Trentamilacinquecentosettantatre. Tante, una per una calcolate, classificate e raccolte in un consultabile database, sono le menzogne che Donald J. Trump ha pronunciato nell’arco di tempo che va dal 20 gennaio del 2017, al 20 gennaio del 2021. Ovvero: dal giorno del suo ingresso alla Casa Bianca a quello in cui ha traslocato dal candido palazzo di 1600 Pennsylvania Avenue. Questa è la cifra definitiva, storica, rotondamente documentata e consegnata agli annali dal gruppo di lavoro del Washington Post che, guidato dal giornalista Glenn Kessler, ha in questi quattro anni controllato, con stakanovistica tenacia, i livelli di veridicità – o più propriamente di mendacità – del 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America.
21 volte al giorno, prima e dopo i pasti
Donald Trump – ci dicono questi numeri – ha mentito ad una media, prima di lui assolutamente inimmaginabile, di quasi 21 volte al giorno. E lo ha fatto, come lo stesso Kessler deve candidamente ammettere, con intensità e qualità tali da costringere gli addetti al “fact-checking” – prima di Trump onesti artigiani la cui opera era scandita da ritmi, per così dire, “a misura d’uomo” – a fare i conti con una sorta di rivoluzione industriale della menzogna, passando dalla bottega alla fabbrica e, dalla fabbrica, alla più frenetica, “fordistica” realtà della produzione (o, in questo caso, contro-produzione) di massa. Donald Trump, non ha solo mentito: ha di fatto alterato per sempre il rapporto tra l’America e la menzogna.
Come? Il “crescendo” del mentire trumpiano, il suo esponenziale incrementarsi o, se si preferisce, il suo progressivo autoalimentarsi è, probabilmente, la più valida prova di quanto sopra. Il database che, giusto ieri, gli addetti del Post hanno consegnato alla Storia, ci racconta infatti come Trump abbia, nel primo anno del suo mandato, mentito ad una media di sei volte al giorno. E come questa media sia salita a 16 nel secondo, a 22 nel terzo ed infine a 39 nel quarto. Il tutto sullo sfondo di due concatenati eventi: l’incedere della pandemia (sì, la stessa che pochi giorni fa ha sorpassato la soglia delle 400.000 vittime e che, secondo Trump, doveva svanire, “come per miracolo”, ai primi tepori della scorsa primavera) ed una campagna presidenziale da Trump preventivamente (e, appena è il caso d’aggiungere, mendacemente) bollata come fraudolenta. Una campagna perduta che, in quanto tale, è stata a sua volta fonte d’un ultima violenta e tragicomica impennata di falsità: quella, ancora materia di cronaca, che ha visto l’assalto a Capitol Hill da parte di orde pro-Trump mobilitate proprio da quelle fraudolente denunce di frodi.
Restano molte domande. Ed alcune trovano puntuali risposte nei numeri del database. Ad esempio: considerato che nella reiterazione giace il segreto dell’imbattibile totale raggiunto da Donald Trump, quali sono state le frottole da lui più frequentemente ripetute? Kessler ed i suoi collaboratori ci dicono che al primo posto, con 493 “encore”, si trova il “ho creato la più grande economia nella storia del mondo” (ripetuta due volte anche meno d’una settimana fa, in quello che è stato l’ultimo discorso pronunciato da Trump in vesti presidenziali), seguita dal “ho realizzato il più grande taglio delle tasse di tutti i tempi”, bissato da Trump 296 volte.
“Master of the art of the deal”
Altra domanda: quale di queste 30.573 panzane è la più significativa? Le possibilità di selezione sono qui, com’è ovvio, praticamente infinite ed infinitamente soggettive. Io, dovesse la scelta limitarsi ad una soltanto, mi terrei quella (o quelle) che Trump profferì il 14 marzo del 2018, durante uno dei suoi raduni di fedeli. In quella occasione l’ex presidente raccontò, con molto divertiti accenti, come, solo qualche settimana prima, nel corso d’una riunione dedicata agli interscambi commerciali tra i due paesi, avesse da par suo manipolato ed umiliato il primo ministro canadese Justin Trudeau, da lui sarcasticamente descritto come “un giovane di bell’aspetto”, ma evidentemente non all’altezza del suo (suo di Trump, ovviamente) talento di “master of the art of the deal”, gran maestro nell’arte della trattativa.
A quella riunione, spiegò Trump, lui s’era presentato – forte del talento di cui sopra – senza nulla sapere (“I didn’t even know”) in merito al tema dell’incontro. E, partendo da questo nulla, aveva denunciato l’intollerabile disavanzo, a vantaggio del Canada, nella bilancia commerciale. Al che l’ingenuo Justin – evidentemente convinto che la matematica non fosse un’opinione – aveva replicato che, no, in realtà il disavanzo commerciale era, per quasi 3 miliardi di dollari, a vantaggio degli Usa. Fine della storia? No, perché, con uno dei suoi colpi di genio, Trump aveva a questo punto convocato uno dei suoi esperti che, dati alla mano aveva mostrato – lasciando Trudeau con le proverbiali pive nel sacco – come, in materia di prodotti industriali, le esportazioni canadesi superassero le importazioni. Morale della favola: era tutto falso. Falso, ovviamente, che il Canada vantasse un superavit commerciale. False erano le cifre sciorinate dall’ “esperto” da Trump convocato. E falso – dulcis in fundo – era (come poi verificato) anche il fatto che quella riunione al vertice avesse mai avuto luogo.
Perché scelgo questa storia? Perché, pur nella sua scarsa rilevanza, molto ben rende il “senso” di Donald Trump, la sua boriosa, narcisistica inettitudine (il suo vantarsi d’essersi presentato ad un vertice sui rapporti commerciali col Canada senza nulla sapere in materia è davvero cosa allucinante), la sua patologica, strutturale relazione con la menzogna. La quale evidentemente non è, per lui, né cosa buona, né cosa cattiva, bensì, semplicemente, un modo per realizzare sé stesso.
Va da sé, tuttavia che, oltre ogni cifra ed ogni scelta, una soltanto era e resta la “vera” domanda: come e perché un simile ciarlatano ha potuto arrivare alla Casa Bianca? Quale che sia la risposta – ed il database non ne offre ovviamente alcuna – non appare di buon auspicio per il futuro della democrazia americana.