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Saturday, December 21, 2024
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Santi in catene

In un articolo pubblicato da El País di Madrid, Sergio Ramírez, scrittore (e vice-presidente ai tempi del primo governo sandinista) racconta le ultime e più grottesche imprese di Daniel Ortega, il nuovo Somoza che, con crescente arroganzza “bananera”, ogni giorno tormenta ed umilia il Nicaragua.


In Nicaragua, tra tanti prigionieri politici, ci sono ora due santi  richiusi in carcere nelle chiese dove sono venerati.

Si tratta di san Michele Arcangelo e san Girolamo, le cui feste si celebrano a Masaya in date vicine, il 29 e il 30 settembre. San Michele parte in processione il giorno della sua festa, e dopo il percorso trionfale per le strade non ritorna al suo tempio, ma pernotta nella chiesa di san Girolamo, per accompagnarlo la mattina seguente nella processione a lui dedicata.

San Girolamo è il patrono della città. La secolare devozione popolare  lo ha trasformato da dottore della Chiesa in dottore in medicina, la sua fama di guaritore è giunta al punto che è dal popolo acclamato con grida di “Viva il dottore san Girolamo, che guarisce senza medicina!”.

La polizia ha sigillato entrambi i templi con truppe antisommossa e chiuso le strade, previa notifica ai preti parroci che i santi erano stati banditi dalle loro chiese.

La paura è che le processioni, che sono manifestazioni di grande fervore religioso, con ancestrali radici culturali, possano trasformarsi in dimostrazioni di ripudio popolare, soprattutto a Masaya, riconosciuta per la sua tradizione combattiva.

Nel quartiere indigeno di Monimbó scoppiò infatti la prima insurrezione contro la dittatura di Somoza nel 1978, e la resistenza indomabile dei suoi abitanti fu la chiave per il trionfo della rivoluzione l’anno successivo; e qui sono sorte le barricate contro la nuova dittatura nel 2018, Si dà il fatto insolito che i ribelli, senza altro che petardi pirotecnici, tennero la polizia rinchiusa nelle loro caserme, fino a quando Ortega decise di ordinare l'”operazione di pulizia” da parte dei paramilitari.

Prigionieri politici sono oggi san Miguel e san Jerónimo, come il vescovo di Matagalpa, monsignor Rolando Álvarez. Dopo essere stato accerchiato dalla polizia nella curia episcopale della sua diocesi, alla fine assalita, Alvarez è stato rapito e condotto a Managua, dove rimase prigioniero in case di famiglia. Nel frattempo, tre sacerdoti, un diacono e due seminaristi che erano con lui, più di un mese dopo essere stati arrestati saranno ora processati per terrorismo e incitamento all’odio. E decine di altri chierici sono fuggiti clandestinamente in esilio, con cui le loro parrocchie, senza testa, finiranno per chiudersi.

Ci sono due icone della resistenza contro la dittatura che sono penetrate nella coscienza popolare: monsignor Silvio Báez, vescovo ausiliare del Nicaragua, costretto all’esilio a Miami, dopo che il papa lo aveva chiamato a Roma con il pretesto di occupare un incarico nella curia romana; e monsignor Alvarez, che non ha mai temuto di scontrarsi per le strade con le forze repressive, né ha smesso di gridare dal pulpito contro l’oppressione. Ho unito i due per comporre il personaggio di monsignor Bienvenido Ortez nel mio romanzo Tongolele non sapeva ballare, che finisce in esilio, abbandonato dalla gerarchia ecclesiastica e ingannato dalla diplomazia vaticana.

La sciagurata persecuzione non lascia scappatoie. Università, collegi professionali, organizzazioni civili, media. Insieme ai preti, i giornalisti che osano esercitare il loro mestiere, o sono in prigione, o vanno in esilio. Solo chi tace o chi acconsente è al sicuro. E così notevole è l’accanimento contro vescovi e sacerdoti che non tacciono come il silenzio sepolcrale della conferenza episcopale del Nicaragua.

E tutto questo vietare ai santi di uscire in strada, lasciandoli chiusi nelle loro chiese, mi tenta di ricordare altri personaggi stravaganti dell’America Latina, come il governatore di Tabasco, Tomás Garrido Canabal.

Nel 1925 saccheggiò e chiuse le chiese, fece bruciare le immagini, fece togliere le croci dalle tombe nei cimiteri; sostituì le feste religiose con fiere agricole, ordinò di cambiare i nomi dei santi delle popolazioni in nomi di proceres rivoluzionari; proibì la parola “addio” per salutarsi, e ordinò che fosse usata invece “salute”.

Nella sua tenuta battezzò un asino come El Papa, un toro come Dio, una mucca come La Virgen de Guadalupe e un maiale come San José. E creò Le Camicie Rosse, una milizia privata dedicata a vigilare che le sue misure si compissero.

“La più feroce persecuzione religiosa conosciuta in qualsiasi paese dal tempo della regina Elisabetta”, dice il romanziere Graham Greene, che ha tenuto conto di Garrido Canabal quando scrisse Il potere e la gloria.

Nel 1926, il generale Plutarco Elias Calles, capo istituzionalizzato della rivoluzione messicana, aveva promulgato una legge che autorizzava il governo a chiudere templi, scuole cattoliche e conventi, espellere sacerdoti stranieri. Fu quello che diede le mani libere a Garrido Canabal per immaginare, e scatenare, la sua campagna di repressione. E finì anche per provocare nel 1927 la guerra dei Cristeros, quando i contadini si alzarono al grido di “Viva Cristo Re!” Sotto lo stendardo della Vergine di Guadalupe.

Nel frattempo, san Michele e san Girolamo rimangono confinati nelle loro chiese a porte chiuse e hanno proibito le visite, non si dica più di essere portati per le strade. L’elenco delle accuse contro di loro sarà uguale a quello degli altri prigionieri politici: sovversione dell’ordine pubblico e terrorismo.

Leggi l’articolo originale, in spagnolo, sul El Pais…….

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