con procedura ‘express”, ad una settimana appena dal giorno “naturale” del suo trasloco dalla Casa Bianca, dalla House of Representatives: 232 voti a favore, 197 contro. “Incitamento all’insurrezione” è stata l’accusa. Laddove il termine “insurrezione” – scevro d’ogni storica memoria di nobili ribellioni contro poteri tirannici – sta semplicemente per attacco sovversivo contro le istituzioni democratiche. O, più semplicemente, per “treason”, tradimento, come, nel dichiarare il suo molto enfatico “sì” all’impeachment, ha senza mezzi termini sottolineato ieri Liz Cheney, rappresentante ultraconservatrice del Wyoming e figlia d’arte di Dick Cheney, famoso ed alquanto “rasputiniano” vice-presidente ai tempi di George W. Bus –
“As never before”, davvero. Nei quasi 250 anni della storia americana, solo altri due presidenti, Andrew Johnson e Bill Clinton – tre volendo mettere in conto il caso di Richard Nixon che si dimise per non subire l’onta d’un processo e d’una inevitabile condanna – erano passati per le forche caudine d’un impeachment. Trump ha raggiunto il medesimo risultato in un solo mandato, sintetizzando in un quadriennio quel che altri avevano costruito in un quarto di millennio. Ed è un vero peccato che ora, per colpa degli elettori, non possa tornare di fronte all’Assemblea dell’Onu per rivendicare – in questo caso con incontestabili dati di fatto e senza rischio d’alcuna ilare reazione della platea – questo straordinario e davvero storico successo. Un “unicum” che, peraltro, potrebbe presto addirittura ulteriormente raddoppiarsi, dovesse Donald Trump (cosa tutt’altro che scontata, ma a questo punto non impossibile) diventare – altro “as never before” da reclamare di fronte al mondo – il primo presidente ad essere effettivamente condannato dal Senato per l’impeachment decretato dalla Camera dei Rappresentanti.
L’assalto a Capitol Hill, lanciato, per diretta istigazione presidenziale, nel giorno in cui il Congresso doveva formalmente decretare – sulla base di risultati verificati e certificati, dopo conteggi e riconteggi, da tutte le istanze competenti, elettorali e giudiziarie – la vittoria di Joe Biden, ha, per la sua intrinseca e spettacolare gravità “sovversiva”, mosso qualcosa nel Partito Repubblicano. Così come qualcosa, pima di quell’assalto, avevano smosso le minacce ed i ricatti con i quali il presidente in carica aveva cercato di spingere funzionari di provata fede repubblicana a violare le leggi dello Stato.
Un “impeachable crime” lungo 4 anni
Se analizzati con attenzione, in fondo, tutti i quattro anni della presidenza Trump non sono stati che questo: un lungo, ininterrotto “impeachable crime”, una lunga sequenza di quegli “high crimes or misdemeanors” previsti come presupposti d’un processo di impeachment dalla sezione 4 dell’articolo 2 della Costituzione degli Stati Uniti. E non fosse stato per il muro di protezione eretto attorno al presidente dalla maggioranza repubblicana del Senato, non vi sarebbe in realtà stato, per mettere il presidente sotto accusa, che l’imbarazzo della scelta. Un anno fa Trump era finito sul banco degli imputati – da reo confesso, come può constatare chiunque si prenda la briga di rileggere la trascrizione editata della conversazione telefonica tra Trump ed il presidente ucraino Volodymyr Zelensky – per “abuso di potere”. E venne salvato, com’è noto, grazie al vergognoso e scontatissimo cover-up organizzato da Mitch McConnell, capo della maggioranza repubblicana del Senato. Niente prove, niente testimoni, niente verità. E, di nuovo, solo pochi giorni fa, giusto alla vigilia della marcia su Capitol Hill, i media avevano diffuso la registrazione della lunga telefonata (oltre un’ora) con la quale Trump, commettendo il più “impeachable” degli “impeachable crimes”, aveva, invano, cercato di convincere il segretario di Stato della Georgia, un repubblicano di antica fede, a falsificare i risultati elettorali: “Tutto quello che ti chiedo è di trovare gli 11.780 voti di cui ho bisogno….”.
Le cose appaiono, stavolta – mentre, in un tristissimo tramonto, il sole del trumpismo s’approssima alla linea dell’orizzonte – leggermente diverse. Ieri dieci dei 211 deputati repubblicani della Camera hanno votato a favore dell’impeachment. Ed alcuni – come la già citata Liz Cheney, numero 3 del partito – lo hanno fatto usando, nei confronti di Donald Trump, espressioni di straordinaria durezza. Altri – un paio di dozzine in tutto, tra i quali il leader della minoranza Kevin McCarty – pur votando contro l’impeachment, hanno riconosciuto le “gravi responsabilità del presidente” nell’attacco a Capitol Hill del 6 gennaio. E sul fronte del Senato, Mitch McConnel, leader della maggioranza, ha lasciato intendere che potrebbe domani votare a favore d’una condanna dell’ex presidente. Il tutto con una sentenza “postuma”, ma tutt’altro che platonica, visto che immancabilmente precluderebbe Donald Trump – divenuto ineleggibile a qualsivoglia carica pubblica – la strada verso una nuova corsa presidenziale nel 2024.
Tutto si muove….
Tutto, in queste ore, sembra vorticosamente muoversi, nella politica americana. E nulla, a prima vista, sembra muoversi in direzione di Donald Trump. Sconfitto elettoralmente, indissolubilmente identificato con la vergogna consumatasi giorni fa sotto gli occhi del mondo intero, messo al bando dai social – Twitter in particolare, da lui sempre usato come sua prima piattaforma di propaganda – ed ora abbandonato da almeno una parte dei membri del culto, il sempre più “ex” presidente sembra oggi una sorta di pariah. E forse davvero questo secondo impeachment ha sigillato una sua definitiva uscita dalle scene politiche, o un suo restare sul proscenio solo come protagonista, lungo un patetico crinale di politica decadenza, di vicende giudiziarie e mondane.
Trump se ne va. Quelle che restano, appena nascoste dietro gli ultimi “sovversivi” spasimi della sua presidenza, sono le ragioni che lo hanno portato alla Casa Bianca. Quella che resta è la malattia di cui Trump non è stato, a conti fatti, che un sintomo. Joe Biden è arrivato alla Casa Bianca promettendo il ripristino di “the soul of America”, la redenzione di un’anima americana che, perdutasi nei meandri tenebrosi del trumpismo, nella diversità torna a riconoscere se stessa attorno ad alcuni fondamentali valori di democrazia e di solidarietà. Ma la verità è che l’America sta marciando verso il suo futuro divisa in tre parti molto difficilmente tra loro conciliabili. L’America democratica che gli ha regalato la vittoria e che, pur divisa al suo interno, ha ritrovato unità e forza proprio nella battaglia contro il pericolo trumpista. L’America di Mitch McConnell che, dopo avere servilmente servito il trumpismo, cerca ora, con più moderati e “tradizionali” accenti, di perpetuarne il senso senza Donald Trump. O, almeno formalmente, contro Donald Trump. Terza ed ultima America: quella che ancora è – e per molto tempo resterà -l’America di Donald Trump.
Liz Cheney ha accusato ieri il presidente di tradimento. Ma quasi i due terzi dei deputati repubblicani hanno fedelmente seguito il presidente in tutte le sue antidemocratiche mattane. L’ultima compresa. E la “base” – la famosa base che, cinque anni fa, era teoricamente disposta a soprassedere anche di fronte ad un omicidio – non sembra essersi di molto ridotta, né aver cambiato idea. Prima delle presidenziali gli indici di gradimento di Donald Trump (che mai, nel corso della sua presidenza, si sono avvicinati al 50 per cento) volavano poco al di sopra del 40 per cento. Oggi – dopo tutti i traumi post-elettorali e dopo lo spettacolo delle orde trumpiane che razziavano il Congresso – sono appena al di sotto di quella quota.
Tutto cambia e nulla cambia. Donald Trump ha perso e Joe Biden ha vinto. Ma la democrazia americana resta, a tutti gli effetti, in prognosi riservata.