Tutti, o quasi, danno per scontato che le prossime elezioni di mezzo termine, a novembre, si tradurranno in una debacle per i democratici e per Obama – Colpa del malessere che percorre il paese e di un’amministrazione che, pur avendo conseguito storici successi, sembra aver smarrito la propria immagine di forza del cambiamento – Ma alla fine proprio il catastrofismo delle previsioni potrebbe , per il partito del presidente, trasformari in un’arma vincente.
15 ottobre 2010
di Massimo Cavallini
Fosse un film, il titolo potrebbe essere “Obama d’autunno”. O “L’autunno di Obama”. O, a scelta, qualunque frase che contenga – con la dovuta evidenza ed in logica concatenazione – i termini “Obama” ed “autunno”. Perché, implacabile, il calendario ci dice che novembre – mese che, dell’autunno, è notoriamente il cuore ingiallito – va rapidamente approssimandosi oltre i bollori di un’estate non solo meteorologicamente caldissima. E, soprattutto, perché novembre è, anche, il mese di quelle elezioni di mezzo termine che, a detta d’una rilevante maggioranza di politologhi, sono destinate a segnare la fine d’una nuova stagione politica – quella che, due anni fa, molti chiamarono la “primavera di Obama” – mai, in effetti, uscita dalla sua infanzia. O, più precisamente, a marcare la sua ufficiale sepoltura, visto che – per restare in metafora – quella fioritura di speranza e d’entusiasmo già era giunta visibilmente appassita, nel 2009, all’incontro con la sua prima e penultima estate. Ei fu, insomma. E neppure vale la pena, a questo punto, manzonianamente scomodare i posteri per chieder loro se la sua (di Obama) fu “vera gloria”.
Ma davvero stanno così le cose? Davvero l’ “obamismo” – qualunque sia il significato che a questo termine si voglia attribuire – già ha esaurito (ci si passi questa reminiscenza berlingueriana) la sua “spinta propulsiva”? E davvero ciò che attende Obama e i democratici a novembre è, ormai, soltanto una sorta d’apocalisse elettorale? Le cifre dei sondaggi sembrano, in effetti, predire il peggio. Quello con le elezioni di mezzo termine è tradizionalmente, per il partito del presidente, un appuntamento problematico. La regola prevede, in situazioni di politica normalità, perdite più o meno consistenti. Ed oggi gli umori dell’elettorato non sono affatto “normali”. Sono piuttosto, per usare un eufemismo, tenebrosi. O, per meglio dire, tenebrosamente antigovernativi. Tanto che due mesi – quanti oggi grossomodo ne mancano all’appuntamento con il “midterm” – sembrano davvero pochi per spegnere furori che sono, in realtà, il riflesso di ferite profonde e tutt’altro che rimarginate. Una recentissima inchiesta Pew, ha offerto il quadro dei danni che una recessione soltanto statisticamente superata ha fin qui inferto alla società americana: negli ultimi 30 mesi, più di metà dei lavoratori è stato licenziato, o continua a vivere sotto la minaccia d’un possibile licenziamento che lo ha, in molti casi, costretto ad accettare tagli di salario, o/e di ore di lavoro. Una crescente fetta (il 45 per cento) dei disoccupati (la cui quantità complessiva resta molto prossima al 10 per cento) è senza lavoro da più di sei mesi e senza alcuna prospettiva di trovare impiego a breve termine. La caduta dei valori immobiliari e di borsa ha distrutto più di un quinto della ricchezza del famoso “americano medio”. Il 20 per cento dei proprietari di casa è in ritardo con il pagamento dei mutui. Il 60 per cento ha ridotto o cancellato del tutto le vacanze…
È in questi devastati panorami che, a novembre, gli elettori dovranno rinnovare l’intera House of Representatives e poco più d’un terzo degli scranni senatoriali. E se in quest’ultimo caso – quello del Senato – abbastanza improbabile appare un “ribaltone” (per riconquistare la maggioranza, i repubblicani dovrebbero, in pratica, assicurarsi tutte le otto, o giù di lì, corse incerte), non altrettanto si può dire della Camera. I numeri dicono che, dei 435 seggi in palio, 168 sono solidamente in mani democratiche e 163 in mani repubblicane, con ben 104 corse “aperte”. Più che sufficienti, a conti fatti, per ribaltare – in un contesto politico ampiamente dominato dalla “rabbia antigovernativa” di cui sopra – l’ampia maggioranza (257 a 178) di cui oggi godono i democratici.
Questo dicono i numeri. E proprio questo, il peggio (o quasi il peggio), è quanto lo stesso portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs – uno che, pure, è pagato per essere ottimista – ha senza mezzi termini profetizzato, un mesetto fa, nel corso di un talk show televisivo. “Esiste la possibilità – ha detto – che i democratici perdano la maggioranza nella Camera dei Rappresentanti…”. Predire la propria sconfitta è notoriamente, in politica, una sorta d’esplosiva eresia, anche quando – come nel caso di Gibbs – altro in effetti non è che una sottolineatura dell’ovvio. E, prevedibilmente, proprio come un’esplosiva eresia (o come una gaffe dettata dalla disperazione) è stata accolta nell’arena della politica. I democratici – che già versavano in uno stato di piuttosto depresso umore – le hanno ovviamente gradite quanto si può gradire un epitaffio pre-mortem. I repubblicani le hanno altrettanto ovviamente usate per alimentare lo stato di frenesia vendicatrice(contro “l’anti-America” di Obama) con il quale vanno molto marzialmente (anche se non del tutto compattamente) marciando verso l’appuntamento di novembre. Ed i commentatori politici le hanno sistematicamente riprodotte, in un cupo ritornello sempre più simile alle tetre cadenze dei cori che scandiscono le tragedie d’Eschilo – nelle loro analisi della prossima disfatta obamiana. I democratici – sostengono i più – potrebbero perdere non solo (fatto dato ormai praticamente per scontato) la maggioranza dei seggi nella House of Representatives, ma anche quella al Senato. E, come se ciò non bastasse, questa loro Waterloo congressuale (e presumibilmente pure statale, visto che si vota anche per eleggere i governatori in 38 stati) potrebbe essere accompagnata ed enfatizzata da una serie di simboliche e fragorose cadute. A cominciare da quella – da consumarsi nello Stato del Nevada – di Harry Reid, oggi capo della maggioranza democratica al Senato…
Tanto tenebrosi si sono fatti gli orizzonti per i democratici (e per Obama, i cui indici di gradimento sono oggi del 45 per cento) che, di recente, qualcuno ha cominciato ad avanzare un sospetto. Ovvero: ad ipotizzare che l’uscita di Gibbs fosse in realtà stata, non una gaffe, come appariva, ma la punta d’iceberg d’una disperatamente lucida strategia politica, artatamente tesa ad esaltare oltre misura le attese dell’avversario. E non si tratta d’un paradosso. Basta, infatti, osservare la sempre più eccitata frequenza con cui i commentatori di Fox News – la più conservatrice e “militante” delle reti televisive – vanno di questi tempi descrivendo i panorami post-elettorali, per comprendere come, a questo punto, qualunque vittoria che non fosse un autentico cataclisma politico, o una finale “resa dei conti” con l’avanzante bolscevismo obamiano, finirebbe per trasformarsi, in campo repubblicano, in una profonda delusione (e, per contro, in un trionfo dal lato dei democratici). “Fire Pelosi” (licenzia Nancy Pelosi, l’attuale e “super-liberal” presidentessa della Camera) è ormai diventato, per i repubblicani, un atto di fede. E dovesse, l’odiata Nancy, restare al suo posto – foss’anche con una risicatissima maggioranza e magari assieme, sulla sponda del Senato, al molto mansueto, ma altrettanto odiato Reid – diverrebbe, per loro, l’irridente simbolo d’una mancata apoteosi.
Come sarà dunque – e quanto male farà, dall’uno e dall’altro lato della barricata – la “immancabile” sconfitta democratica? Due scuole di pensiero si vanno, in attesa dei risultati, confrontando. La prima è quella che richiama il precedente del 1994. La seconda – più sofisticata e, a suo modo, più interessante – è quella che si rifà, invece, agli avvenimenti di “mezzo termine” del 1982. Quel che accadde nel 1994 è ancora relativamente vivo nella memoria. Regnante da due anni Bill Clinton, i repubblicani guadagnarono 52 seggi alla Camera ed otto seggi al Senato, riconquistando dopo 40 anni la maggioranza in entrambi i rami del Congresso. Diversa (e, per molti versi, opposta) la storia del 1982. Presidente era allora Ronald Reagan ed il paese era, come oggi, nel pieno d’una recessione accelerata ed approfondita proprio dalle nuove politiche liberiste del neoeletto presidente. Molti osservatori avevano pronosticato la conquista di almeno 50 seggi da parte dei democratici (che già avevano la maggioranza). Ma alla fine i seggi conquistati non furono che 26. E fu proprio questo mancato “cappotto” che, di fatto, aprì le porte a quel lungo e fondamentale periodo della recente storia americana che va sotto il nome di reaganismo.
Le cronache raccontano come Ronald Reagan fosse, allora, riuscito a limitare i danni ed a preparare una riscossa che, durata ben oltre i suoi due termini presidenziali, è poi diventata una sorta di stella polare per la destra americana. Fu proprio la gravità della situazione economica la sua arma d’assalto, il mezzo che gli consentì di mantenere, nelle settimane elettoralmente decisive, il centro della scena, usando quello che i politologi chiamano “the bully pulpit”, la forza del pulpito presidenziale. Potrà Barack Obama percorrere – sia pure in direzione opposta – la medesima strada? Riuscirà a cogliere l’opportunità della crisi – e di una sconfitta ancora tutta da misurare, ma comunque inevitabile – per ridefinire un progetto politico, quella “speranza possibile” i cui contorni si sono andati tanto rapidamente slabbrando in questi due primi anni di vita?
Il senso vero di queste elezioni mezzo termine è, in fondo, tutto racchiuso proprio in questo quesito. Nel 2008, durante i lunghi mesi del suo logorante confronto con Hillary Clinton, Barack Obama aveva scandalizzato l’establishment e buona parte della base democratica sottolineando la natura “transformational” – trasformativa o, se vogliamo, rivoluzionaria – della presidenza Reagan, da lui contrapposta a quella, positiva, ma non trasformativa di Bill Clinton. Un paragone il cui senso era – al di là delle rettifiche e delle smentite che ritualmente seguirono quell’affermazione – assolutamente chiaro. Reagan aveva, a suo tempo, cambiato l’America. Clinton si era, invece, fatto cambiare dall’America che Reagan aveva cambiato. Obama aveva ragione. Bill Clinton superò la catastrofica sconfitta subita nel 1994 cooptando la politica dell’avversario e battendolo – con mossa politicamente geniale, ma opposta a qualunque logica riformista – sul suo stesso terreno (storica la frase con cui, subito dopo la disfatta elettorale, Clinton aprì il suo discorso sullo Stato dell’Unione: “The time of big government is over”. Il tempo del grande governo è finito). Reagan superò le difficoltà del mezzo termine approfondendo, al contrario, il suo progetto politico. Ed Obama ha, a sua volta, conquistato la presidenza nel mezzo d’una crisi epocale che, innescata dagli eccessi della deregulation finanziaria, a suo modo ha segnato il culmine catastrofico e la fine proprio del progetto politico reaganiano. Saprà, in queste circostanze, il nuovo presidente, ritrovare e rilanciare la sostanza – se questa sostanza è mai davvero esistita – del suo messaggio di trasformazione?
La storia di questi due ultimi ed ancor indecifrabili anni corre, in effetti, lungo il filo d’un ovvio paradosso. Anzi: di due ovvi paradossi. Se valutato in termini di “cose fatte”, il carniere di Barack Obama appare ricolmo di molto rilevanti successi. E – sia pur con alcune significative eccezioni (Guantánamo, tortura, sicurezza e molti aspetti della politica estera) – il suo contenuto corrisponde alle cose promesse nel corso della straordinaria campagna elettorale del 2008. Obama ha regalato agli americani quella riforma sanitaria che ben cinque presidenti avevano, prima di lui, cercato invano di realizzare. Obama ha imposto, contro i venti e le maree di potentissime lobby, una riforma finanziaria che limita gli strapoteri delle forze che hanno trascinato l’America ed il mondo nel baratro d’una crisi dalla quale ancora non hanno cominciato ad uscire. Obama ha fatto molte cose. E, dovesse la sua politica essere giudicata, come il bilancio di un’impresa, in termini di entrate e di uscite, presenterebbe conti indiscutibilmente positivi. Questo avevo detto che avrei fatto e questo ho fatto. Ma il problema è che, nel fare quel che ha fatto, Obama è sembrato perdere per strada le ragioni, il senso di quello che andava facendo o, per tornare a bomba, il significato “trasformativo” della sua presidenza. Le riforme di Obama dovevano essere il riflesso d’una “nuova maggioranza”, o di una nuova volontà politica maggioritaria nel paese. Sono invece passate dopo un’estenuante e spesso incomprensibile battaglia congressuale che le ha trasfigurate in simboli dello status quo politico, in fonti di debolezza e non, come la logica vorrebbe, di forza, nella battaglia per la conquista dei cuori e delle menti degli americani. Per dirla con il premio Nobel per l’Economia, Paul Krugman: Obama ha preteso di costruire la sua nuova maggioranza, continuando, nel nome d’un piuttosto asfittico e centrista concetto della “bipartisaship”, a cercare amore nel posto sbagliato. Con l’unico risultato di perdere molti dei suoi più fidati amici e di demoralizzare la sua base politica, ridando vita a nemici il cui “deprofundis” molti commentatori già avevano cantato (nella primavera del 2008 una copertina di Newsweek aveva definito i repubblicani “una specie in via d’estinzione”).
E qui viene il secondo grande paradosso del prossimo appuntamento elettorale. I repubblicani hanno trovato nel “no” a qualsivoglia politica di Obama, un inatteso ricostituente dopo la batosta del 2008. E si preparano ora ad una vittoria che già hanno definito storica. Ma il loro stato di salute appare, per molti aspetti, molto peggiore di quella del partito che si apprestano a sconfiggere. Nel 1994 il partito repubblicano era una forza compatta e motivata, guidata da un leader (l’allora capo della minoranza alla Camera, Newt Gingrich) e da una proposta politica – quella contenuta nel cosiddetto “contratto con l’America” (la stessa che Bill Clinton avrebbe poi fatto propria smussandone gli angoli più estremisticamente acuti) ovviamente discutibile (o semplicemente sbagliata), ma sicuramente fatta di idee (e proprio così, il “partito delle idee”, i repubblicani amavano, allora, definire se stessi). Il partito repubblicano di oggi è, invece, a dispetto dei preannunciati trionfi, una barca alla deriva, sospinta dai venti d’una rabbia popolare che non controlla e che, in effetti, non rappresenta. I suoi dirigenti congressuali, John Boehner e Mitch McConnell, non sono, in questo quadro, che marginali personaggi d’uno scontro politico che, a destra, vede l’assoluta preminenza d’un difficilmente inquadrabile movimento di base – il Tea Party, magmatico assemblaggio di tutte le tendenze e di tutte le tentazioni reazionarie che, da sempre, percorrono la società americana –, di leader d’assai dubbia statura, come Sarah Palin (l’aggressiva ma evanescente e, a tratti, comica compagna di corsa di John McCain, oggi arbitra di molte delle primarie repubblicane), nonché di veri e propri ciarlatani televisivi, come Glenn Beck e Rush Limbaugh.
Per questo partito repubblicano, prigioniero dei suoi “no”, la più che probabile vittoria di novembre potrebbe avere l’effetto della chiamata d’un bluff. Quale effetto avrà invece, per i democratici di Obama, la prossima, “inevitabile”, sconfitta elettorale? È possibile che Obama, che oggi si appresta a “perdere perché ha vinto” (come di lui felicemente hanno scritto su “Politico” John F. Harris e Jim VandeHei), cominci, dopo novembre, a vincere perché a perso?
Chi può dirlo? Di certo il voto di novembre aprirà una fase politica completamente nuova nella vita politica americana. Chiamatela, se vi piace, l’Obama 2.0…