Pressoché ogni dittatore che si rispetti ha, in tempi e modi diversi, avuto il suo. Quello di Benito Mussolini s’apriva, notoriamente, sulla facciata austera di Palazzo Venezia, all’ombra delle marmoree pretenziosità dell’Altare della Patria. E da lì “il duce fondatore dell’impero” – come da protocollo lo presentava il fido Achille Starace – usava rivolgersi alle adoranti folle delle sue “oceaniche” adunate. El Caudillo Francisco Franco s’avvaleva – per la verità con molta più parsimonia – di quello prospicente i giardini del Palazzo Reale di El Pardo, a Madrid. E Juan Domingo Perón, affiancato dalla moglie Evita, amava arringare i suoi “descamisados” da quello che, a Buenos Aires, dalla Casa Rosada s’affaccia sulla Plaza de Mayo. Sicché era facile prevederlo: pur non essendo un dittatore, ma essendo solito muoversi, parlare e ragionare come un dittatore (ed uno della più sguaiata variante), proprio su un balcone, il “suo” balcone, Donald J. Trump, presidente degli Stati Uniti d’America, ha finito per vivere, giorni fa, il più emblematico e spettacolare dei suoi sempre più frequenti (sto plagiando l’espressione usata da un anchorman della rete televisiva NBC) “Mussolini moments”.
Il balcone in questione è, ovviamente, quello che, noto come “Truman’s Balcony”, dal secondo piano della White House ed al termine d’una duplice scalinata rimira la verde distesa del South Lawn. Era stato qui, da queste altezze, che a fine agosto, chiudendo la Convention repubblicana, Donald Trump aveva rivolto il suo trionfale “acceptance speech” ad una folla di delegati troppo religiosamente impegnati a venerarlo per rispettare le regole di distanziamento sociale imposte dalla pandemia. Ed è stato qui che, con molto studiata teatralità, Trump è tornato martedì scorso, reduce da quattro brevi giorni di degenza nel Walter Reed National Military Medical Center, dove era stato ricoverato perché infettato dal virus la cui sconfitta aveva da par suo – e senza alcun risparmio d’enfasi – celebrato nel corso della Convention.
La scena era stata, con tutta evidenza, studiata per “restare nella Storia”. E nella Storia di certo resterà, anche se, presumibilmente, non nel modo da Trump auspicato. Dimesso dall’ospedale dopo 96 ore marcate da bollettini medici contraddittori e confusi – di certo c’era solo il fatto che l’illustre paziente, sottoposto ad un trattamento di norma riservato ai malati gravi, era ancora contagiato e contagioso – il presidente USA è sbarcato in elicottero nei verdi prati antistanti la Casa Bianca. E, sotto la luce dei riflettori, ha quindi salito uno dopo l’altro, con passo agile e deciso, gli scalini che portano al Truman’s Balcony. Lì giunto, rimirando lontani orizzonti, il presidente Usa si è quindi liberato – con la cinematografica gestualità d’uno dei tanti supereroi in calzamaglia che, infine, rivelano al mondo la loro vera identità – della mascherina che gli copriva il volto. Non si è levato in volo – “più veloce della luce” come Superman – Donald J. Trump. Ma si è molto solennemente e ripetutamente irrigidito in un saluto militare rivolto al nulla. Perché il nulla – a parte l’elicottero atterrato nel South Lawn – aveva davanti a sé. E perché alle sue spalle non c’era che una Casa Bianca decimata (sono quasi quaranta, e in molti casi alquanto “illustri”, i funzionari e gli impiegati risultati positivi al coronavirus negli ultimi giorni) da un contagio del quale lui stesso è stato l’untore (sicuramente intellettuale e, in alcuni casi, probabilmente anche effettivo).
Volevano, quei gesti e quei silenzi, trasmettere “forza”, l’eroica immagine d’un presidente non solo vittorioso, ma invincibile, una sorta di nuovo Teseo entrato nel labirinto del Covid-minotauro ed uscitone trionfatore, mostrando la mondo la testa mozzata del mostro. Eppure per un istante – solo per un istante e molto più per contrasto che per similitudine – Donald Trump ha rammentato, nella sua esibizione, non qualcuno dei semi-dei della mitologia classica (branca del sapere a lui di certo sconosciuta), ma uno dei più celebrati ed intriganti anti-eroi manzoniani: quel Don Ferrante che, nei Promessi Sposi, cade, come Don Trump, vittima d’una pandemia – la terrificante peste bubbonica del 1630 – la cui esistenza aveva fino al suo ultimo istante di vita negato in base ad alcuni suoi molto contorti studi di astrologia.
E qui si fermano le somiglianze, perché ad unire i due Don – il Ferrante ed il Trump – non c’è in realtà che il genere: quello, per l’appunto, della tragicommedia. Sebbene dal Manzoni elevato a, per l’appunto, tragicomico simbolo dell’astratta vacuità dell’intellettualità seicentesca, tutta forma e niente sostanza, Don Ferrante era, infatti, anche un uomo colto, perennemente immerso nella lettura dei suoi 300 libri (un’enormità per l’epoca). E da uomo colto, alla fine, proprio di peste Don Ferrante muore, maledicendo, “come un eroe del Metastasio”, le stelle che l’avevano tradito. Don Trump, notoriamente allergico alla lettura ed a qualunque libro che non porti la sua firma (ne ha pubblicati una dozzina, tutti ovviamente scritti da ghost writers) alla peste del Covid-19 è invece fin qui (a suo dire molto brillantemente) sopravvissuto. E lo ha, contrariamente a Don Ferrante, fatto benedicendo sé stesso come un altrettanto tragicomico salvatore della patria.
Dal labirinto del Covid Donald Trump è uscito – se davvero ne è uscito, visto che le sue diagnosi restano un mistero – così come ne era entrato: mentendo. Il presidente Usa aveva mentito quando – prima, durante e dopo la Convention – aveva dato per ormai superata, grazie alle sue brillanti strategie, la crisi della pandemia (il “virus cinese”). E mente ora riproponendosi con un messaggio che, di nuovo, nella sua macabra semplicità, contraddice la logica, la scienza e la decenza: non abbiate paura del Covid, ha detto e ripetuto il presidente in una serie di messaggi televisivi. Non lasciate che il Covid condizioni le vostre vite. Guardate me e riconoscetevi nel baldanzoso orgoglio – “non mi sono mai sentito meglio negli ultimi 20 anni” – col quale io sono eroicamente uscito dal tunnel. Il mio contagio, ha aggiunto Trump, altro non è stato che “un dono di Dio”, perché, è grazie a me ed alla mia battaglia che, per divina volontà, ora esiste una cura contro il virus. Ed una cura che, prestissimo, sarà a disposizione di tutti. Io, ha detto Trump, chiamo tutto questo “un miracolo”.
Quella che Trump va chiamando “cura” (miracolosa o meno) non è, in realtà, che una terapia sintomatica sperimentale – un cocktail di farmaci anticorpi prodotto in piccole dosi da Regeneron, un’impresa farmaceutica – usato fin qui con qualche successo (come nel caso di Trump) per contenere le più nefaste conseguenze del virus. Ed in ogni caso, anche qualora la sua produzione in forma industriale venisse approvata dalla Federal Drug Administration – come ignorando il parere degli esperti Trump va chiassosamente reclamando – ben difficilmente potrebbe esser disponibile in forma massiva prima di molti mesi. Di certo non sarà disponibile per quelli che, in tutti i discorsi di Donald Trump erano e restano i grandi assenti, invisibili ed impalpabili entità, dettagli privi di importanza, merci a perdere: le oltre 210.000 anime, che il Covid (lo stesso Covid che, per due volte, prima come grande condottiero e poi come prescelto da Dio, il presidente Usa già ha sconfitto) ha fin qui ucciso. E quelli che continuerà ad uccidere.
Che cosa sono per Donald Trump questi morti, questi numeri che, indebitamente, offuscano la narrativa del mito? Per rispondere occorre percorrere a ritroso il frenetico succedersi delle notizie – il cosiddetto news cycle – che, in questi tempi trumpiani, va velocissimamente bruciando e cancellando, o meglio, normalizzando senza respiro ogni scandalo ed ogni orrore. Solo qualche settimana fa – prima del ricovero del presidente Usa, prima dello “shit show” del dibattito presidenziale tra Trump e Biden, prima della rivelazione delle tasse non pagate da Trump, prima di molte altre aberrazioni di cui già si è persa memoria – una storia aveva, per qualche brevissimo istante, sollevato un’ondata d’orrore. Stando ad un articolo scritto da Jeffrey Goldberg per la rivista The Atlantic, in ripetute occasioni Donald Trump si sarebbe, da presidente, riferito ai soldati caduti in guerra – nel caso specifico i giovani americani morti in battaglia durante la Prima Guerra Mondiale e sepolti nel cimitero di Aisne-Marne, non lontano da Parigi – come “losers and suckers”. Perdenti e boccaloni. Affidata a testimonianze rimaste anonime, quest’accusa – prevedibilmente respinta con sdegno dalla Casa Bianca – potrebbe esser non vera. Ma è certamente verosimile alla luce di quella che sempre è stata la dichiarata filosofia di vita di Donald Trump. Per lui il mondo si divide semplicemente in due parti: quella di chi vince e quella di chi perde. Ed è così da sempre. Nel lontano 1991, quando ancora non era che un rutilante palazzinaro newyorkese ed un personaggio da rotocalco (con, tuttavia, qualche risibile ambizione da maître à penser) Donald già aveva espresso in modo inequivocabile la sua visione del mondo in una intervista a Playboy. Una delle domande più attinenti ai fatti del mondo riguardava quello che, nel fatidico 1989, era accaduto nell’impero sovietico e in Cina. A chi andavano, gli aveva chiesto l’intervistatore, le sue simpatie: a Gorbachov che tentava di democratizzare il comunismo sovietico, o ai dirigenti cinesi che, per difendere il comunismo (o, più propriamente. il proprio potere), avevano massacrato gli studenti di piazza Tienanmen? E senza esitazioni Trump aveva scelto i secondi in base ad un molto elementale ragionamento: il primo era stato “weak”, debole, ed aveva perso. I secondi erano stati “strong”, forti e avevano vinto.
Vincere e perdere. Chi vive vince, chi muore perde. E questo – loser, perdenti – sono per Trump, abbia davvero pronunciato o non pronunciato quelle parole, i giovani caduti in Francia. Loser and suckers, perdenti e boccaloni, contrapposti ai vincenti, agli imbroglioni che li hanno mandati a morire restandosene, come recitava un’antica canzone “disfattista”, “con le mogli nei letti di lana”. Loser and suckers, come, per l’appunto, i 210.000 esseri umani, morti e perdenti, che il Codid-19 ha fin qui spazzato via. Vincere e perdere. Altri valori non esistono. Non la libertà, non la democrazia, non l’onestà. E della verità neanche vale pena parlare. Neppure i valori classici della destra più reazionaria – Dio, Patria e Famiglia – hanno, oltre le ragioni d’una pura opportunità politica, un riconoscibile spazio ideale nella morale trumpiana. Persino il revanscismo bianco, la xenofobia, il fondamentalismo religioso ed il più cupo complottismo negazionista che oggi dal trumpismo vengono quotidianamente alimentati non sono, in fondo, che l’involucro, la sovrastruttura di questa ancor più primitiva e tenebrosa weltalschauung.
Losers sono, per Trump tutti coloro che a lui, vincente per default, si contrappongano, non importa per quali ragioni. Losers sono, per Trump, non solo le persone, ma anche – anzi, soprattutto – i fatti che contraddicono le sue vittorie. Ed è da invincibile eroe che oggi, cancellando perdenti e boccaloni, morti e fatti, invita l’America a non avere paura del virus. Il tutto con un ancor più inquietante coda: il “miracolo” d’una guarigione direttamente concordata col Padreterno sembra infatti aver reso Trump – forse perché, per rimetterlo in piedi, i medici del Walter Reed, hanno usato il Dextametasone, uno steroide che si usa anche per drogare illegalmente i cavalli da corsa – ancor più aggressivo, incoerente e pericoloso. Ieri, in una lunga ed incontenibile intervista telefonica con Fox News, Donald ha esaltato se stesso e la propria genetica superiorità – “I’m a perfect phisical specimen”, io sono un esemplare umano fisicamente perfetto,e per questo sono guarito – ed ha furiosamente distribuito insulti non solo ai nemici – in particolare a Kamala Harris, runnnig mate di Joe biden, definita “un mostro” e “una comunista” – ma anche ad alcuni dei più servili tra i membri del suo governo: in particolare il segretario di Stato Mike Pompeo ed all’Attorney General, Bob Barr, accusati di non aver fatto abbastanza per mandare in galera Hillary Clinton (sì, avete indovinato, ancora una volta per la famosa, vetusta e smontatissima vicenda delle e-mail).
Non resta che sperare che – cosa tutt’altro che scontata, nonostante i sondaggi – tra tre settimane gli americani abbiano, di questo “perfetto esemplare umano”, paura quanto basta per sfrattarlo per mezzo del voto. Ma accetterà, Donald Trump, di abbandonare la Casa Bianca, pacificamente entrando nel novero dei losers? Per la prima volta nella storia degli U.S.A. esistono molte buone ragioni per dubitarlo.