Giuliani, favorito lo scorso autunno, ha scelto di trascurare le primarie d’apertura per concentrare sulla Florida i suoi sforzi di “frontrunner”. E mal gliene è incolto – Origini e ragioni dell’ormai quasi certa caduta del “sindaco d’America”
12 aprile 2008
di Massimo Cavallini
“Rudy Giuliani? Un eroe americano…”. Belle parole, quelle che, sabato scorso, in quel di Sarasota, Florida, nell’ultimo dei dibattiti tra candidati alla nomination repubblicana, John McCain ha pronunciato rivolto all’ex sindaco di New York City. Belle e – non per caso – assai simili alle lodi che, molti mesi fa, quando ancora la stagione delle primarie doveva cominciare, lo stesso Giuliani aveva pronunciato, a parti invertite, elogiando i trascorsi bellici del rivale: “John McCain? Un uomo di cui ogni americano può sentirsi orgoglioso…”.
Belle parole. Belle e dolorose, come quelle d’un necrologio, gelide come il suggello d’una vedetta consumata a freddo. O, peggio, come il sadico compendio d’un classico colpo di grazia. Belle e, in effetti, calate sul capo di Rudy Giuliani come la spada di Maramaldo, senza lasciare alla vittima neppure il sollievo d’un estremo, melodrammatico atto d’accusa – vile, tu uccidi un uomo morto! – gettato in faccia all’assassino. Un po’ perché Giuliani non ha, allo stato, la minima intenzione di riconoscersi ufficialmente defunto. E molto perché impossibile sarebbe, per lui o per chiunque altro, sfuggire alla logica – apparentemente capovolta ma, in realtà, del tutto lineare e certo implacabile – che illumina l’andamento delle primarie. Più sono i complimenti che un candidato riceve dagli avversari nel corso dei dibattiti – e Giuliani ne va ricevendo a valanghe – meno consistenti sono le sue possibilità di vittoria. Mesi fa – quando la maratonica campagna presidenziale ancora si trovava nelle sue, già frenetiche, fasi preliminari – la corsa del senatore dell’Arizona John McCain, sembrava entrata in un vicolo cieco. Sondaggi disastrosi, casse vuote, a riprova d’una candidatura che, allora, pareva soltanto l’inutile deriva di passate esperienze (quella dell’anno 2000, nella quale McCain aveva, con qualche iniziale successo, sfidato la corsa di George W. Bush). E, puntuale, una pioggia di elogi – immancabilmente rivolta al passato e, in particolare, ai suoi eroici trascorsi come ospite del famoso “Hanoi Hilton” ai tempi della guerra in Vietnam – aveva accompagnato le esibizioni del senatore nei primi, autunnali confronti televisivi.
Ora tocca a Giuliani giocare la parte dell’ “eroe americano”. Ovvero: del candidato perdente, del monumento, dell’ “uomo di marmo” ai cui piedi depositare abbondanti ma del tutto innocui omaggi floreali. “La mia opinione di Rudy Giuliani è presto detta – ha affermato sabato scorso il governatore del Massachusetts Mitt Romney additando l’ex sindaco di New York alla platea televisiva -: si tratta di un grande leader, capace di chiamare a raccolta gli americani nel nome di un superiore ideale…”. E Mike Huckabee, governatore dell’Arkansas, gli ha fatto pronta eco. “Non dimenticherò mai le immagini del sindaco tra le macerie del ground zero…”. Un coro, un’ode, un peana. O meglio: un’elegia. Ed a Giuliani altro non è rimasto che incassare quella sorta di collettivo epitaffio ed assistere, con malcelata invidia e con livida impotenza, allo scambio d’improperi che i tre leader della corsa – nell’ordine, per l’appunto, John McCain, Mitt Romney e Mike Huckabee – andavano molto poco eroicamente scambiandosi di fronte alle telecamere.
Che cosa è successo? Perché le parti si sono capovolte? Rispondere non è semplice, ma questo c’è di certo. Due mesi fa Rudy Giuliani era, con poco meno del 30 per cento, il capofila degli aspiranti repubblicani alla Casa Bianca. E, da capofila, Giuliani aveva deciso che la sua corsa sarebbe cominciata in Florida. Perché era in Florida – e non nelle nevi dell’Iowa e del New Hampshire, in Michigan, nel South Carolina o nel Nevada – che la competizione avrebbe per davvero cominciato a prender forma. E perché, proprio per questo, era in Florida che conveniva concentrare i propri sforzi politici e finanziari in vista del “super-duper tuesday” (la contesa del prossimo 5 febbraio, nella quale ben 24 Stati scenderanno contemporaneamente in lizza). L’Iowa ed il New Hampshire sono passati. Passati sono Il Michigan, il Nevada ed il South Carolina. Si sono consumati, uno dopo l’atro, in rutilante successione, i misteriosi riti elettorali americani che assegnano a piccoli ed apparentemente insignificanti Stati il compito da marcare i tempi della campagna elettorale. Ed è infine arrivata la Florida. Giusto in tempo per dare a Rudy Giuliani – che sotto il sole tropicale di questo stato era andato facendo campagna mentre i suoi rivali si congelavano nel New Hampshire e nelle sterminate pianure dell’Iowa – il senso della sua irrilevanza. Il giudizio dei sondaggi – che, a consolazione dell’ex sindaco della Grande Mela, si sono tuttavia spesso rivelati menzogneri – appare per lui senza scampo. Con John McCain – che nelle ultime ore ha incassato il fondamentale “endorsement” del governatore dello stato Charlie Crist e del senatore cubano-americano Mel Martinez – a condurre la corsa seguito da Mitt Romney (in quella che sembra ormai destinata a diventare una corsa a due verso la nomination) e da Mike Huckabee. Poi, con un miserando 10 per cento dei consensi, proprio lui, Rudolph William Giuliani, l’eroe del “ground zero”, il “sindaco d’America” che doveva consacrare tra le palme reali le sue ambizioni presidenziali…
I politologi (“pundits”) americani, sottili interpreti di meccanismi elettorali divenuti nel tempo una sorta d’insondabile enigma, non hanno dubbi. Decidendo di trascurare le fasi iniziali della contesa e scegliendo la Florida come vera rampa di lancio della sua campagna, Rudy Giuliani ha commesso un errore probabilmente fatale, sopravvalutando la propria popolarità e sottovalutando il peso d’una tradizione da tutti definita assurda eppure perdurante e vitale quanto basta per trasformare la Florida, che doveva essere un trampolino verso il futuro, nella pietra tombale della sua corsa verso la nomination. Giochi chiusi? Rudy Giuliani, prevedibilmente, assicura di no. E nessuno può giurare che non abbia ragione. Negli ultimi due mesi, dice, ha battuto lo Stato palmo a palmo e conosce la situazione meglio d’ogni sondaggio. I meccanismi elettorali della Florida, che consentono il voto anticipato, sono tali da riservare inimmaginabili sorprese. E proprio questo lui, divenuto d’acchito un “underdog” (un super sfavorito), si appresta in effetti a fare: a sorprendere. Meglio ancora: a trasformare la sorpresa d’una inattesa rimonta – a questo punto anche un decoroso secondo posto potrebbe andare – destinata a diventare una marcia trionfale il 5 febbraio. Perché l’America – quest’America assediata dal terrorismo e da mille pericoli – continua, sostiene Rudy, ad aver bisogno del suo sindaco.
Oggi si saprà. Ma se davvero, come molti temono, la Florida finirà per seppellire la campagna di Giuliani, le ragioni andranno ricercate ben oltre un semplice errore di calcolo elettorale. E per capirlo basta leggere l’editoriale con il quale il principale quotidiano d’America e della città che Rudy crede d’aver salvato da se stessa – il New York Times – ha giorni fa annunciato la sua decisione di appoggiare la candidatura di John McCain nelle primarie repubblicane. O meglio: quella di “non” appoggiare il sindaco la cui conferma a City Hall il giornale aveva sostenuto nel 1997. Perché – si è chiesto il New York Times – non diamo il nostro “endorsement” al sindaco che ha trasformato “in un luogo pulito e sicuro” quella che prima appariva una “città ingovernabile”? E perché voltiamo le spalle all’uomo che, l’11 settembre, seppe dare alla città un senso di unità e di forza che altri, il presidente incluso, non seppero darle? Semplice (e davvero brutale) la risposta. Noi voltiamo le spalle a quell’uomo – ha affermato l’editoriale – perché quell’uomo “non sta partecipando alla corsa presidenziale”. Il candidato Giuliani, il “vero Rudy Giuliani, il sindaco che i neworkesi hanno conosciuto e di cui hanno imparato a diffidare” è, in realtà, un leader “meschino e vendicativo, ossessionato dalla segretezza”. Un uomo “arrogante ed avventato” che ha lasciato alla città non solo una Times Square più pulita, ma anche un eredità “di divisioni e di odio razziale”. Un opportunista che “trasformato in un lucroso e non sempre limpido affare la paura generata dall’11 settembre” per poi “usare questa città e la sua tragedia per promuovere la sua candidatura”.
Nelle ultime settimane, lo abbiamo visto, quest’uomo, portare il suo messaggio sotto il caldo sole tropicale della Florida, tra le comunità di passabilmente danarosi vecchi signori e signore (molti provenienti proprio da New York) venuti a trascorrere gli ultimi anni della loro vita, in cerca di tranquillità, tra bianche spiagge e campi di golf. Riassumendo: cari signori siete circondati da gente che vi vuol far la pelle. E solo io, che ho affrontato apertamente il terrorismo tra le macerie delle Torri Gemelle, posso salvarvi. Chissà. Forse ha ragione il comico che, giorni fa, così ha spiegato la caduta di Rudy. “La gente ha capito che, in caso di pericolo, bisogna chiamare non l’uomo del 9/11 (l’11 di settembre n.d.r.), ma il 911 (il numero telefonico per le emergenze n.d.r.). O forse, più semplicemente, la gente si è stancata – in Florida come in Iowa – di sentirsi dire che deve avere paura…