21 luglio 2010
di Massimo Cavallini
Obama primo presidente nero d’America? Macché. Quello, anzi, quella che è entrata alla Casa Bianca nel gennaio del 2009 è in effetti – a dispetto d’ogni superficiale impressione cromatica – la prima (bianca o nera poco importa) donna presidente degli Stati Uniti d’America. A sostenerlo, in una delle sue “column” settimanalmente pubblicate dal Washington Post, è stata la politologa Kathleen Parker, nota per esser stata, a suo tempo, parte dell’entourage di Ronald Reagan e, più recentemente, per aver spiegato ai suoi colleghi conservatori quanto poco intelligente fosse affidare all’intelligenza di Sarah Palin i destini della campagna presidenziale di John McCain.
Il giudizio della Parker è, ovviamente, squisitamente politico, nonché – ancor più ovviamente – scevro d’ogni (greve o sottile che sia) considerazione di natura biologico-anatomica. Ed oltretutto vanta – come la stessa Parker rammenta nelle primissime righe del suo commento – un molto altolocato precedente: quello che, nel pieno del “sexgate”, quando lo scorso millennio volgeva ormai al tramonto, portò Toni Morrison, afro-americana e premio Nobel per la letteratura nel 1992, a definire, con analogo paradosso, il molto pallido Bill Clinton “primo presidente nero degli Stati Uniti”. Del tutto evidente appare tuttavia, a dispetto di tale contesto, il fatto che proprio questa sia, in ultima analisi, la vera, essenziale verità che l’articolo pretende di rivelare. Per dirla in termini lessicalmente familiari nella più estrema periferia dell’Impero: il presidente Barack Hussein Obama non ha né gli “attributi” che a suo tempo pubblicamente vantò Bettino Craxi, né “ce l’ha duro” come l’Umberto Bossi. Insomma (come certo non avrebbe esitato a scrivere un’altra celebre italiana, Oriana Fallaci): Obama non ha ”le palle”.
Per quale motivo – pur senza far ricorso alle esplicite metafore testicolari tanto care alla nostra Oriana – Kathleen Parker dice questo dell’attuale presidente? Lo fa perché, nonostante il suo esser donna, comparte evidentemente in toto quella visione “viril-eroica” del “commander in chief” che ha fin qui impedito a qualsivolgia creatura di sesso femminile – come già da oltre mezzo secolo accade anche in paesi non propriamente noti per il proprio femminismo, quali il Pakistan – d’entrare come “number one” alla Casa Bianca. La Parker s’affretta naturalmente a precisare di non ritenere che “fare le cose in modo femminile” sia, in sé, “una mancanza”. Ed aggiunge che, al contrario, considera la “femminilità” di Obama, non un difetto, ma un “evolutionary achievement”, il risultato d’una evoluzione. Il che però non le impedisce, giunta al nocciolo della questione, di ribadire, in materia di politica, il più maschilista dei concetti. Le donne – sottolinea la Parker – avranno anche le loro virtù. E, forse, la somma di queste virtù è, in termini puramente aritmetici, molto superiore a quella dei maschi. Ma quando si tratta di vere scelte politiche è d’obbligo indossare i pantaloni ed avere, al di sotto dei medesimi, tutti gli attributi e tutte le durezze necessarie. Perché, sostiene la Parker, “…noi (noi gli americani n.d.r.) continuiamo ad avere aspettative d’ordine culturale, specialmente quando si tratta di leadership…”.
Bill Clinton doveva, secondo Toni Morrison, esser considerato il primo presidente nero d’America, perché, dei neri, si portava addosso molti dei tratti sui quali l’America bianca ha, nel corso della storia, costruito i suoi pregiudizi: “…nato povero in canna, figlio d’una donna non sposata, un ragazzo dell’Arkansas amante del saxofono e dello junk food…”. Obama è invece femmina, spiega ora la Parker, perché delle femmine manifesta il modo di comunicare e di agire. Ovvero: perché preferisce il compromesso alla battaglia, il dialogo all’azione. E perché, a dispetto d’una riconosciuta eloquenza, i suoi discorsi soffrono d’una cronica insufficienza di “testosterone retorico”. Come molto chiaramente dimostrato, sostiene la “columnist”, dal fatto che, nel suo ultimo messaggio alla Nazione (quello dedicato, dopo 56 giorni d’incertezze, alla crisi del Golfo) nel 13 per cento dei casi Obama ha fatto uso – cosa che per non ben precisate ragioni la Parker ritiene molto femminea – della forma passiva del verbo…
Che la leadership di Obama abbia – sul piano della percezione, più che su quello dei fatti – mostrato più d’un limite nel corso dell’ancor irrisolta tragedia seguita all’esplosione della piattaforma petrolifera Deep Horizon, è certamente un dato di fatto. E – sebbene arduo sia capire quanto, in effetti, questi limiti si debbano al testosterone (mancanza di) o ai verbi passivi (eccesso di) – alla Parker va comunque riconosciuto il merito d’aver risollevato un tema – quello della “mascolinità” della politica Usa – che periodicamente riemergente, continua a rivelare curiose (e molto americane) contraddizioni. Qualche esempio al volo. Durante la campagna presidenziale del 1988, una crisi di pianto (accadde durante la conferenza stampa nella quale annunciava il suo ritiro dalla corsa per mancanza di fondi) chiuse per sempre la molto promettente carriera della congressista del Nevada, Patricia Schroeder, rivelatasi, attraverso quelle lacrime, troppo donna per affrontare le maschie incombenze, non solo della presidenza alla quale aspirava, ma, più in generale, della vita politica. Eppure fu proprio un presidente ricordato (soprattutto a destra) come forse il più “maschiamente macho” della storia americana, Ronald Reagan, a trasformare in arte della comunicazione (non per nulla viene celebrato come “Il Grande Comunicatore”) un reiterato e molto pubblico uso del pianto.
Reagan piangeva, ma aveva le palle. Pat Schroeder piangeva perché non le aveva. E Obama non le ha perché non piange. Difficile raccapezzarsi. Di certo le considerazioni di Kathleen Parker non sono nuovissime. E curioso è, a questo proposito ricordare come l’accusa d’assenza di “testosterone retorico”, di mancanza leadership, e di organica penuria d’attributi vari, fosse con molto insistenza arrivata, durante l’ultima campagna presidenziale, proprio da quella che voleva diventare (e con molto buone probabilità di successo) la prima presidente donna degli Stati Uniti d’America. Hillary Clinton, ovviamente, non definì “femmina” Barack Obama, ma sottolineò, nel rivale per la nomination democratica, gli stessi femminei difetti che oggi mette in rilievo Kathleen Parker. Celebre è rimasto lo spot televisivo, passato alla storia come quello della “three in the morning call”, nel quale una voce fuoricampo drammaticamente si chiedeva chi l’America desiderasse alla Casa Bianca nel momento in cui fosse arrivata la “telefonata alle tre del mattino” di cui sopra. Che cosa quella telefonata annunciasse era lasciato alla fantasia del pubblico. Ma certo era proprio in base ai contenuti di quell’annuncio nel cuore della notte che il pubblico era chiamato a scegliere tra il testosterone di Hillary e la compassata, molto femminile attitudine conciliatoria con la quale Obama mostrava d’affrontare ogni controversia politica.
Dettaglio significativo. Hillary venne, in quell’occasione, attaccata da entrambi i lati. Da destra, perché faceva metaforica ma ostentata mostra di attributi che – per volontà d’un Dio che ha concepito un mondo rigorosamente diviso in maschi e femmine – le erano stati negati. Da sinistra, perché proprio un eccesso di attributi (anche se di attributi perlopiù millantati, come nel caso di George W. Bush), aveva portato il paese nel tunnel di due guerre senza soluzione…
Morale della storia? Nessuna. Kathleen Parker conclude il suo paradossale articolo con un altro paradosso. Obama, afferma, “potrebbe essere il primo presidente americano a pagare un prezzo per aver agito come una donna”. E proprio questo, aggiunge, potrebbe, tra due anni, aprire le porte della presidenza alla prima donna. Una donna, ovviamente, con le palle.
E sarà in quel momento, probabilmente, che la femminilità di Obama comincerà a diventare oggetto d’una struggente nostalgia….