Sono passati 208 anni da quando Jefferson (il primo “negro president”) entrò alla Casa Bianca grazie al potere dei proprietari di schiavi – Ed ora tocca al primo vero presidente di pelle nera cercare la strada che porta oltre una delle più gravi crisi dell’economia capitalista. La sua parola d’ordine è: pragmatismo. Funzionerà?
4 novembre 2008
di Massimo Cavallini
Yes, he could. Barack Hussein Obama – l’afro-americano Barack Hussein Obama, il candidato la cui pigmentazione ed il cui nome parevano, fino a ieri l’altro, sfidare il senso comune della politica americana – è riuscito a diventare il primo “negro president” degli Stati Uniti d’America. Anzi, il secondo. Ed è proprio qui, nella distanza che separa Obama dal suo predecessore “negro” – il ben noto (e ben bianco) Thomas Jefferson – che inequivocabilmente affiora, oltre l’ideologia e, per molti aspetti, anche oltre la politica, la valenza storica del voto del 4 novembre. Chi davvero sia, politicamente ed ideologicamente, il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America non è, infatti, facile dire. Ed ancor più difficile è soppesare – oltre l’enigma d’un “pragmatismo” che, già ovvio durante i due anni di campagna elettorale, i tre lunghi mesi della transizione hanno ancor più evidenziato – la vera direzione del “cambiamento credibile” (“change you can believe in”) che ha portato alla vittoria il candidato democratico. Ma due cose, in una tanto aleatoria realtà, già appaiono più che certe. Ed entrambe contribuiscono, nella loro certezza, a preventivamente definire il peso “epocale” della presidenza di Barack Hussein Obama.
La prima certezza (meno ovvia di quel che potrebbe a prima vista apparire) è, per l’appunto, questa: eleggendo il suo primo presidente di pelle nera (e, come detto, il suo secondo “negro president”) la democrazia americana ha, non cancellato (né emendato), ma in buona misura superato il “peccato originale” che, come una maledizione, aveva fin dall’inizio marcato la sua esistenza, e condizionato lo sviluppo d’una rivoluzione che, nata nel nome della libertà, nel nome della libertà aveva poi, per quasi un secolo, continuato a coltivare al proprio interno quella che della libertà è da sempre, e a tutti gli effetti, la più completa ed abbietta negazione. Ovvero: la “peculiare istituzione” della schiavitù.
La seconda certezza (o meglio: la seconda paradossale verità) è, invece, il preambolo d’un problema ancora senza soluzione. E che così può essere per grandi linee riassunto: non le idee (quelle, ancora tutte da scoprire, di Barack Obama), ma i fatti – o, per meglio dire, la realtà d’una crisi economica senza precedenti – sono inevitabilmente destinati a conferire alla politica del 44esimo presidente degli Stati Uniti una spinta verso la radicale trasformazione dell’esistente. Il cambiamento promesso da Obama è infatti, per molti aspetti, non il punto d’arrivo d’una politica ancora tutta da definire, ma la sua premessa. La “rivoluzione” con molta vaghezza annunciata durante la contesa elettorale, è già, in buona misura, una realtà che attende d’essere interpretata e diretta. Ed è proprio in questa chiave che l’ormai proverbiale pragmatismo del nuovo inquilino della Casa Bianca va letto e giudicato. “I’m interested only in the ideas that work”, a me interessano solo le idee che funzionano, è andato ripetendo Obama nelle lunghe settimane che hanno preceduto l’indimenticabile spettacolo – mai la capitale aveva visto una simile folla – del suo “Inauguration Day” . Ed è bene prenderlo in parola.
Cominciamo dal primo punto. Vale a dire: da Thomas Jefferson, grande icona della storia del liberalismo e da molti legittimamente considerato, tra i “padri fondatori” della Nazione, quello che più ha contribuito a porre le basi della democrazia americana (e dell’Occidente tutto). O, ancor più esattamente: dall’uomo la cui penna, il 4 di luglio del 1776, vergò la frase immortale – “…tutti gli uomini sono stati creati uguali…” – che, quel giorno, colpendo a morte il principio del “diritto divino” delle teste coronate, aprì la Dichiarazione d’Indipendenza, illuminando per sempre la storia, in perenne divenire, della lotta per la libertà. Le ragioni per le quali Jefferson venne chiamato “the negro president”– fu John Adams, suo rivale “federalista” nella corsa presidenziale dell’anno 1800, a coniare quell’espressione – sono stranote (anche se piuttosto raramente ricordate dalla storiografia ufficiale). E nulla hanno a che vedere – come a prima vista potrebbe apparire – con una qualsivoglia benevola propensione di Jefferson nei confronti della razza negra. Tutt’altro: Jefferson era – per Adams e per i federalisti – “the negro president” perché aveva conquistato la Casa Bianca (proprio in quell’anno costruita nel paludoso “nulla” che faceva da contorno al fiume Potomac ) grazie allo “slave power’, al potere degli schiavi. O meglio: grazie al potere di chi possedeva schiavi e, più ancora, grazie alla centralità del principio di proprietà, elemento fondante, per i rivoluzionari del ’76, del processo di liberazione dall’impero. Thomas Jefferson, gran padre della democrazia americana, di schiavi – vale a dire, di uomini considerati proprietà, al pari degli animali e delle cose – ne possedeva oltre 200. E proprio questo – essere liberi di possedere, cose, animali ed altri uomini – significava, essenzialmente, la parola “libertà” per la maggioranza dei coloni insorti contro la corona britannica (e le sue tasse “senza rappresentanza politica”).
Ma di che cosa era fatto lo “slave power” che Adams rinfacciava a Jefferson? Per comprenderlo a fondo occorre seguire il filo del dibattito che ha marcato – come uno sfregio mai completamente rimarginato – la stessa nascita dell’idea liberale. È noto come John Locke, primo padre dell’idea rousseauiana di contratto sociale, sia stato, non solo favorevole allo schiavismo (considerato una storica e più che legittima forma di proprietà), ma abbia direttamente partecipato, come investitore, alla tratta degli schiavi (contrariamente a Montesquieu, David Hume ed Adam Smith che sempre considerarono la proprietà di uomini in inconciliabile contrasto con la stessa idea di libertà). Ed impossibile è capire la rivoluzione americana (e, più in generale, la rivoluzione liberale) senza analizzare come questo dibattito abbia attraversato, spesso in modo dilaniante, la coscienza dell’uomo che, di questa rivoluzione, è forse il più fulgido simbolo. Rileggere quel che, a suo tempo, Jefferson scrisse a proposito della schiavitù è, in effetti, un po’ come rivivere lo “Strano caso del dott. Jeckyll e di Mr. Hyde”. Da un lato il rivoluzionario Jefferson-Jekyll che, con grande lucidità, capisce come la schiavitù sia inevitabilmente destinata, per la sua intrinseca immoralità, a “corrodere le basi della Repubblica’. E, dall’altro il Jefferson-mister Hyde, il proprietario di schiavi Thomas Jefferson, il virginiano bianco che si piega di fronte all’utilità, o meglio, alla imprescindibilità del lavoro forzato; e scrive, sulla “congenita inferiorità della razza negra” cose che ancor oggi fanno rabbrividire (Jefferson era convinto che i neri avrebbero, infine, conquistato la libertà. Ma credeva anche che, a causa di un’innata incompatibilità con la civiltà bianca, dovessero, per questo, ritornare in Africa. Un’idea che sarebbe stata ripresa, due secoli più tardi e con tutt’altro spirito, dai teorici del “Black Power” e dai Mussulmani neri).
Questa tuttavia, volendo sintetizzare, è la sostanza del “peccato originale” che – divenuto, nel tempo, la “questione razziale americana” – con l’elezione di Obama ha vissuto una storica svolta. Avendo sancito, in una realtà economico-sociale garantita dal lavoro degli schiavi, l’eguaglianza di tutti gli uomini di fronte a Dio, la Rivoluzione Americana non aveva che due vie per risolvere la contraddizione: o abolire lo schiavismo, radicalmente trasformando il proprio sistema di produzione, o “disumanizzare” gli schiavi, ridurli a elementi passivi (come gli animali e le cose) della proprietà, vera base della libertà dell’uomo. La schiavitù non poteva essere abolita – questa era la radice del dilemma – perché, abolendola, si sarebbero privati i padroni di schiavi d’una proprietà e, conseguentemente, della loro libertà). Ed al tempo stesso la schiavitù non poteva esistere perché era, in sé, la negazione della libertà. I cinquantacinque delegati che, nel 1787, si riunirono a Philadelphia per scrivere l’ancor oggi molto riverita Costituzione degli Stati Uniti d’America, risolsero il problema con un compromesso lessicale. Vale a dire: evitando d’usare nel testo della Costituzione il termine schiavitù – opportunamente trasformato in “the peculiar institution”, la peculiare istituzione – ma confermandone appieno la vigenza. Anzi: tassativamente proibendo, per almeno due decenni, ogni legge che abolisse la tratta degli schiavi (tratta che, proprio per questo, conobbe un’autentica auge nel periodo della rivoluzione: si calcola che proprio tra 1776 ed il 1790, anno del primo censimento, gli schiavi neri siano aumentati, in quelli che erano allora i 13 Stati dell’Unione, da 450mila a oltre 700mila); ed escludendo da ogni diritto di cittadinanza quelle che venivano genericamente definite “other persons”, “altre persone”. Volendo essere ancor più precisi: “altre persone” che – pur non essendo uomini e non essendo stati, per tanto “creati uguali” – finirono, in quella prima Costituzione liberale, per esser contati come i tre quinti di un vero essere umano. Poiché proprio questo – in una sorta di compromesso nel compromesso – stabilì, infine, nel testo della Carta Magna, la cosiddetta “Enumeration Clause”: che uno schiavo, pur non avendo diritto alcuno e, tanto meno, quello di partecipare alle elezioni, valeva, ai fini elettorali i tre quinti di un voto. Perché?
Per paura, fondamentalmente. Poiché, paradossalmente, proprio la “paura della rivoluzione” fu una delle più marcate caratteristiche della rivoluzione americana (ed anche, secondo il pensiero conservatore, una delle ragioni della sua longevità e dei suoi successi). Fu, infatti, il desiderio di evitare i “nefasti rischi” della “democrazia diretta” (un uomo, un voto) – vizio, quest’ultimo, considerato molto “giacobino” dalla maggioranza dei rivoluzionari riuniti a Philadelphia – che portò, in quegli anni lontani, alla definizione del cosiddetto “collegio elettorale” (un fardello che ancor oggi, con assurda ma solidissima costanza, caratterizza il sistema elettorale americano); e la quantità di voti di ciascuno di questi collegi veniva, allora come oggi, determinata, grossomodo, in base al numero degli abitanti di ciascuno Stato. Il che significava che gli Stati del Sud – quelli che, come la Virginia di Jefferson, più s’erano battuti per la piena salvaguardia della “peculiare istituzione” – sarebbero stati inevitabilmente penalizzati dal fatto che una più che discreta parte degli esseri umani di stanza nei loro territori erano stati, come i cavalli, i muli, o i maiali, ridotti al rango di merce. E che pertanto, in quanto tali, non erano contabili. Più in concreto: significava che, proprio in virtù della loro vittoria, gli Stati schiavisti rischiavano di perdere, alla lunga, la forza che aveva consentito loro d’imporre – contro la peraltro assai flebile spinta degli abolizionisti – il mantenimento della schiavitù. Sicché questo era stato, infine, il punto d’equilibrio definito nella legge fondamentale dell’Unione: al momento del calcolo dei voti di ciascun collegio elettorale, ciascuno schiavo – che, ovviamente, non poteva, come i cavalli, i muli ed i maiali, nemmeno immaginare d’usufruire del diritto di voto – sarebbe stato contato come i tre quinti d’una persona. Jefferson, battuto da Adams nel voto popolare, conquistò, grazie a questa clausola, 12 voti elettorali. E vinse, infine, per otto voti elettorali. Vinse, dunque, esclusivamente grazie al peso di quei tre quinti d’uomo che lui ed il suo partito (il Repubblicano-Democratico che poi sarebbe diventato l’attuale Partito Democratico) avevano voluto – contro le parole che loro stessi avevano scolpito nel marmo della “Declaration of Indipendence”” – mantenere (e mantenere per intero) nella vergognosa, abominevole disuguaglianza dello schiavismo. “L’elezione di Mr. Jefferson alla presidenza – avrebbe più tardi scritto John Quincy Adams, figlio di John Adams e lui stesso divenuto, nel 1825, sesto presidente degli Stati Uniti – fu, al di là d’ogni campanilistica interpretazione dei fatti, un trionfo del sud contro il nord, dei proprietari di schiavi sugli spiriti liberi”.
Tra l’elezione del primo “negro president” e quella del secondo “negro president” sono trascorsi più di due secoli. Ma la storia cominciata con il compromesso di Philadelphia si è, in realtà, trascinata dietro quella malformazione congenita (o “birth defect”, come l’ha di recente definito Condoleezza Rice, personaggio sicuramente non sospettabile di qualsivoglia simpatia a sinistra) fino, in pratica, allo scorso 4 di novembre, quando l’elezione di Obama ha, per così dire, rotto il maleficio. E ben noto è quali siano state, lungo questi due secoli abbondanti, le evoluzioni della malattia. Tra il 1861 ed il 1865 fu necessaria una sanguinosa guerra civile tra gli Stati del nord (dove l’incedere della rivoluzione industriale aveva reso obsoleta ed economicamente controproducente la schiavitù) e quelli del Sud, per raggiungere, a ferro e fuoco, l’abolizione della “peculiare istituzione”, ma non il germe maligno della discriminazione razziale – o della “disumanizzazione” dell’altro – che, settant’anni innanzi, il compromesso costituzionale aveva iniettato delle vene della nuova nazione. Poco prima dello scoppio della guerra civile, nel 1857, una sentenza della Corte Suprema – quella passata alla Storia sotto il titolo “Dred Scott v. Sanford” – aveva stabilito che gli “individui” di origine africana, quale che fosse il loro status giuridico (ovvero fossero liberi o schiavi) non potevano, in alcun modo, diventare cittadini o reclamare, presso una corte di giustizia, qualsivoglia diritto. Insomma: i neri, anche se affrancati dalla schiavitù, restavano comunque, per la legge americana, “altre persone”, cose, animali, non entità.
Quella sentenza – oggi ricordata come una delle più nere pagine della Storia americana – fu tra le cause che accelerarono i tempi della Guerra Civile. Ma i suoi principi sarebbero rimasti, se non legalmente, certo praticamente validi per molti decenni dopo che, nel 1865, quella medesima guerra s’era chiusa con la sconfitta degli Stati della Confederazione. E molti decenni dopo, anche, che il tredicesimo ed il quattordicesimo emendamento della Costituzione avevano abolito la schiavitù e sancito – in quella che molti storici chiamano la “seconda rivoluzione americana” – l’eguaglianza di tutti gli uomini, a prescindere dalla razza, di fronte alla legge.
Parafrasando George Orwell: tutti gli uomini erano, dopo la cancellazione della “peculiar institution”, davvero uguali; ma alcuni rimanevano – in virtù del colore della pelle e delle dimensioni del loro accesso alla proprietà, vera fonte di libertà – meno (molto meno) eguali degli altri. Tanto “meno eguali”, in effetti, che, per molti anni, anzi, per un intero secolo, negli Stati dove la guerra aveva abolito la schiavitù non poterono né esercitare il diritto al voto (perché le autorità bianche rifiutavano, o ponevano insormontabili ostacoli alla loro registrazione) né frequentare gli stessi luoghi che frequentavano i bianchi, si trattasse di mezzi di trasporto, di bagni pubblici, di parchi o di bar. La “Plessy v. Ferguson”, un’altra celebre sentenza della Corte Suprema – ed anche un’altra delle grandi macchie nella storia di “the Land of the Free”, la terra degli uomini liberi – risale al 1896, 31 anni dopo l’abolizione della schiavitù. E sancisce legalmente il principio del “separate but equal “, separati ma eguali, che fu, fino alla grande stagione della battaglia per i diritti civili – vale a dire fino al 2 luglio del 1964, quando Lyndon Johnson firmò il Civil Rights Act – la base della segregazione razziale in tutti gli Stati del Sud.
L’America del “razzismo istuzionalizzato” era, quel giorno, arrivata al suo capolinea. Ma il razzismo continuava, senza soste, la sua corsa. E, correndo, restava – più che mai, per molti aspetti – una imprescindibile componente della politica americana. Non occorre tornare molto indietro nel tempo per averne la prova. Basta, anzi, ripercorrere le cronache di appena qualche mese fa, per ritrovarne inequivocabili tracce nelle parole (esposte in codice, ma chiarissime) di un ex presidente che, pure, era stato – e con molte buone ragioni – forse il più amato dagli afro-americani. Era il 6 marzo del 2008. Ed il primo “Super-Tuesday” s’era appena concluso. Fu quel giorno, ancora all’inizio della battaglia per la nomination democratica, che Bill Clinton, commentando la vittoria di Obama su Hillary in South Carolina, rammentò – con studiata nonchalance- come anche Jesse Jackson avesse vinto, nel 1988, in quello stato dove i neri sono parte essenziale della base elettorale democratica.Traduzione di questa, apparentemente innocente, annotazione storica: ricordatevi che un negro non può vincere le elezioni presidenziali. O meglio: ricordatevi che cosa, in termini pratici, significa quella che il politichese fino a ieri usava chiamare la “southern strategy”, la strategia del sud. In soldoni: se un candidato (repubblicano o democratico) vuole arrivare alla Casa Bianca, deve conquistare, almeno in parte, il voto del Sud. E, per conquistare il voto del sud deve, non solo essere bianco, ma deve anche, da bianco, saper offrire agli altri bianchi adeguate garanzie. Richard Nixon, che della “southern strategy” è il riconosciuto padre, vinse nel 1968 – l’anno fatale della ribellione contro la guerra in Vietnam, della rivolta dei ghetti e della morte violenta di Martin Luther King e di Bob Kennedy – perché riuscì ad unificare la “moral majority” (fu proprio lui, riprendendo parole del reverendo evangelista Jerry Falwell, a inventare questa espressione, poi tradotta in italiano come “maggioranza silenziosa”) attorno ad una politica di “legge e ordine” ed alla promessa (spesso solo implicita, ma sempre chiarissima) di porre un freno all’avanzata dei diritti civili. Ed è un fatto – come testimoniato da un molto recente studio di tre economisti della Harvard University, Alberto Alesina, Edward Gleaser e Bruce Sacerdote (già ne abbiamo scritto in un precedente articolo pubblicato da “Alternative”) – che proprio la “southern strategy” (ovvero, il razzismo) è stata, negli ultimi 40 anni, l’elemento unificante della politica repubblicana. O, più esattamente, il punto d’incontro tra una politica economica tesa, spesso sfacciatamente, a favorire le elite, ed un “populismo sociale”, la cosiddetta “values policy”, capace di interpretare i valori (Dio, Patria e Famiglia) dell’America più profonda (e, spesso, anche più povera).
Questa è la politica che ha dominato l’America negli ultimi quattro decenni. E non solo grazie a presidenti repubblicani. Molti ricorderanno come, nel marzo del 1992, nel pieno della campagna delle primarie (e di uno dei tanti scandali a sfondo sessuale che hanno accompagnato la sua carriera), il già menzionato Bill Clinton – che, pure, sarebbe poi diventato, dal punto di vista razziale, uno dei più illuminati presidenti della storia americana – tornò in tutta fretta nell’Arkansas, lo Stato di cui era governatore, per firmare (con un gesto che, in qualche misura, rammentò l’antica pratica dei linciaggi) il decreto di esecuzione di Ray Rector, un negro semi-deficiente, condannato cinque anni prima per l’omicidio di un poliziotto…
A tutto questo ha posto fine la vittoria di Barack Hussein Obama. E forse, anzi, certamente, a molto più di questo. Perché, per la peculiarità multirazziale della sua personale esperienza – non dimentichiamo che l’avventura politica del neopresidente è cominciata proprio con la pubblicazione di un’autobiografia – il suo trionfo sembra davvero sancire (come Hua Hsu, studioso della storia della civiltà americana, scrive sull’ultimo numero del mensile “The Atlantic”), la fine, demografica e politica, dell’ “America bianca”, il vero inizio, dopo tante false partenze, della nuova America plurirazziale e “post-razziale”. Ma quel che davvero rende storico il trionfo di Obama – o, per meglio dire, quello che esponenzialmente (e potenzialmente) ingigantisce la portata storica degli esiti delle elezioni dello scorso 4 novembre – è, per così dire, il sovrapporsi di almeno tre funerali. Quello, per l’appunto, dell’America bianca nata con il compromesso di Philadelphia. Quello della coalizione politica che, per molti decenni (con le sole parentesi di Carter e di Clinton) ha garantito il dominio repubblicano. E quello. Infine, del modello economico – o della forma di capitalismo – conosciuto come “liberismo”.
“Change”, cambiamento, è stato lo slogan che, lungo una campagna durata due anni, ha portato Barack Obama alla vittoria, sconfiggendo prima l’oliatissima macchina elettorale di Hillary Clinton e, poi, i resti di un partito repubblicano allo sbando, malamente abbarbicato all’immagine “eroica” di John McCain (o alle proprie logore certezze, esemplificate dalla quasi macchiettistica figura di Sarah Palin). Ma nessuno, nemmeno lo stesso Obama , avrebbe mai potuto immaginare quanto cambiamento – cambiamento già consumato e consumato con rivoluzionario impeto – il vincitore avrebbe incontrato oltre il traguardo della sua vittoria. Anzi: ancor prima di tagliare quel traguardo. Il regno del “libero mercato”, semplicemente, è defunto strada facendo. C’era – fino a soltanto qualche settimana fa, e ora non c’è più. È scomparso, svanito senza lasciare, di sé, neppure le ceneri, una tomba sulla quale i suoi più zelanti sostenitori (peraltro scomparsi anch’essi) potessero pregare o, come si dice, deporre un fiore. In che momento il liberismo sia morto, non è facile dire con cronometrica esattezza. Forse quando, a settembre, di fronte all’abisso aperto dal crollo della Lehman Brothers, il segretario al Tesoro, Henry Paulson ha lanciato a nome del governo – quello stesso governo che, nella versione reaganiana, era” il problema e non la soluzione” – un piano di salvataggio da 700 miliardi di dollari (il cosiddetto TARP, Troubled Assets Relief Program) destinato a preservare il sistema finanziario e gli ingranaggi del credito, entrambi devastati dalla crisi del “subprime”, da un sicuro collasso. O forse no. Forse la vera cerimonia funebre s’è svolta, dopo che il cadavere già era stato in tutta fretta sepolto altrove, durante l’ultima udienza congressuale – o, per meglio dire, durante l’ultima pubblica confessione – dell’ex capo della Federal Reserve, quell’Alan Greenspan che, del liberismo, era stato, per quasi un quarto di secolo, il riconosciuto oracolo. Come spiega quel che sta succedendo?, gli aveva chiesto, lo scorso 23 di ottobre, il deputato californiano Henry Waxman. Non me lo spiego, aveva – a suo modo onestamente – risposto Greenspan. Semplicemente: il principale dogma della mia fede – quello che vedeva un sistema finanziario capace di correggere se stesso spinto da un “naturale” istinto d’autoconservazione, non ha funzionato. E la casa è crollata. Questo ha detto, in sostanza, Alan Greenspan. E, nel dirlo, sembrava, come un fantasma, venire da un’altra epoca, finita solo da qualche ora, ma finita per sempre. E, per questo, già lontanissima, quasi impercettibile alla distanza…
Che cosa si appresta a fare, Barack Obama, di fronte a questa “rivoluzione” spontaneamente iniziata ben prima che il bastone del comando passasse nelle sue mani? La domanda resta, ovviamente, in attesa di una risposta. O meglio: cerca, senza trovarla, una risposta nell’analisi degli uomini che Barack Obama ha scelto per affrontare la crisi. Molti, osservando il team economico assemblato dal neopresidente, hanno, in queste settimane, parlato di “svolta centrista”. E certo è che “centristi” sono davvero – se valutati con il metro della politica tradizionale – gli economisti ai quali Obama ha affidato i posti chiave della nuova Amministrazione. Centristi, tutti altamente qualificati e, in diversa misura, tutti legati a quella specifica forma di centrismo economico conosciuta come “rubinomics”. Ovvero: tutti in qualche modo legati alle politiche elaborate e praticate da Robert Rubin, già gran capo (ieri un indiscusso titolo di merito, oggi una sorta di scheletro nell’armadio) d’una delle più gran di centrali finanziarie di Wall Street, la Goldman Sachs; e, tra il ’93 ed il ’98, indiscusso padre di quel prolungato “boom” economico clintoniano che, basato su tre semplici principi – responsabilità fiscale (bilancio in pareggio), libero commercio e deregulation finanziaria – oggi rammenta immagini fossilizzate giunte da altre ere geologiche. Tim Geithner, il segretario al Tesoro, viene dalla Federal Reserve. E condivide – sebbene un anno fa fosse stato tra coloro che con più forza avevano preannunciato l’Apocalisse – gran parte delle scelte che hanno marcato la gestione di Alan Greenspan. Lawrence Summers è l’uomo che, sostituito Rubin al Tesoro nel ’98 (quando quest’ultimo – altro scheletro nell’armadio – è passato alla guida del Citi Group), ha trattato con il Congresso a maggioranza repubblicana l’abolizione del Glass-Steagall Act del 1933, regalando alle banche (ed al sistema finanziario in genere) la libertà d’azione che i liberisti reclamavano (e che ha, infine, aperto le porte alla catastrofe)…E l’elenco potrebbe continuare, estendendosi anche al team di politica internazionale, dominato dalla figura della “grande nemica” Hillary Clinton, scelta per la poltrona di Segretario di Stato.
E tuttavia quella “centrista” di Obama non è affatto una svolta. Perché, in realtà, Obama “centrista” lo è da sempre. Lo è, perlomeno, nel senso che il suo “cambio” si è sempre basato, non sul conflitto, ma sulla conciliazione. E nel senso che la sua politica è sempre stata, nella sostanza, la ricerca di una nuova sintesi, o di un nuovo “punto di equilibrio” che, in quanto tale, non può che trovarsi al centro. Barack Obama ha sempre visto se stesso – fin da quando correva per un posto nel Senato dello Stato dell’Illinois -, come una sorta crocevia nel quale erano destinate ad incontrarsi idee diverse, riconoscendosi in un nuovo “senso comune”. E, come ogni crocevia, anche Obama ha, a suo modo, bisogno di una destra e di una sinistra. Nel discorso che quattro anni fa lo fece conoscere alla grande platea della politica, trasformandolo all’istante in un potenziale candidato alla presidenza – il “keynote adrress” che pronunciò nella convenzione democratica di Boston, chiamata confermare la nomination di John Kerry – Barack Obama così aveva spiegato se stesso e la sua politica: “I politologi amano spezzettare il nostro paese in Stati blu (quelli a maggioranza democratica n.d.r.) ed in Stati rossi (quelli a maggioranza repubblicana n.d.r.). Ma io ho da riferir loro una notizia. Anche negli Stati blu gli americani hanno timor di Dio, ed anche negli Stati rossi c’è chi non ama che gli agenti federali mettano il naso nelle nostre biblioteche. Noi ci divertiamo ad allenare i nostri bambini che giocano nelle Little League anche negli Stati blu e, ebbene sí, abbiamo amici gay anche negli Stati rossi. Vi sono, in America, patrioti che si oppongono alla guerra in Iraq e patrioti che l’appoggiano. Noi siamo un solo popolo che ha giurato fedeltà alle stelle e strisce, pronti, tutti noi, a difendere gli Stati Uniti d’America… “.
Barack Obama non è cambiato. Quella che è cambiata – e cambiata più di quanto fosse immaginabile – è l’America che oggi deve governare. Cambiata al punto da annullare – o da rendere irrilevanti – antiche differenze ideologiche. Oggi tutti sono, economicamente parlando, dei keynesiani convinti. Non perché abbiano cambiato idea, ma perché sono i fatti a dire come, al di là d’ogni ragionevole dubbio prima ancora che d’ogni ideologia, solo un intervento pubblico possa salvare l’economia dal disastro. Qualcuno, forse, ancora lo ricorda: nell’ultima concitata fase della contesa presidenziale, John McCain e Sarah Palin, s’erano aggrappati ad una frase – “è un bene distribuire la ricchezza” – che Obama aveva pronunciato nel corso di un colloquio informale con un personaggio divenuto all’istante un’effimera celebrità politica (il famoso Joe the Plumber, Joe l’idraulico). E questo per accusare il loro avversario democratico di velleità “socialiste”. Ebbene: i risultati elettorali dicono che proprio questo – ridistribuire la ricchezza – è quello che l’America chiede oggi al suo presidente. Non perché il socialismo – antico spauracchio della politica americana – abbia improvvisamente guadagnato popolarità, ma perché proprio di questo il paese ha bisogno per non precipitare nel baratro: di un nuovo modello di sviluppo più giusto e più funzionale. O di un “new New Deal”, come molti sostengono rievocando l’esperienza di Franklin Delano Roosevelt e le politiche che, dopo che le follie della Gilded Age e la tragedia della Grande Depressione, avevano di fatto creato la famosa “classe media” americana, il cuore della moderna democrazia americana oggi di nuovo umiliato dai catastrofici effetti della “libera finanza” e della diseguaglianza. Insomma: il classico “drappo rosso” che, solo qualche settimana fa, per spavetare l’America, John McCain e Sarah Palin avevano agitato di fronte all’elettorato, è oggi una riconosciuta, drammatica e quasi “apolitica” necessità. Ed a far paura all’America non è il “socialismo”, ma la depressione verso la quale il “libero mercato” sta, a passi da gigante, trascinando la nazione.
Il programma di Obama è, in questo quadro, semplicissimo e, al tempo stesso, indefinibile. Prendere gli uomini migliori a prescindere dalla collocazione politica, ascoltare le idee di tutti, praticarle e scegliere le migliori. La parola d’ordine è, come ai tempi di FDR, “pragmatismo”. Un pragmatismo capace di tradursi, come Roosevelt disse nel suo primo discorso alla nazione, nel febbraio del ’33, in una “audace e costante sperimentazione”. Un pragmatismo che, nella situazione data, potrebbe aprire la porta a cambiamenti d’una profondità (e di una storica rilevanza) fino a ieri inimmaginabili. O, al contrario, alla delusione d’una grande occasione mancata. E mancata ad altissimo costo. Pragmatici, dopotutto – volendo tornare, come si dice, a bomba – erano stati anche i cinquanta delegati che, nel 1787, riunitisi a Philadelphia, avevano deciso di salvaguardare, nella prima Costituzione liberale della storia dell’umanità, la “peculiare istituzione” della schiavitù e le numeriche alchimie raziial-elettorali che, nel 1800, regalarono la vittoria a Thomas Jefferson.
Sono da allora, passati esattamente 208 anni. Barack Obama, secondo “negro president” della storia degli Stati Uniti d’America, ha appena cominciato la sua corsa. Ed al mondo non resta che pragmaticamente attendere i pragmatici risultati delle sue pragmatiche scelte. Incrociando le dita.