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Thursday, January 2, 2025
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Trump: a chi il canale? A noi!

Tra meno di tre settimane Donald J. Trump, tornerà, democraticamente eletto, in quella Casa Bianca che con tanto ingloriosa e violenta riluttanza aveva abbandonare quattro anni fa. Tornerà, lui stesso lo ha ripetutamente annunciato, con toni degni del Rigoletto verdiano, melodrammaticamente sventolando – “vendetta, tremenda vendetta” – una lunga lista di nemici interni da colpire. Ed anche, a quanto pare, con in tasca un breve, ma significativo elenco di molto imperiali pretese territoriali. Il Canada, per il suo bene destinato a diventare il 51esimo Stato degli Usa, ragion per la quale Trump già ha cominciato a sarcasticamente chiamare “governatore” l’attuale “Prime Minister” Justin Trudeau. La Groenlandia, da comprare, con le buone o con le cattive, dalla Danimarca. E, dulcis in fundo, il canale di Panama, da riportare – “in full and without questions”, nella sua totalità e senza domande – sotto il controllo statunitense, a un quarto di secolo, ormai, dalla sua definitiva consegna alla Nazione che quel canale attraversa collegando l’oceano Atlantico al Pacifico.

Difficile – come sempre quando di Donald Trump si tratta – è decidere se è il caso di ridere o di piangere. Ed ancor più difficile è – di fronte ai non pochi che, in queste ore, vanno comparando le ambizioni espansionistiche dello zio Sam in versione trumpiana con quelle che, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, marcarono la politica di Theodore “Ted”  Roosevelt – resistere alla tentazione di ricorrere alla più abusata delle massime marxiane: quella, ovviamente, che – “la prima volta come tragedia, la seconda come farsa…” – nel 1852 apri l’avvincente narrazione de “Il Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte”. Non per altro: “Speak softly and carry a big stick”, parla con dolcezza e mostra un grosso bastone, era slogan col quale Roosevelt amava illustrare la sua politica in quello che considerava il “cortile di casa” degli USA. Due connessi capisaldi tattico-strategici, questi, dei quali impossibile è reperire traccia alcuna – se non per l’appunto, in forma caricaturale – nella prassi e nella teoria trumpiana. E questo non solo perché nessuna dolcezza è riscontrabile, in qualsivoglia forma, nella sempre più sgangherata retorica dell’ormai quasi ottantenne nuovo/vecchio presidente Usa. Ma anche perché il “grosso bastone” che Trump va da par suo brandendo, assomiglia, in assenza di qualsivoglia sostegno logico-storico-politico, assai più a quello brandito da “o’ pazzariello” nei vicoli della vecchia Napoli, che al temibile simbolo d’una potenza imperiale. 

I responsabili dei paesi presi di mira – tutti, peraltro, fedelissimi alleati degli Stati Uniti d’America – già hanno provveduto a rispondere con un classico “neanche per sogno”, alle mattane neoimperialiste di Donald Trump. E più che possibile è che le suddette mattane altro a conti fatti non siano – come non pochi vanno argomentando – che grossolani espedienti per aprire qualche più ragionevole e sofisticata forma di negoziato. O, peggio, per allontanare l’attenzione dalle roboanti ed irrealizzabili promesse che hanno scandito la campagna elettorale di Donald Trump. Ridurre a zero l’inflazione in una settimana, deportare in un lampo 15 milioni di immigranti illegali, elevare tutte le tariffe doganali a protezione dell’economia nazionale, far cessare in ventiquattrore le guerre in Ucraina e in Medio Oriente, fare di nuovo grande l’America e, già che ci siamo, salvare il mondo – “solo io posso farlo” – da un’ormai inevitabile Terza Guerra Mondiale. Vale però la pena, in attesa di sapere come terminerà la storia (quella con la s minuscola messa per l’appunto in moto dalle fandonie neo-imperiali di Trump) ripassare, soprattutto nel caso di Panama, quel che ci racconta la Storia (quella con la S maiuscola).

Che cosa rappresenta, per il gli Stati Uniti e per le Americhe, il canale di Panama? Di quale Storia (sempre con S maiuscola) è parte integrante quella striscia d’acqua tra le montagne?

Sul piano personale, le bizzarre ambizioni espansionistiche di Donald Trump, hanno riacceso nella mia memoria il lontano ricordo delle analoghe (ma di certo molto più coerentemente motivate) nostalgie del passato (si stava meglio quando si stava peggio) a suo tempo illustratemi da Octavio Vallarino, imprenditore immobiliare di grande successo ed uno dei più visibili “angeli” che circolavano allora (e che più che mai vanno circolando ai giorni nostri) nel paradiso fiscale sorto attorno al canale. Correva l’anno 2004. Ed a Panama mi ero recato per seguire le elezioni presidenziali, le prime dopo il definitivo passaggio – il 31 dicembre del 1999, al termine di un processo iniziato 22 anni prima, con il trattato Carter-Torrijos – del canale nelle mani del Paese che lo ospitava.

Dalle amplissime vetrate degli uffici della impresa immobiliare Desarrollo srl, al ventesimo piano d’uno dei luccicanti grattacieli che costeggiano la Avenida Balboa, si godeva, ricordo, una splendida vista dell’intera Baia. Ed era stato proprio Vallarino a mostrarmi come, guardando con attenzione, prima verso nord, e poi verso sud, fosse possibile scorgere molti dei luoghi per i quali è passata, nel corso dell’ultimo mezzo e passa millennio, la storia di questo pezzo di mondo. A cominciare, ovviamente, dalla Punta Patilla, dove si dice sia sbarcato, nel 1510, l’uomo che ha dato il nome all’Avenida dove allora troneggiava (e tuttora troneggia) la sede dell’impresa da Vallarino fondata. Ovvero: Vasco Nuñez de Balboa, l’avventuriero “conquistador” che, in fuga dai suoi creditori, tre anni dopo, attraversate le foreste del Darién con sudore e sangue (il sudore suo ed il sangue degli indigeni che massacrò lungo il cammino), avrebbe infine scoperto (e battezzato) l’oceano Pacifico.

Il “grande sogno” – o la “feroce illusione” come quasi quattro secoli più tardi la stampa francese avrebbe bollato il tentativo (fallito) di collegare i due oceani con un canale navigabile – è in fondo nato proprio lì, di fronte a quell’immensa e sconosciuta distesa di acque che, vista dalla cima delle aspre montagne che circondano il lago Gatún, era parsa a Balboa come una sterminata oasi di tranquillità. Ed erano poi continuati, quel sogno e quella storia, tra le case antiche del bellissimo “Casco Viejo”, il cui promontorio era, anch’esso, ben visibile, oltre i pretenziosi palazzi del centro commerciale di Santa Ana, dagli uffici di Octavio Vallarino. E, passo dopo passo, s’erano – sempre quel sogno e quell’illusione –  per quattro secoli accentuati lungo i sentieri che, per la prima volta percorsi da Balboa, erano poi diventati la via lungo il quale a dorso di mulo passavano, per raggiungere l’Atlantico e salpare verso la penisola Iberica, l’oro del Perù e le ricchezze che, sottratte agli Incas, l’impero spagnolo andava dilapidando nelle sue guerre europee.

Nel candido e solenne Palacio de las Garzas, giusto nel cuore de “Casco Viejo”, sedeva allora, da quattro anni, la prima presidentessa donna, Mireya Moscoso, giovane vedova (e tardiva “vendicatrice” politica) di Oscar Arnulfo Arias Madrid, l’eccentrico caudillo nazionalista che per tre volte aveva vinto le elezioni presidenziali e che per tre volte era stato senza troppi complimenti sgomberato da golpe militari direttamente ispirati dagli Stati Uniti. Voleva l’indipendenza, Arnulfo Arias. Voleva, contro la Storia, che Panama fosse una vera Nazione, non una striscia di terra rubata alla Colombia, per seguire il sogno – o l’incubo – di cui sopra. Ed al centro del suo programma c’era – accanto ad alcune inquietanti sfumature xenofobiche (rivolte soprattutto agli immigrati di pelle nera provenienti dalle Antille) la volontà di sostituire il dollaro con una moneta nazionale.

Paradossi della Storia. Fu proprio l’ultimo dei golpe organizzati per liberare il campo dalle nazionalistiche pretese di Arias che, nel 1968 – nel calore delle proteste che migliaia di giovani, per mesi e con non pochi morti, avevano organizzato a ridosso della “zona del Canale”, sotto il diretto controllo militare degli USA – avrebbe portato al potere il generale Omar Torrijos, il molto controverso simbolo d’una dignità ritrovata, o ancor meglio, il vero “procer”, padre fondatore della patria panameña, al quale, nel 1977, gli americani avrebbero, infine, cominciato a gradualmente restituire il Canale.

Nel suo “The Tailor of Panama”, John Le Carré ha – con ovvio riferimento al celeberrimo film – definito il teatro del suo racconto “una Casablanca senza eroi”. E non v’è dubbio che, in pratica fin da quando Balboa si incontrò con il Pacifico, Panama proprio questo è stata: una terra di spie, di contrabbandieri, di banchieri e di militari. Quattro mestieri che, il più delle volte, gli uomini del potere hanno praticato nel medesimo tempo.

Una spia (americana), un militare e (sia pure non in prima persona) un contrabbandiere ed un banchiere (oltre che un simpatico beone, come ha testimoniato Graham Greene nel suo “Getting to Know the General”, l’ultimo e non certo il migliore dei suoi libri) era Omar Torrijos, il dittatore (poi morto nell’81 in un molto sospetto incidente aereo) che “riconquistò” il Canale. Ed una spia – anzi, il capo di tutte le spie, nelle vesti di dirigente dell’intelligenza militare di Torrijos e, allo stesso tempo, di agente della Cia – era l’uomo che, lungo la tortuosa Storia di questa non-nazione, forse meglio ha rispecchiato i tenebrosi intrecci, le complicità, i tradimenti e gli orrori del potere panamegno. Ovvero: il generale Manuel Antonio Noriega, detto “cara de piña”, faccia d’ananas, l’uomo che, dall’imperialismo creato, contro l’imperialismo negli anni ’80 si è sollevato più per difendere i suoi loschi affari che per patria passione o per ideologia.  Fu per liberarsi di lui che sul finire del 1989 – dopo averlo accusato, con più che buone ragioni, di complicità in traffici di droga e di frode elettorale – gli Usa di Bush il Vecchio organizzarono quella che, allora, i media definirono la “più costosa operazione di polizia della storia”. Noriega era – come un paio di dozzine di ex dittatori, militari golpisti e torturatori che hanno scritto la storia latinoamericana di quest’ultimo secolo – uno dei tanti prodotti della “School of  America”, la centrale di istruzione militare tuttora in funzione a Fort Benning, nello Stato della Georgia.

Noriega era tra i pezzi della Storia di Panama che, in quel 2004, dagli uffici di Ottavio Vallarino non si potevano vedere. Non si vedevano né il suo volto butterato, né il popolarissimo quartiere di El Chorrillo, che nell’89, le forze d’invasione Usa ridussero praticamente in cenere, uccidendo, bombardamento dopo bombardamento, almeno 500 civili. Il tutto al fine stanare Noriega dal Quartier Generale dell’Esercito, dove il dittatore de facto s’era arroccato prima d’una ingloriosa fuga e d’un temporaneo rifugio nella Nunziatura Apostolica della Città di Panama. Né si vedeva, dal grattacielo di Balboa Avenue, quel che restava di quel pezzo di Panama che, a suo tempo dagli USA battezzato Quarry Heights, aveva fino a quattro anni prima ospitato i palazzi della Howard Air Force Base, la sede del US Southern Command  e dell’intera amministrazione made in USA della “Canal Zone”, una striscia di terra larga 5 miglia e grande 360.240 acri che, come un muro di Berlino esponenzialmente moltiplicato, per quasi un secolo ha diviso in due parti la Repubblica di Panama…

Raggiungere questa sorta di parco archeologico post-imperiale non era comunque stato difficile. Anzi era stato facilissimo, perché a farmi da Cicerone, dopo un viaggio in taxi di poco più d’un quarto d’ora, aveva provveduto, con squisita gentilezza, proprio Octavio Vallarino. Ed era stato, al termine di quel breve tragitto, come ritrovarsi, all’improvviso nel set da tempo abbandonato di un vecchio film. Case scrostate che sembravano costruite soltanto per sostenere l’effimera fantasia di qualche colossal hollywoodiano. Piste d’atterraggio ormai assediate dalla jungla. Silenzio. Quasi che gli ultimi quattro anni avessero già allora cancellato, o ridotto ad una precaria parentesi, cento anni d’assoluto e, spesso, detestato predominio. Cento anni che, per molti aspetti, al termine d’un percorso “circolare”, erano paradossalmente ritornati proprio in quegli uffici del ventesimo piano di Avenida Balboa.

Octavio Vallarino, allora poco meno che cinquantenne, era infatti, oltre che un imprenditore edile ed un facoltoso banchiere, anche il fondatore e presidente della Fundación para el Futuro de Panamá, una lobby il cui scopo si poteva facilmente riassumere in uno slogan – “Yankee come home” – che, come un guanto, rivoltava il “Yankee go home” che i nazionalisti “arnulfisti” ed i giovani rivoluzionari poi cooptati da Torrijos avevano gridato a Panama – talora fino a morirne – nell’ultimo mezzo secolo.  Vallarino e la sua fondazione chiedevano, semplicemente, che gli americani tornassero indietro. Ed assicuravano che proprio quella – ad appena tre anni dai festeggiamenti che salutarono, con la restituzione del Canale, la “ritrovata totale sovranità” – era l’opinione di “un’ampia maggioranza”.

Si sbagliava, Octavio Vallarino. E si sbagliava di grosso, visto che a vincere con ampio margine la corsa presidenziale fu, pochi mesi dopo, nientemeno che Martín Torrijos, figlio dell’odiato Omar e leader del PRD (Partido Revolucionario Democratico), una forza a metà tra il più classico caudillismo e la socialdemocrazia che, in ogni caso, tanto delle nostalgie di Vallarino quanto del nazionalismo di Arnulfo Arias era la nemesi. Estremamente interessante resta comunque, ancor oggi, ricordare quali fossero le ragioni – contro la Storia ma, al tempo stesso dentro la Storia – avanzate allora da Octavio Vallarino e della sua Fondazione. Dentro la Storia, perché il Canale riconsegnato al paese che lo ospita era, già allora, una struttura strategicamente e praticamente obsoleta. Perché, gestita da una classe politica corrotta – la stessa, in sostanza, che è cresciuta sotto il dominio Usa – la “liberazione” dei territori della “Canal Zone” aveva arricchito molti di quelli che, come Vallarino, già erano ricchi, ma non aveva creato alcun “sviluppo diffuso”. E perché il crollo dei prezzi del caffè – tragico contrappunto al “boom” delle sue vendite nel Primo Mondo – aveva rigonfiato di contadini senza terra e senza casa le strade di due città (la Ciudad de Panamá e Colón) impoverite dalla scomparsa dell’indotto creato da quei “formidabili consumatori” che erano i 40mila uomini (civili e militari) del contingente Usa. Insomma, sosteneva allora Vallarino, meglio era, a quel punto, fare un passo indietro. E forse anche due…magari formalmente retrodatando – sosteneva Vallarino con sarcasmo – il riitorno degli Usa al novembre dell’anno precedente, quando, il 4 di novembre, Panama aveva solennemente celebrato il centenario della sua Indipendenza…

Indipendenza? Tra le sue molte peculiarità, Panama vanta anche quella d’essere stata liberata da due “eroi” ai quali nessuno ha mai neppure pensato di dedicare un monumento: Josè Agustín Arango e Manuel Amador Guerrero, un avvocato ed un ingegnere, che il grande ideologo del Canale – il francese Philippe Bunau-Varilla, un personaggio che molti aspetti rammenta, sul fronte centroamericano, il Kurtz del “Cuore di tenebra” di Joseph Konrad – aveva scelto per fondare una nazione da consegnare nelle mani della nascente potenza imperiale americana. Bunau-Varilla aveva, in verità, cominciato a costruire il Canale nel 1884, per conto della Compagnie Universelle du Canal Interoceanique in quella che, allora, ancora era una remota provincia della Colombia. E fallita la Compagnie (travolta nel 1898 dagli enormi costi dell’impresa e da uno dei più grandi scandali finanziari della storia francese) s’era quindi rivolto al più naturale erede del “grande sogno” e della “feroce illusione”: l’America del “Big Stick”, il grande bastone, di Teddy Roosevelt, fresca vincitrice della “piccola, splendida guerra” con la Spagna, che le aveva regalato il controllo delle Filippine, di Cuba e di Puerto Rico.

Gli Usa avevano già, in realtà, un loro progetto alternativo: quello che puntava a tagliare l’Istmo molto più a nord, all’altezza del lago di Nicaragua e del rio San Juan, in terre che già avevano indirettamente invaso, nel 1850, per mezzo di William Walker, un avventuriero deciso a creare in loco un “regno di libertà” ripristinando la schiavitù, e che comunque avrebbero più tardi militarmente occupato, tra il 1912 ed il 1933, aprendo la strada alla lunga e dinastica tirannia dei Somoza. La chance offerta loro da quel “francese con gli occhi da duellante” (la definizione è di Roosevelt) era però allettante. E, per coglierla c’era solo da superare un ostacolo. La persistente opposizione del governo colombiano. Ma non si trattava che d’un irrilevante dettaglio. Bastò, per aggirarlo, una breve “rivolta popolare” opportunamente appoggiata, nella baia di Panama, dalla cannoniera Tennessee. E nel cuore dell’Istmo nacque una nazione “amica” a tal punto che, un decennio più tardi, Theodore Roosevelt e Bunau-Varilla neppure dovettero prendersi la briga d’invitare il suo nuovo presidente, Amador Guerrero, alla cerimonia per la firma del trattato che passava agli americani – enormemente ampliate e senza nulla dare al paese che il Canale s’apprestava a spezzare in due – le proprietà della Compagnie Universelle…

Fu così che la grande opera – forse il più duraturo monumento all’impero che stava allora nascendo – venne completata entro il dicembre del 1914. Costo in danaro: circa 300 miliardi di dollari. Costo in vite umane: almeno 22mila morti, volendo restare agli assai approssimativi calcoli ufficiali. Tutti uccisi dalle slavine di fango che ogni giorno precipitavano lungo le pendici del monte Culebra e, più ancora, dalla febbre gialla. Tutti troppo numerosi e troppo poveri per essere contati con precisione. Tutti invisibile parte – come gli studenti uccisi negli anni ’70 durante le proteste contro la Zona del Canale e come i morti di El Chorrillo – della “feroce illusione” nata intorno a quella via d’acqua in mezzo alla jungla. La stessa illusione che, rivoltata come un guanto, continuava vent’anni dopo a vivere negli uffici di Octavio Vallarino. E che va riemergendo oggi, in chiave di tragica farsa neo-imperiale, nelle parole di Donald J. Trump, eletto, anzi, rieletto presidente degli Stati uniti d’America.

Ricordo come, giusto a ridosso delle elezioni del 2004, un giornalista del New York Times avesse chiesto a Otto Reich, il super-falco prussiano-cubano al quale George W. Bush aveva affidato la cura degli affari latinoamericani, quante possibilità vi fossero che gli USA riprendessero il controllo del canale. E la sua risposta, lunga una sola parola, era stata inequivocabile: “Nessuna”. Il canale che Donald Trump rivuole oggi “nella sua interezza e senza domande” già era vecchio allora. Ed il tempo non ha ovviamente alleviato la sua obsolescenza. Oggi sempre meno numerose sono le navi-container che, per la loro stazza, possono attraversare quella ormai troppo angusta striscia d’acqua inaugurata 110 anni or sono. Ed il global warming – quello che Donald Trump a suo tempo definì una burla cinese” – ha rinsecchito le acque del lago Gatún, mettendo a rischio non solo la funzionalità del sistema di chiuse che permette la navigazione, ma le stesse riserve idriche della Nazione. Fosse ancora vivo (l’imprenditore edile, mi dicono è deceduto tre anni fa) anche Vallarino probabilmente replicherebbe alle pretese trumpiane – ancor più obsolete del canale che il nuovo/vecchio presidente Usa vuol riconquistare – la medesima drastica risposta di Otto Reich. Nel caso probabilmente accompagnata anche – non lo si può escludere data la grossolanità della pretesa – da una classica pernacchia.

Come finirà? Impossibile dirlo. Ma vale la pena ricordare come già nel 2005, il generale Manuel Antonio Noriega – condannato a 40 anni per traffico di droga ed una serie di connessi omicidi negli USA e poi estradato prima in Francia e poi nella natia Panama per rispondere di altri crimini, lavaggio di denaro e facezie varie – avesse comunicato al mondo di essersi infine, dietro le sbarre, incontrato con “Dio Onnipotente”. E così, in pace con sé stesso e con il Creatore, è passato a miglio vita nel maggio del 2017. Almeno nel suo caso questa lunga storia ha avuto – citofonare San Pietro per conferma – un lieto fine.

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