9 settembre 2009
Di M.C.
Questa volta si farà. Si farà, perché è giusto farlo. Si farà, perché non si può non fare. Si farà, perché, dovessimo rinunciare a farlo, “perderemmo una parte essenziale di noi stessi”. E si farà perché, questa volta, ha detto Barack Obama, “io non intendo accettare lo status quo come una soluzione al problema”. La sostanza del discorso che, mercoledì sera, il presidente degli Stati Uniti ha tenuto di fronte al Congresso è tutta qui, in quest’ultima frase. Dopo quasi un secolo di tentativi finiti nel nulla, di naufragi e di ingloriose ritirate, questa volta – ha detto – la barca della riforma sanitaria arriverà in porto. L’America – “l’unico tra i paesi di democrazia avanzata che non garantisca assistenza medica a tutti i suoi cittadini” – perderà finalmente l’anomalia negativa che macchia il suo (vero o presunto) “eccezionalismo” e che va, nel contempo, svuotando i suoi forzieri. “Il tempo delle zuffe è finito – ha sottolineato Obama – il tempo dei giochi politici è passato. Ed è cominciata la stagione dell’azione. Questo è il momento per raccogliere il meglio delle idee di entrambi i partiti e mostrare al popolo americano che sappiamo fare le cose per le quali siamo stati eletti. Questo è il momento della riforma sanitaria…”.
Al termine di quella che i media hanno definito “un’estate caldissima e turbolenta” – due molto caotici mesi che, in un rancoroso clima di rissa, hanno visto precipitare tutti gli indici di popolarità presidenziale – Obama ha ripreso il timone del dibattito politico su quella “comprehensive health care reform” (vera e propria fatica di Sisifo dell’America progressista) che della sua promessa di cambiamento è, probabilmente, l’elemento chiave. E lo ha fatto da par suo, rispolverando il carisma e la pacata eloquenza, quella straordinaria miscela di retorica e di padronanza (dei temi trattati e di se stesso) che aveva gonfiato le vele della sua campagna elettorale. Comunque finiscano le cose in materia di riforma sanitaria (e non è affatto detto che finiscano bene), mercoledì sera l’America ha avuto, seguendo in diretta il discorso, la prova che quel Barack Obama – l’uomo del “yes, we can” – non è, almeno per il momento, andato perduto nei meandri della routine politica. È ancora lì. Ed è ancora capace, di fronte a un microfono, d’evocare – come di lui disse Ted Kennedy – il “meglio di ciascuno di noi”, la voglia di cambiamento e, insieme, la capacità d’ascoltare e di capire le ragioni degli altri, il senso, a suo modo grandioso, d’una trasformazione possibile attraverso, non il conflitto, ma il consenso. Il tutto, questa volta, con una necessaria – e da molti suoi seguaci da tempo invocata – punta d’inusitata durezza. “Le mie porte restano aperte – ha detto Barack Obama rivolgendosi ai repubblicani – per chiunque abbia nuove idee da apportare…Ma non ho alcuna intenzione di perdere tempo con quanti puntano, non a migliorare, ma a uccidere la riforma…Se qualcuno di voi racconterà cose non vere sul progetto di riforma, verrà chiamato a rispondere delle sue parole…”.
Barack Obama è tornato con forza – e chiamandole per nome – a citare le molte grossolane menzogne (“ouright lies”) che, in queste ultime settimane, sono state dette e scritte sui progetti in discussione nelle due camere (su tutte: quella relativa ai “death panel”, le commissioni della morte che dovrebbero decidere se staccare o meno la spina, nel caso di pazienti giudicati troppo vecchi e malati). Ed è tornato a definire i contorni d’una riforma che è, contemporaneamente, un obbligo morale ed una ineludibile necessità economica. Non è accettabile – ha ripetuto – che, in America, persone muoiano perché non hanno alcuna forma di copertura sanitaria. Non è accettabile che essere umani muoiano, o finiscano in bancarotta, perché la loro assicurazione privata cancella, attraverso cavilli legali, contratti ritenuti non più economicamente vantaggiosi a fronte d’una malattia grave. E non sono più accettabili – cifre alla mano – livelli di inflazione sanitaria che vanno trasformando il deficit in una vera e propria voragine. “Io capisco – ha detto Obama concludendo il suo intervento – che qualcuno, valutate le difficoltà dell’impresa, possa arrivare alla conclusione che la mossa politica più sicura sia quella di ‘kick the can further down the road’, dare un calcio al barattolo, spingendolo più avanti lungo la strada, rinviando la riforma di un anno, di un’elezione, o di un termine presidenziale…Ma non è per questo che siamo venuti qui. Non è per avere paura del futuro, ma per forgiarlo, che siamo stati eletti. Ed io sono convinto che possiamo farlo anche nelle più avverse condizioni. Io continuo a credere che possiamo rimpiazzare l’acrimonia con il rispetto reciproco, la paralisi con il progresso. Io continuo a credere che , insieme, possiamo fare grandi cose ed affrontare la sfida della storia…”.
Belle parole. Belle, ma – all’atto pratico – quanto efficaci? Non pochi analisti, ieri, a discorso ormai digerito, si sono chiesti se l’intervento di Obama non sia – per così dire – giunto quando i buoi già hanno abbandonato il recinto. Ovvero: se non sia arrivato troppo tardi, in un panorama ormai irrimediabilmente deteriorato dalle molte miserie della “calda estate”, e dalla scia di paure che un dibattito divenuto troppo complesso a Washington e giunto artatamente deformato alla periferia, ha finito per pietrificare. Mentre a Capitol Hill si discute – verrebbe da dire, parafrasando una famosa massima di Tito Livio (dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur)- la cittadella della riforma già è stata, insomma, per sempre espugnata. I sondaggi d’opinione – che, tuttavia, raccontano solo una piccola parte della verità – daranno presto una risposta a questo dubbio. E, molto opportunamente, Barack Obama ha, fin dalle prime battute del suo intervento , invitato tutti a fare un passo indietro, per osservare – oltre il frastuono delle risse e delle contestazioni – la realtà del presente. A dispetto della molta confusione, ha detto, mai la riforma è stata tanto vicina. Mai il Congresso aveva costruito una base d’accordo tanto ampia su “almeno l’80 per cento” delle questioni sul tappeto. La meta non è mai stata – lungo una parabola cominciata con Ted Roosevelt agli inizi del ‘900 ed arrivata fino a Hillary nel 1994 – tanto a portata di mano. Una mano che Obama, fedele alla sua missione di “grande conciliatore” – ha, mercoledì sera, di nuovo teso a tutti. A quanti – repubblicani e democratici – temono le conseguenze finanziarie della riforma (“Non firmerò alcun progetto – ha ribadito più volte – che aggiunga un solo ‘dime’, la moneta da 10 centesimi, al deficit nazionale…”). Ed a quanti – repubblicani e democratici – guardano con sospetto alla più controversa (e forse anche alla più necessaria, se quello che si cerca è una vera riforma) delle misure in discussione. Vale a dire: alla cosiddetta “public option”, la creazione di una “assicurazione pubblica” destinata – in concorrenza con le assicurazioni private – a dare assistenza a quanti (30 o 47 milioni di persone, a seconda di come le si calcoli) oggi non hanno alcuna. “Questa – ha detto – non è che una parte del nostro piano. Ed è un mezzo non un fine…”. Insomma: discutiamone.
Obama ha anche citato, come possibili contributi alla riforma, alcune storiche rivendicazioni repubblicane. E, in particolare, quel la “tort reform” che dovrebbe rendere più difficile querelare medici ed ospedali, eliminando gli effetti negativi della cosiddetta “defensive medicine”, preoccupata più delle conseguenze legali delle cure che della loro efficacia medica. Ma difficilmente tutto questo avrà l’effetto render più blanda l’opposizione a destra. Non perché quest’ultima sia troppo forte, ma per la ragione esattamente opposta. I repubblicani sono oggi – a tutti gli effetti – troppo deboli, troppo prigionieri della propria ala più estrema e dei suoi cantori tele-radiofonici (Bill O’Reilly, Rush Limbaugh, Glenn Beck), per avviare un serio confronto. Chuck Grassley, il “moderato” senatore dell’Iowa che, in teoria, doveva essere tra i protagonisti di un accordo bipartisan a Capitol Hill, ha di recente finito per trasformarsi, sotto la pressione di una base repubblicana sempre più arrabbiata, in uno dei più chiassosi diffusori di quella “outright lie” (le famose “commissioni della morte”) denunciata mercoledì sera da Obama.
Se letto in trasparenza, il discorso presidenziale non è in ultima analisi – al di là degli inviti alla collaborazione – che una presa d’atto di questa situazione. Se mai passerà, la riforma passerà soltanto con i voti democratici. E forse neppure con tutti i voti democratici. Quello che ieri il “grande conciliatore” ha molto pragmaticamente detto al Congresso è, in fondo, proprio questo. Il treno della riforma io lo voglio prendere, aggrappandomi se necessario anche ad un solo voto, con o senza di voi. Quello della “bipartisanship” è invece già passato. Ed già ripartito tristemente vuoto.