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Saturday, December 21, 2024
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Mitt, l’obamista deluso

You know there’s something wrong with the job he’s done as president if the best feeling you had is the day you voted for him…”.

È alquanto improbabile (anche se non del tutto impossibile) che quattro anni fa, nel proverbiale “segreto dell’urna”, Mitt Romney abbia votato per Barack Obama. Eppure è stato davvero così, come un elettore pentito del presidente in carica, che giovedì scorso s’è senza remore rivolto alla platea della convention repubblicana di Tampa Bay e, ancor più, all’America tutta. Per accorgersi che “c’è qualcosa che non va nel lavoro che ha svolto – ha sottolineato – basta guardarsi alle spalle e notare come il più bel ricordo resti oggi, quattro anni più tardi, quello del giorno in cui avete votato per lui”.

Questo ha detto Mitt Romney. E proprio questa, tra le molte frasi (più o meno ad effetto) che Mitt Romney ha pronunciato nel corso del suo “acceptance speech” va a tutti gli effetti considerata, non solo l’unica degna di restar impressa nella memoria, ma anche – dovesse davvero Romney vincere a novembre – l’unica in grado di spiegare le ragioni della sua vittoria. Barack Obama non ha mantenuto le promesse. Barack Obama ha deluso. E qui sta la ragione, l’unica vera, riconoscibile ragione per cui è oggi necessario votare per “l’altro”. Necessario e giusto, anche se l’altro non è, a conti fatti, che un “empty suit”, un vestito vuoto, una pagina bianca o – volendo usare uno dei termini entrati di prepotenza nel lessico di questa campagna elettorale – un candidato “etch-a-sketch”. Per la cronaca: l’ “etch-a-sketch” è un gioco per bambini, una tavoletta sulla quale si possono disegnare cose che poi si cancellano con una semplice scossa. E ad introdurla, quella tavoletta, come pietra di paragone nel dibattito presidenziale aveva mesi fa provveduto – in uno dei quei momenti di verità che, di norma, vengono da media qualificati come “gaffe” – uno dei più alti consiglieri di Romney, Eric Fehrnstrom, maldestramente annunciando quel che il candidato repubblicano avrebbe fatto una volta vinte le primarie:  cancellare ogni scarabocchio dipinto per soddisfare lo “zoccolo duro” del partito, e riguadagnare il centro dello schieramento politico . ”È un po’ come un ‘etch-a sketch’ – aveva detto Fehrnstrom nel corso di un’intervista televisiva -. Scuoti la tavoletta e si ricomincia da capo…”.

E da capo Romney ha in effetti ricominciato. L’ha fatto dopo aver concesso alla destra tutto quello che c’era da concedere (e per capire che cosa sia questo “tutto” basta leggere i programmi economici stilati dal vicepresidente prescelto, Paul Ryan; o, ancor più, la piattaforma politica, in alcuni suoi punti davvero terrificante, con la quale il Grand Old Party s’è presentato alla Convention).  Scossa la tavoletta, il candidato repubblicano ha, quindi, provveduto a ridisegnare se stesso nel più tranquillizzante dei modi: nascondendosi dietro l’avversario. O, più precisamente: sovrapponendo alla propria sfocata e gelatinosa immagine un caricaturale ma efficace ritratto di Obama, giustapposto ad un elenco dei fallimenti, anzi, delle “speranze tradite” dal presidente in carica. Tanta, in effetti, è stata la compunta tristezza con la quale l’oratore ha tracciato questo panorama di disillusione, che una persona di scarsa memoria – o chiunque non fosse al corrente del suo molto “fregoliano” passato e presente politico – avrebbe molto facilmente potuto convincersi che lo stesso Romney fosse tra coloro che, nel gelo del Grant Park di Chicago, la notte del 4 novembre del 2008 erano accorsi per ascoltare, piangendo di gioia, il “discorso della vittoria” di Barack Hussein Obama, primo presidente nero della storia d’America…Paradossi d’una Convention nella quale l’odio per Obama si respirava insieme all’aria condizionata che, senza badare a spese, proteggeva i partecipanti dagli umidi bollori dell’estate tropicale. O, se si preferisce, contrasti (solo apparentemente stravaganti) tra il disincanto d’un falso amore e la realtà d’un odio troppo impresentabile, nella sua assoluta ed estremistica autenticità, per esser parte “ufficiale” d’una campagna per la presidenza.

Il giorno dopo, in un editoriale, il New York Times ha – non senza eccellenti ragioni – accusato Romney di “riscrivere la storia” o, più specificamente, di nascondere, dietro una molto affettata (e tremendamente ipocrita) patina di tristezza – come americano, aveva detto Romney senza batter ciglio, “io avevo sperato che Obama avesse successo…” – la politica di puro ostruzionismo, quando non di autentico boicottaggio, con la quale i repubblicani hanno in questi quattro anni, risposto ad ogni mossa di Barack Obama. Non era stato forse il capo della minoranza repubblicana del Senato, Mitch McConnel (un “moderato”, sulla carta) a dire che il primo obiettivo del GOP era far sì che Obama fosse un “one term president”, un presidente con un solo mandato? E non erano stati i repubblicani della House of Representatives, un anno fa, a trasformare in una sorta d’apocalittico ricatto, il voto (da sempre routinario) per l’incremento del tetto del debito?

Tutto vero, naturalmente. Ma ancor più vero è che, proprio per la sua somma ipocrisia, il discorso d’accettazione di Willard Mitt Romney, ha finito per evidenziare i due punti essenziali, le vere chiavi d’un processo elettorale che, se ridotto alla sua sostanza, non è in fondo che questo: lo scontro la tra una forza politica (Barack Obama ed i democratici) che, in cerca del futuro, ha profondamente deluso, ed una forza politica (i repubblicani e la destra in genere) che, condannata dalla sua stessa politica, anzi, prigioniera della propria ideologica involuzione, non riesce, di fatto, che a guardare al passato.

Le ragioni per le quali Obama ha deluso – da Romney elencate con molto strumentale ma più che discreta puntualità – sono sotto gli occhi di tutti. E si riflettono in cifre che, stando alla politologia corrente (quella nata con i sondaggi d’opinione), parrebbe condannare a sicura e catastrofica sconfitta il presidente in carica. Con poche varianti, tutte le inchieste d’opinione rivelano come il 75 per cento degli elettori sia convinto che gli Stati Uniti ancora si trovino in piena recessione; come appena poco più del 30 per cento pensi che il Paese stia andando “nella giusta direzione”; e come soltanto il 35 per cento ritenga di star meglio oggi di quanto stesse quattro anni fa (e non per caso proprio questa, riecheggiando il Ronald Reagan del 1980, è stata la domanda che, nel suo discorso, Romney ha continuato a rivolgere alla platea vicina e, soprattutto, a quella lontana: “state meglio oggi, o stavate meglio quattro anni fa”?). Unico elemento di conforto per Obama: un buon indice (55 per cento o giù di lí) di “gradimento personale”, contrapposto un assai depresso 35 per cento di Romney)”.

Obama ha deluso non perché abbia fatto poco, o perché non sia riuscito ad uscire da una crisi economica che, a vari livelli, continua in tutto il mondo; ma perché, pur facendo molto, è andato perdendo ogni senso di direzione. E perché – riprendendo le parole grazie alle quali, quattro anni fa, sconfisse infine, dopo estenuanti primarie, la sua ferratissima rivale, Hillary Rodham Clinton – non è riuscito ad essere (o forse non ha voluto essere) il “transformational president” che aveva promesso di diventare una volta raggiunta la Casa Bianca. Vale a dire: il grande riformatore, il nuovo paradigma politico, l’equivalente, in campo democratico, di quello che Reagan era stato, negli anni 80, in campo repubblicano. Mitt Romney ed i suoi “speech writer” hanno, non vi è dubbio alcuno, colto nel segno. Il più emozionate ricordo della presidenza Obama, resta ancor oggi, quattro anni più tardi, quello del giorno della sua vittoria. Il resto sono state mezze misure, balbettii, fragili ricerche di impossibili compromessi, mediocri adeguamenti ad uno status quo (vedi Guantánamo) che aveva promesso di cambiare…

E i repubblicani? I repubblicani sembrano, invece, perduti in una “capsula del tempo”, fermi in paese che cambia, anchilosato partito di maschi bianchi ed arrabbiati in un paese che, sebbene certamente arrabbiato, è sempre meno maschio e meno bianco. Un partito forse vincente, nell’immediato, sull’onda del malessere generato da una crisi che sembra non aver fondo, ma “demograficamente”, storicamente condannato alla sconfitta. Se le cifre che condannano Obama sono quelle dell’insoddisfazione per l’andamento dell’economia – da sempre decisive – quelle che condannano Romney ed il Grand Old Party sono quelle che vedono precipitare il consenso repubblicano tra le donne, gli ispani e, in genere, tra tutte le minoranze. “In questo paese – ha malinconicamente ammesso di recente Lindsay Graham, senatore repubblicano del South Carolina – non nascono abbastanza bianchi, maschi e rabbiosi, per garantire la sopravvivenza del partito…”.

E proprio questo è quello che l ‘ “etch-a-sketch” di Mitt Romney tende a nascondere. Paul Ryan, il deputato del Wisconsin che Romney ha infine scelto come running-mate è il partito. Lo è nel suo “piano” per la riduzione del deficit – quello intitolato “The Path to Prosperity” che, numeri alla mano,  è stato da non pochi economisti definito “una frode” – il cui senso si può così riassumere: massacrare lo stato sociale (dalla “rabbia bianca” storicamente visto come una concessione alle minoranze, quella nera in particolare), diminuire le tasse ai ricchi. Ed il tutto, non per ridurre, ma per aumentare il deficit pubblico. Mitt Romney, il candidato ufficiale è invece soltanto “l’altro”. Un’ombra, un “placeholder” del quale solo questo si sa: che è un uomo pratico e generoso (la Convention ha fatto uno sforzo per lustrare la sua immagine di abile businessman e di buon padre di famiglia) che ha un piano per creare 12 milioni di posti di lavoro (nessun dettaglio sul “come”). E, soprattutto, un uomo (bianco e maschio, ovviamente, ma apparentemente non rabbioso) che non è Obama.

Basterà per vincere a novembre? Forse sì. O forse no. Più probabilmente no, a giudicare da comportamento di molti degli oratori chiave della Convention. Chris Christie, il corpulento governatore del New Jersey al quale è stato affidato il “keynote address”, ha parlato soprattutto di se stesso. Ed altrettanto ha fatto Marco Rubio, il giovane senatore cubano-americano al quale è toccato presentare ufficialmente il candidato repubblicano. Tutti sembravano pensare assai più al 2016 che al prossimo novembre.

A che cosa pensasse, invece, Clint Eastwood – il Clint Eastwood di ‘dirty Harry”, l’unico che abbia qualche affinità con questo partito repubblicano – non è facile immaginare. A lungo annunciato come la “sorpresa” della Convention, il suo dialogo con una sedia vuota – sulla quale sedeva un invisibile e piccatissimo Barack Obama, molto reticente a rispondere alle domande dell’attore-regista – è stato certo il più surrealmente patetico (o pateticamente surreale) dei momenti della Convention. E proprio per questo anche, di gran lunga il più memorabile. “Romney outstaged by an empty chair”, Romney messo in ombra da una sedia vuota, recitava il giorno dopo il titolo di un quotidiano.

Vuoto, cancella vuoto. Potrebbe essere questo il vero preludio del voto di novembre.

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