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Obama, mal di pancia liberal

12 dicembre 2009

 

Di M.C.

 

“I’m not against all wars. I’m against the dumb wars”. Io non sono contro tutte le guerre, io sono contro le guerre stupide. Così parlò Barack Obama. Non di fronte ai grandi dignitari che, una settimana fa, ad Oslo, gli hanno solennemente consegnato il Nobel per la Pace, bensì in quel di Springfield, allorquando, nell’anno del Signore 2002 (mese di marzo), gli toccò spiegare agli onorevoli  colleghi del Congresso dell’Illinois, le ragioni della sua opposizione alla guerra che George W. Bush s’apprestava a lanciare contro l’Iraq di Saddam Hussein. Esistono, argomentò in sostanza Obama, “guerre di necessità” e “guerre di scelta”. Quella in Afghanistan – inevitabile e, conseguentemente, “giusta” risposta  ad una sanguinosa aggressione – appartiene alla prima categoria. Quella in Iraq, alla seconda. Anzi, ad una sottocategoria della seconda: quella delle guerre di scelta strategicamente sbagliate. O, per l’appunto, alla categoria delle “guerre stupide”.

Questo disse, quasi otto anni or sono, l’attuale presidente degli Stati Uniti d’America. E questo, con modeste ed insignificanti varianti, è quello che è andato ripetendo fino ad oggi. Ovvero: fino al discorso sulla “guerra giusta” che, il 10 dicembre – a non più di qualche giorno dalla sua decisione di rilanciare il conflitto in Afghanistan – ha pronunciato nel ritirare un premio destinato ai costruttori di pace. E forse vale la pena di partire proprio da qui – da quest’estremo atto di coerenza, consumato nella molto incoerente atmosfera della cerimonia per la consegna del Nobel per la Pace – per cercare di capire la vera e molto contraddittoria natura del rapporto tra Barack Obama e quella che per comodità chiameremo la sua “base liberal”. Nonché, più in generale, la ragione della rapida discesa del consenso verso il neo-presidente.

Il discorso di Oslo – preceduto da quello col quale, a West Point, il presidente aveva annunciato il suo “surge” afghano – ha per molti aspetti fatto da catalizzatore ad un’accusa di “tradimento” che era da tempo nell’aria. E che, paradossalmente, appare tanto più forte ed indignata, quanto meno trova riscontri in parole o comportamenti del passato. Barack Obama, ad Oslo ed a West Point, non ha, in realtà, fatto altro che ribadire quel che, lungo tutto il 2008, era andato dicendo in ogni comizio elettorale. La guerra in Iraq è sbagliata e va “responsabilmente” terminata. La guerra in Afghanistan è, di nuovo, giusta e va per questo, al contrario, continuata e vinta. La sicurezza nazionale resta al primo posto, anche al prezzo di azioni unilaterali. “Se dovessimo individuare serie ed immediate minacce terroriste in territorio pakistano – aveva detto Obama durante la campagna, suscitando le strumentali reazioni di Hillary Clinton, prima, e di John McCain poi – e se il governo locale non dovesse, per volontà o per incapacità, intervenire per eliminarla, noi stessi dovremmo provvedere a farlo”. Insomma: se “giusta”,  la guerra può anche essere preventiva.

Dunque: perché la ripetizione di quello che, in effetti, era stato un  leit motif della campagna elettorale è diventato, oggi, l’epicentro d’un crescente e sempre più rancoroso “disincanto”, le cui ragioni e le cui origini vanno, ovviamente, oltre le frontiere della pace e della guerra? L’onda della disillusione progressista riguarda, infatti, l’intero arco dell’iniziativa politica. Obama è sotto accusa per tutto: per avere lasciato che il dibattito congressuale progressivamente annacquasse il progetto di riforma sanitaria (dimenticando, tuttavia, che i progetti attualmente in discussione sono, tutti, e con tutti i loro limiti, più a sinistra di quello che Obama propugnò durante la campagna). Per essersi fatto dettare la politica economica dai quegli stessi guru che portano pesanti responsabilità (dirette, o intellettuali) della crisi finanziaria che ha messo in ginocchio l’economia globale. Per non avere fatto abbastanza per rilanciare l’occupazione. Per non avere che in parte (e qui, davvero, si tratta di promesse non mantenute) cancellato le più vergognose politiche “di sicurezza” – Guantánamo, extraodinary rendition, intercettazioni telefoniche, tortura, Patriot Act  – consumate negli anni della tragica accoppiata Bush-Cheney

La prima e più ovvia risposta a questa domanda sta, naturalmente, nella natura molto composita del blocco elettorale e sociale che ha portato il nuovo presidente alla Casa Bianca.  Barack Obama ha vinto con il sostegno d’un molto complesso mosaico di forze:  democratici d’ogni tendenza – liberals, moderati e persino, come ha testimoniato il voto di alcuni stati del Sud e del Midwest, conservatori (i cosiddetti Reagan democrats ) – più quel che rimane dei “Rockefeller Republicans” e una maggioritaria fetta degli indipendenti. Ma la vera spinta – quella che davvero ha marcato la novità della campagna – è venuta da una imponente massa di nuovi elettori senza precise affiliazioni politiche o ideologiche. È da qui che è partito il “contagio”, questo è stato il “brodo primordiale” di quella “obamamania” che, presto diventata inguaribile, ha finito per identificare il proprio generico desiderio di cambiamento  molto più con il personaggio – con la sua storia personale, con la sua pacata ma trascinante eloquenza – che con la sua linea politica. Lungo tutta la trionfale marcia verso il 1600 di Pennsylvania Avenue, Il candidato Barack Omaba è stato – nell’esaltante aura d’uno slogan, “yes, we can”, che sembrava dischiudere ogni porta ad ogni speranza – più importante delle sue proposte. O, se si preferisce, delle molte “finzioni” nelle cui correnti la sua campagna è andata magistralmente navigando. Come quella, per l’appunto, che riguardava l’Afghanistan e la ponderata illusione- spesa per tenere a bada, sul fianco destro, le accuse di disfattismo – di poter davvero riprendere la “guerrra giusta” contro i responsabili dell’11settembre là dove la banda Bush-Cheney-Rumsfeld l’aveva abbandonata per perseguire “the dumb war”, la guerra stupida contro l’Iraq.

Giunto alla presidenza, Barack Obama – che, in effetti, non ha mai mentito, né mai ha “tradito” – ha, più semplicemente, dovuto fare i conti con il “vero” Afghanistan. Quello senza più il Bin Laden da catturare. Quello perduto in una guerra civile che, alimentata e non mitigata dalla presenza americana, lo va senza sosta dissanguando. Quello che, ormai, altro non è che un inutile, anzi, dannosa appendice d’una guerra contro il terrorismo islamico, da tempo disperso in ben altri e ben diversi santuari. Una guerra che, in realtà, una guerra non è, perché è tutta da combattere sul piano politico e su quello della “intelligence”. Dire che la risposta di Obama è stata – nella sostanza delle giustificazioni che ha presentato – simile a quella “dei tempi di Bush”, è certo superficiale e frettoloso. Ma è indubbio che questa è l’impressione che ha lasciato (e non solo in tema di Afghanistan) in una parte importante della variegata base politica (e non solo in quella liberal) che Obama ha portato alla vittoria.

E proprio questo è il vero punto. Obama ha vinto le elezioni da “centrista”. O meglio: le ha vinte proponendo un nuovo punto di equilibrio, un nuovo centro nel quale – dopo i disastri delle “guerre infinite”  e dell’infinito potere del capitale finanziario – potesse consolidarsi un’inedita forma di consenso nazionale. Questa – la creazione di un nuovo centro – era (ed è) la vera base del suo trionfo, la sostanza della natura “transfomational” che ha promesso all’America. Quello che Obama sembra invece avere fin qui trovato – dopo un anno di attivismo intenso, ma ancora improduttivo – è invece soltanto il classico centro del guado, lontano, ormai, dalla sponda delle “finzioni” elettorali ed ancora incapace di raggiungere quello d’una riconoscibile filosofia di governo. Un punto del fiume dove le speranze (tutte le speranze) possono solo morire.

La traversata di Obama, certo, è appena cominciata.  Ma la delusione dell’America “liberal” ci dice che, nel guado, la corrente è impetuosa. E che il tempo ha già cominciato a lavorare contro di lui.

 

 

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