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Obama ricomincia dalla città del vento

Il “fellow chicagoan” Rahm Emanuel, alias “Rahmbo”, prescelto come chief of staff – Ma sara ovviamente l’economia il primo vero banco di prova

 

22 dicembre 2008

 

di M.C.

 

È finita a Chicago, tra la folla estasiata del Grant Park, la vittoriosa campagna di Barack Obama. È finita con i balli, i canti e le lacrime che, in un’indimenticabile, storica nottata, hanno simbolicamente riscattato il ricordo delle manganellate e del sangue che, in quello stesso parco, nell’estate del 1968, nei giorni della Convenzione democratica (ed all’ombra delle guerra in Vietnam), avevano marcato il dissolversi della maggioranza che aveva retto il paese dai tempi del New Deal rooseveltiano. Ed è proprio da qui, da Chicago, che Barak Obama – il Barack Obama chiamato, ora, a governare il più potente paese del pianeta Terra – sembra intenzionato a ripartire. Per andare dove?

Questa è la domanda che, all’alba di mercoledì, quando ancora non s’era spenta l’eco della grande festa della vittoria, tutti hanno inevitabilmente cominciato a porsi. Il primo sole dell’ “era Obama” aveva, infatti, appena cominciato a tingere di rosa le acque del lago Michigan – ci si passi questa poetica diversione, ma davvero poetiche erano state le celebrazioni appena concluse – che già erano cominciate a circolare le prime voci sulla formazione del “transition team”, la squadra di transizione destinata a preparare il concreto accesso del vincitore ai palazzi del potere. Su tutte, quella che dava per quasi certa la nomina di Rahm Emmanuel (nomina confermata ieri) alla carica-chiave di chief of staff. Ovvero: alla posizione di grande coordinatore delle operazioni di formazione del nuovo governo. Rahm Emmanuel – o Rahmbo Emmanuel, come molti lo chiamano per via del suo stile politico piuttosto aggressivo – è, come Barack Obama, di Chicago. E da Chicago – o, come sostengono i detrattori del nuovo presidente, dalla famigerata “Chicago-machine”, sinonimo di strapotere e di corruzione – viene, in effetti, gran parte dell’efficientissimo drappello di esperti che hanno accompagnato Obama in questa straordinaria ed “epocale” avventura. Di Chicago è David Axelrod, manager “strategico” della campagna. Di Chicago sono i facoltosi uomini (e donne) d’affari – da Penny Prizker, erede dell’impero alberghiero Hyatt, a James Crown, figlio del miliardiario Lester Crown, eminente rappresentante della comunità ebrea della città – che hanno dato (prima che il “traffico delle formiche” dei piccoli contributi cominciasse ad affluire con travolgente generosità) linfa finanziaria alle ambizioni politiche di Obama. Di Chicago è Valerie Jarret (che insieme a John Podestà, già chief of staff di Bill Clinton, e Peter Rouse, dirige la formazione del “transition team”). E delle più prestigiose università di Chicago sono frutto gran parte degli intellettuali che hanno contribuito ad elaborare la piattaforma elettorale del candidato democratico (a cominciare da Eric Whitaker, autore del piano di riforma della salute che Hillary Clinton ebbe, nel corso delle primarie, a bollare come “moderato”).

Dunque: che cosa ci dice la nomina di “Rahmbo” Emmanuel a nuovo chief of staff? Molto e molto poco. Molto, perché il prepotente ritorno in primo piano della molto pragmatica potenza della “Chicago-machine conferma un lato occulto, ma essenziale, della personalità di Obama. Dietro la grande eloquenza, dietro la straordinaria capacità di trasmettere a chi l’ascolta la sensazione d’esser diventato parte di qualcosa di grande e di superiore, di qualcosa che trascende e, insieme, illumina le miserie della routine politica, si cela, in realtà, un leader che la molto vituperata routine politica sa perfettamente capire e dominare. Come? Semplice. Scegliendo gli uomini che servono. Perché sulle gambe dei grandi ideali e sull’onda delle più alate parole – Obama lo sa benissimo – non si riesce a camminare se non si hanno buone scarpe. E di eccellenti calzature, Barack Obama se ne è procurate, nel corso questi due interminabili anni di campagna (un cammino tortuoso e sfiancante) tutte quelle che occorrevano, scegliendo tra quelli che, per l’appunto, la politica la sanno fare. Nel buono e nel cattivo tempo. Sotto il Sol dell’Avvenire ed anche, anzi, soprattutto, nel fango delle piogge che, ogni giorno, innaffiano i palazzi del potere. Rahm Emmanuel è una di queste scarpe, Anzi, è uno stivale ferrato, di quelli che non esitano a piantare lo sperone nei fianchi di cavalli recalcitranti. Si tratti di stalloni amici o di equini nemici. Il che significa che la nuova Amministrazione Obama s’appresta a mostrare i muscoli su due fronti.

Molto si è detto, in queste ore, sui propositi “bipartisan” di Obama. Ed anche nel suo discorso della vittoria – già entrato nella storia delle “grandi svolte” della Storia americana – il vincitore ha ribadito quello che sempre è stato un elemento centrale della sua strategia politica: la definizione d’una nuova maggioranza fondata, non sulle antiche divisioni partitiche (“non esiste un’America divisa in stati blu ed in Stati rossi, ma esistono gli Stati Uniti d’America”), bensì sulla definizione di un nuovo “senso comune”, di nuovi obiettivi di trasformazione e di giustizia nei quali l’intero paese possa riconoscersi. Ma probabilmente si sbagliano coloro che, ora, s’attendono una politica di “porte aperte” verso i repubblicani sconfitti. O, più in generale una politica di “mano morbida”. Scegliendo Emmanuel – uno che le porte, più che aprirle, le sbatte in faccia a chi di dovere, un uomo politico che viene dalla politica tradizionale e che, proprio per questo è in grado di battagliare, dimentico d’ogni galateo, contro i politici tradizionali – Obama sembra voler mandare un chiaro messaggio tanto agli avversari (quel che resta dei repubblicani sconfitti), quanto (e forse soprattutto) alla nuova e solidificata maggioranza democratica del Congresso (o a quel satanico asse “Pelosi-Reid” che un editoriale del Wall Street Journal definiva ieri, sarcasticamente, la “nuova opposizione”). Insomma: presentando al mondo il suo nuovo capo di gabinetto, Obama si dice pronto non solo a varare una politica nella quale la grande maggioranza degli americani possa riconoscersi, ma anche ad una battaglia su entrambi i fianchi. Senza esclusioni di colpi e senza riguardo per nessuno. Da oggi, comanda lui.

Comanda, per fare che? Qui le cose diventano, inevitabilmente, più nebulose. Le priorità del nuovo governo sono piuttosto ovvie: economia, energia, riforma sanitaria, rapido ritiro delle forze dall’Iraq. Con un’ovvia enfasi sul primo punto. E, in questo quadro, assolutamente centrale sarà nelle prossime ore – è quasi superfluo sottolinearlo – la scelta del team economico (a cominciare dall’incarico di segretario al Tesoro). Assai difficile è tuttavia – analizzando il formidabile team di consulenti che ha sostenuto la campagna di Obama – cercare di leggere il futuro. Nel corso del secondo dibattito televisivo – rispondendo ad una domanda del moderatore, Tom Brokaw – il neopresidente aveva affermato che, dovendo scegliere un segretario al Tesoro, avrebbe molto seriamente considerato la candidatura di uno dei suoi più famosi supporter: Warren Buffett, quel “Mago di Omaha” che, oltre ad essere il più ricco uomo d’America (ha un paio d’anni fa soppiantato, nella classifica della rivista Forbes, il fondatore di Microsoft, Bill Gates), è anche simbolo del “capitalismo saggio”, quello che evita di ascoltare le sirene delle bolle speculative, siano esse tecnologiche, immobiliari o finanziarie (nel 2003, polemizzando con Alan Greenspan, Buffett aveva definito “armi finanziarie di distruzione di massa” i derivatives e tutti i nuovi prodotti che, nati dalla “securitization” del debito, andavano ingolfando Wall Street). Ma assai improbabile è che il mitico capo della Berkshire Hathaway , ormai prossimo agli 80 anni, accetti l’incarico.

Il che lascia gli osservatori di fronte ad un arduo compito: quello di cercar di leggere la sfera di cristallo nei nomi di una molto composita squadra di guru dell’economia , tra i quali sicuramente prevalgono, in un quadro d’assoluta eccellenza, le figure tradizionali: da Paul Volcker, l’ex direttore della Federal Reserve che, negli anni ’80, condusse, come un’implacabile San Giorgio, la battaglia contro il drago dell’inflazione; a Robert Rubin, Lawrence Summer e Laura Tyson (tutti eminentissimi membri del governo Clinton), a Jason Furman (un altro “chicagoan”), direttore dell’Hamilton Project e, fin dall’inizio, coordinatore del l “economic team” di Obama. E poi, via via, fino a studiosi di chiara matrice progressista, come il premio Nobel Joseph Stiglitz e James K. Galbraith.

Chi sceglierà Obama? E di quale politica sarà portatore il prescelto? Come affronterà il “mostro” d’una possibile depressione? Impossibile prevederlo. Anche perché una cosa è certa. Ormai è inutile guardare alla “ideologia” degli economisti che accompagnano Obama od a quella dei programmi che questi ultimi hanno elaborato nel corso della campagna. A decidere sarà, infine, la profondità d’una crisi le cui dimensioni nessuno ha ancora potuto compiutamente misurare. Quella che Obama ha aperto martedì notte – ormai è quasi un luogo comune ripeterlo – è certamente una nuova pagina della storia del mondo. Ma è anche, a tutti gli effetti, una pagina bianca.

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