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Salute, la prima volta della Camera

20 novembre 2009

 

Di M.C.

 

Nessuno, da quando in America si parla di “salute per tutti” – era mai arrivato tanto lontano. Eppure molta – e tutt’altro che sicura – è ancora la strada da percorrere per arrivare alla meta. Venerdì sera la Camera dei rappresentanti ha infine approvato, con un’alquanto risicata maggioranza (220 voti a 215) una proposta di riforma globale del sistema sanitario tesa, per l’appunto, a garantire agli americani qualcosa che in pressoché ogni altro paese sviluppato, non solo è già stato da tempo assicurato, ma che da tempo viene ritenuto – come ogni altro diritto civile – qualcosa d’ovvio e “acquisito”. Ovvero: l’assistenza sanitaria “universale”. O quasi universale”, come nel caso della legge approvata dalla House of Representatives .

Barack Obama ha usato, nel salutare il voto dei deputati, due aggettivi – “coraggioso” e “storico” – che appaiono, alla luce dei fatti, difficilmente contestabili. Il secondo soprattutto. Molto lunga (e perlopiù ingloriosa) è infatti la storia di questa riforma – una sorta di Santo Graal dell’America progressista – passata, in un lasso di tempo lungo quasi un secolo, per molte (e molto diverse) mani presidenziali. E che sempre è  regolarmente defunta – dai due  Roosevelt, Theodore e Franklin Delano, a Bill Clinton, senza dimenticare  Truman, Eisenhower e Nixon – ancor prima di giungere alla prova del voto di Capitol Hill. Unica, parziale eccezione: quella di Lyndon Johnson che, nel 1964 – nel quadro della sua “Great Society”, un molto ambizioso piano di riforme anti-povertà, poi oscurato dalla guerra in Vietnam – fece approvare la creazione del Medicare, un programma di assistenza sanitaria per tutte le persone con più di 65 anni d’età. La palla – ha aggiunto Obama – passa ora al Senato, dal quale il presidente s’attende una decisione altrettanto storica ed altrettanto coraggiosa. Nonché rapida quanto basta per consentire a lui di firmare entro la fine dell’anno la versione definitiva  d’una riforma chiamata, forse più d’ogni altra, a definire quel “cambiamento di cui abbiamo bisogno” (“change we need”), che della sua vittoriosa campagna elettorale era stato il punto centrale.

Ma sarà davvero così? La maggioranza degli osservatori politici sembra credere che, questa volta, il voto della Camera rappresenti una sorta di spartiacque. E che, sospinta dai venti di questa prima vittoria, la barca della riforma sia ormai destinata ad arrivare finalmente in porto. Quando ed in che modo, tuttavia, ancora è difficile prevedere. Così come ancora difficili da prevedere sono, ovviamente, gli effetti a breve e medio termine di questo trionfo tanto a lungo e tanto vanamente perseguito dall’America “liberal”.

La riforma approvata venerdì dalla Camera non ha, infatti, alcuna possibilità d’essere approvata, così com’è, dalla maggioranza del Senato. Anzi: neppure è certo che, così com’è, possa effettivamente essere sottoposta al dibattito. Perché? Perché i democratici – pur avendo la maggioranza dei seggi (51 su cento) – hanno bisogno di 60 voti per evitare il “filibustering”. Vale a dire: per evitare le tattiche dilatorie che, di fatto, possono affossare la riforma in discussione (e, in effetti, qualunque altro tipo di legge). Per essere discussa ed approvata quella legge ha –  quasi certamente – bisogno di sacrificare alcune delle sue parti. Prima fra tutte quella “public option”, o opzione pubblica, che da una non piccola parte dei deputati democratrici della House of Representatives (la parte più “liberal” del partito) considera (ed a ragione) assolutamente essenziale. Il che significa che – se mai si arriverà a questo punto – l’opera di riconciliazione tra le due leggi (quella già approvata alla Camera e quella che probabilmente si approverà al Senato) finirà per assomigliare molto alla mitica fatica di Sisifo. Non è stata, del resto, proprio questo -quella d’ un macigno che rotolava a valle ogniqualvolta s’avvicinava alla cima della montagna – la storia della riforma sanitaria negli Stati Uniti d’America?

Barack Obama – da grande teorico del pragmatismo, interessato non alle “ideologie”, ma a “ciò che funziona” – è partito proprio da qui: da questo pezzo di storia patria. Ed ha disegnato il suo piano di battaglia, partendo dalle lezioni del passato. Soprattutto le più recenti e dolorose: quelle legate – tra il 1993 ed il 1994 – al fallimento del piano di “salute universale” presentato dall’allora “first lady” Hillary Rodham Clinton. Elaborato da una “task force” all’uopo allestita, infatti, quel progetto si disintegrò, oltre che per la scontata e molto aggressiva opposizione esterna delle grandi e piccole compagnie assicuratrici – anche per due fondamentali (ed interdipendenti) fattori endogeni: la sua natura, chiamiamola così, “autoritaria” – ossia, la filosofia del “prendere o lasciare” con cui era stata presentata al Congresso, anche allora a solida maggioranza democratica – ed il tempo. In sostanza: posto di fronte ad un dibattito cominciato al di fuori delle sue aule, il Congresso ebbe una sorta di crisi di rigetto. Ed il trascorrere del tempo – un tempo molto felicemente riempito dalla propaganda nemica – finì per immancabilmente erodere il consenso popolare (che , pure, era inizialmente molto ampio) nei confronti della riforma.

Obama ha, per questo, cambiato completamente registro. Esponendosi all’accusa – in questi mesi molto frequentemente reiterata – di “assenza di leadership” e di concessioni ai giochi politici che aveva promesso di superare, ha lasciato che fosse la maggioranza democratica del Congresso ad elaborare il suo, o i suoi piani. E si è limitato a far pressione perché i tempi della discussione fossero rapidi. Meglio – questo il senso della sua politica – una riforma imperfetta da firmare prima della fine dell’anno (e prima che il senatori e deputati affrontino le sempre perigliose acque delle campagne per le elezioni di mezzo termine, programmate per il novembre 2010) che l’ostinata ricerca d’una perfezione destinata ad allungare la già lunga storia di riforme perfette (e perfettamente fallite) che hanno fin qui scandito la storia del sistema sanitario americano.

Lo “storico” e “coraggioso” voto della House of Representatives, venerdì scorso, gli ha, per così dire, dato ragione a tutto campo. Perché – a dispetto dei malumori e delle perduranti incertezze – nessuno altro dei presidenti “riformisti” era fin qui riuscito a camminare tanto. E perché davvero imperfetta – inevitabilmente imperfetta – è, oggi, la riforma elaborata dalla Camera dei Rappresentanti: oltre 2000 pagine di norme, precisazioni e postille costruito, di compromesso in compromesso, sulla base d’un sistema  – quello, esistente, del “libero mercato” delle assicurazioni private – che è, probabilmente, il più iniquo, inefficiente e costoso del pianeta Terra. Ed il tutto per arrivare – ma non prima dell’Anno del Signore 2019 – alla copertura sanitaria del 95-96 per cento dell’intera popolazione (attualmente, quasi il 20 per cento della popolazione è completamente privo di copertura). Come? Attraverso molto complesso sistema di nuovi obblighi, incentivi e sussidi in grado (almeno sulla carta) di mettere a disposizione di chi oggi non è assicurato una serie di opzioni – una delle quali, per l’appunto, pubblica – a prezzi accessibili. Qualcuno ha molto opportunamente paragonato tutto questo a una “Rube Goldberg machine”. Vale a dire: ad una macchina incredibilmente complessa creata per svolgere compiti assolutamente semplici…

Questo molto imperfetto ingranaggio (tanto imperfetto che è lecito chiedersi se se tratti davvero d’una riforma o, soltanto, di un tentativo di riformare l’irriformabile) va ora al Senato. Dove, a far da ago della bilancia, sarà una sparuta pattuglia di democratici conservatori (i cosiddetti “blue dog democrats”) che rappresentano meno dell’uno per cento dell’elettorato, ma che stringono nelle proprie mani le chiavi del dibattito.  E dove – se davvero il dibattito riuscirà decollare – altre “inevitabili imperfezioni” (prima probabile vittima: l’opzione pubblica) si aggiungeranno. Con quali conseguenze sul testo finale? Che cosa resterà, alla fine, di questa storica riforma?

I primi veri conti si faranno a fine anno, quando le prospettive ed i tempi della nuova legge saranno finalmente più chiari. Ma intanto due cose già si possono dire. La prima: per quanto imperfetta (o, addirittura, sbagliata) possa apparire, una riforma sanitaria “universale”(o semi-universale) rappresenterebbe comunque,per gli Usa, la caduta d’un muro e, a suo modo, una rivoluzione. La seconda: lungo questo molto accidentato cammino, Barack Obama – presentatosi agli elettori come primo presidente” post-partisan” – non ha conquistato, alla Camera, che un voto repubblicano (quello di Anh Cao, rappresentante della Louisiana). Ed un’altro, forse (quello di Olympia Snowe, del Maine) lo conquisterà al Senato. Molto poco. Quasi nulla. I cuori e le menti dei deputati e dei senatori del Grand Old Party stavano all’unisono (o quasi) pulsando, mentre la House of Representatives “faceva la storia”, con quelli delle migliaia di manifestanti che, sotto Capitol Hill, protestavano contro la “socialistizzazione” d’America, sollevando cartelli che mostravano il volto di Obama con baffetti alla Hitler e fotografie dei corpi accumulati a Dachau sormontati dalla scritta: “questa è la riforma nazional-socialista della sanità”…

Il presidente del dialogo, il presidente delle riforme “compartite” perché frutto di nuove maggioranze, sembra fin qui, in effetti, aver sospinto l’opposizione conservatrice, non verso il futuro di tutti, ma verso il suo più tenebroso passato: quello di un America “bianca” e spaventata, violenta ed ignorante, perduta nei più profondi meandri della propria paranoia e decisa a puntare irrazionalmente – ma con non poche possibilità di successo, sullo sfondo d’una crisi economica destinata a durare ben oltre le statistiche della ripresa – sul tanto peggio tanto meglio. “Se la riforma sanitaria fallisce – ha detto di recente, molto speranzoso, Jim Demint, senatore repubblicano del South Carolina – sarà la Waterloo del presidente, la sua fine”. E proprio questo è in fondo  – al di là della legge in sé, il senso ultimo di questa “battaglia per la salute”. O la va o la spacca.  E il voto della Camera ci dice che, se Dio vuole, probabilmente andrà.

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