“We’ve got to stop being the stupid party“, dobbiamo smetterla di essere il partito degli stupidi. Questo disse Bobby Jindal, governatore della Louisiana, durante il tradizionale winter meeting, la riunione d’inverno del Republican National Commitee. Era il 25 gennaio del 2013 e la sonora sconfitta elettorale di Mitt Romney, il candidato repubblicano contrapposto al presidente uscente, Barack Obama, era vecchia d’appena un paio di mesi. Il che inevitabilmente trasformava quell’incontro dello Stato Maggiore del Gop (Grand Old Party) nel primo atto d’un processo di contrizione e revisione. O, più esattamente, come molti scrissero, nella prima puntata di quella che intendeva essere una spietata autopsia del proprio cadavere.
Di che cosa era “morto”, due mesi prima, il Partito Repubblicano? Per l’appunto: “di stupidità” aveva provocatoriamente risposto Bobby Jindal, primo governatore d’origine asiatica nella storia degli Stati Uniti. E, così dicendo, aveva affondato il coltello in quella che non solo lui percepiva, dopo la sconfitta di novembre, come una delle più infette piaghe della politica repubblicana. Vale a dire: l’ostentato antintellettualismo che – in dichiarata contrapposizione ad un ipotetico “establishment cultural-mediatico”, nonché, ovviamente, al vituperatissimo politically correct – era progressivamente divenuto una dei più visibili vessilli del Gop. E che, a sua volta, altro non era che uno dei risvolti della strategia d’un partito rimasto politicamente e demograficamente immobile in un paese che andava profondamente trasformandosi.
Appena tre mesi dopo quella riunione e quello stupid – un auto-insulto che, in realtà, non era che un grido di dolore – il Rnc aveva pubblicato un documento di quasi 100 pagine ufficialmente intitolato Growth and Opportunities Project. Ovvero: il risultato della “autopsia” di cui sopra, essenzialmente basata sull’impietosa analisi statistica dei voti perduti. Chi sono gli elettori che, dopo il 2008, hanno smesso di votare (o hanno scelto di non votare) repubblicano? E perché l’hanno fatto? Lo hanno fatto, rispondeva il rapporto citando una minuziosa inchiesta d’opinione, perché il Grand Old Party veniva da loro percepito come scary, narrow minded, out of touch. Ovvero: come il partito della paura, intellettualmente limitato e distaccato dalla realtà. In sintesi: come il partito degli stuffy old men, dei vecchi ammuffiti. Vecchi, maschi, bianchi e d’assai modesto curriculum scolastico (gli “stupidi”, per l’appunto).
Conclusione: per mantenere qualche seria possibilità di riconquistare la Casa bianca il Gop doveva ripulire la propria immagine ed allargare la propria base elettorale adattandola ad una realtà in rapida trasformazione. Doveva ristabilire, o rendere più visibili, i contatti con le élite intellettuali ed estendere il proprio messaggio a minoranze che, se valutate nel loro complesso, ormai da tempo non sono più tali: donne, latinos, afro-americani, immigrati di ogni origine. Doveva cessare d’essere – per tornare all’appello di Jindal – the stupid party: bianco, maschio e incolto.
Fine del flash-back. Dissolvenza. Giorni nostri. Primo piano sul volto rubizzo di Donald Trump che, dal podio della convention repubblicana di Cleveland, pronuncia il suo discorso d’accettazione della candidatura per il partito repubblicano. Un lungo (75 minuti), rabbioso e divagante rantolo sormontato – tra xenofobi e apocalittici accenti, false statistiche e frottole da circo – da un unico riconoscibile concetto: “I alone can fix it” solo io posso mettere a posto le cose.
Tre anni dopo, quello che il Growth and Opportunities Project ha prodotto è questo: la caricatura di un “uomo della provvidenza”, un candidato che si propone di costruire muri – di vero acciaio e cemento come quello che vuole innalzare, a spese del Messico, lungo la frontiera sud, o metaforici – laddove il progetto repubblicano prevedeva lanciare ponti e tendere mani.
Un maschio settantenne, bianco e incolto oltre immaginazione, che si burla dei disabili, insulta le donne, vuole deportare immigrati e bandire musulmani. Un garrulo e vanitoso carnival barker, un imbonitore da baraccone (come venne molto propriamente definito dal governatore repubblicano del New Jersey, Chris Christie) che, con l’arroganza e la grossolanità d’un bullo di periferia, divide il mondo in winners and losers, vincenti e perdenti, e incorre in sesquipedali errori ogniqualvolta il tema del discorso si sposta dall’esaltazione di sé medesimo a qualunque concreto tema di politica internazionale o domestica.
Bobby Jindal, presentatosi come candidato alle primarie presidenziali repubblicane, è uscito di corsa quasi subito, da autentico loser, senza mai avere sfiorato il 5 per cento dei consensi. E altrettanto hanno fatto, accompagnati dai frizzi e lazzi del vincitore, tutti i pesi massimi messi in campo dall’establishment repubblicano per contrastare l’ascesa di Trumpenstein, il mostro che andava trangugiandosi il partito: Jeb Bush (“low energy Jeb“), Marco Rubio (“Little Marco“) e da ultimo (un disperato e improbabile ultimo) Ted Cruz. E a Chris Christie, (si, proprio il governatore del New Jersey che aveva coniato il termine carnival barker) è andata anche peggio, visto che è oggi uno dei più intimi e ossequienti collaboratori di Trumpenstein.
Il 31 luglio, sul New York Times, Max Boot, uno storico di chiara fede conservatrice, ha molto chiaramente spiegato come the stupid party created Donald Trump abbia, infine, creato Donald Trump e distrutto il Gop. O più semplicemente: come tutte le più sinistre forze dal Gop nel tempo evocate per conquistare il consenso dell’America bianca – dalla southern strategy di Richard Nixon in coda alla battaglia per i diritti civili, ai chiari sottintesi razzisti della politica reaganiana, piatti sempre serviti in salsa anti-intellettuale – abbiano finito, come nella ballata dell’apprendista stregone (der Zauberlehrling) di Wolfgang Goethe, per rivelarsi una irreversibile condanna.
Donald Trump si è in un solo boccone mangiato quel restava della intelligenza repubblicana, senza nulla risparmiare: dal poco che sopravviveva di Abraham Lincoln al compassionate conservatism, dal neoliberalismo di Milton Friedman all’antistatalismo di Friedrich Von Hayek, dall’esasperato individualismo oggettivista di Ayn Rand, all’ancor vivo e nefasto ricordo dei neocon che accompagnarono gli orrori della guerra infinita di George W. Bush. Tutto il potere agli stupidi, verrebbe da dire, invocando il perdono di Vladimir Ilic Lenin. Ma come è potuto accadere? E come andrà a finire?