Giusto tre giorni fa aveva compiuto cinque anni: un’età che, per un’inchiesta giudiziaria, si può considerare già al di là della vecchiaia. Ma, come il Dorian Gray di Oscar Wilde, il Lava Jato brasiliano continua imperterrito (e senza il maleficio del ritratto nascosto in soffitta) a sfidare il tempo. E a colpire mirando in alto. Molto in alto. La sua ultima vittima: Michel Temer (per l’anagrafe Miguel Michel Elias Temer Lulia), l’ex presidente della Repubblica e capo del governo che, entrato a Planalto nell’agosto del 2016 dopo l’impeachment di Dilma Rousseff, è stato appena tre mesi fa rimpiazzato dall’inquietante Jair Bolsonaro, un baldanzoso ex-militare che della passata e pluriventennale dittatura (1964-1985) è un simpatizzante molto critico (critico perché ritiene che la vecchia giunta militare sia stata troppo moderata in termini di assassinii e violenze).
Michel Temer è da tempo accusato – in virtù soprattutto della testimonianza d’un altro imputato, José Antunes Sobrinho, proprietario dell’impresa Egenvix – di avere ricevuto tangenti milionarie nella costruzione d’una centrale nucleare nei dintorni di Rio de Janeiro, nonché in altre gigantesche opere di costruzione nel porto di Santos. E già in passato aveva – per due volte consecutive – evitato l’arresto grazie all’immunità parlamentare, puntualmente e alquanto scandalosamente confermata dal voto di un Parlamento amico.
Sicché ieri il suo arresto è stato, dati i “quarti di nobiltà” del personaggio, un clamoroso evento. Clamoroso, ma tutt’altro che inatteso. Dal primo gennaio – passata la banda presidenziale a Bolsonaro e non rieletto deputato – Temer era per così dire un cittadino qualunque. E assai probabile è che, come tale, già da tempo avesse pronta la valigia per raggiungere gli altri imputati del Lava Jato (ramo Rio de Janeiro) nelle carceri abbastanza confortevoli della Sovrintendenza della polizia federale della città del “fiume di gennaio”. Carceri nelle quali, si dice, presto lo raggiungeranno almeno un paio di ministri-chiave del suo governo.
Assai utile è a questo punto fare – come si usava nei vecchi sceneggiati televisivi – un “breve riassunto delle precedenti puntate”. Tutto era cominciato nel marzo del 2014, in quel di Curitiba, nel “profondo sud” dello Stato di Paranà, con un’indagine apparentemente insignificante su irregolarità amministrative in un lavaggio d’auto (di qui il nome dell’inchiesta) annesso a una stazione di servizio di Petrobras, l’onnipotente ente petrolifero di Stato. Un nulla o poco più, in termini di cronache giudiziarie. Diciamo, da un punto di vista giornalistico, un titolo (basso) a una colonna nelle pagine dei giornali locali. Dopo appena pochi mesi, tuttavia, quella colonnina era diventata, nelle mani del giudice Sergio Moro, un mastodontico monumento alla corruzione, un incendiario e inarrestabile atto d’accusa, non solo contro l’intera classe politica, ma contro le mura maestre del sistema economico brasiliano.
E non solo brasiliano. In quella sperduta stazione di servizio è infine entrato, in un devastante effetto domino, un intero continente, con liste “eccellenti” di presidenti, ex presidenti e vicepresidenti. Per la cronaca: tre in Brasile (Lula, Temer e Color de Mello), quattro in Perù (Pedro Paolo Kuczynski, Ollanta Umala, Alejandro Toledo e Alan García), Juan Manuel Santos in Colombia, Mauricio Funes nel Salvador, Jorge Glas in Ecuador, Nicolás Maduro in Venezuela. Tutti accompagnati – nel vortice di tangenti che girava attorno alle due più grandi imprese brasiliane, Petrobras e Odebrecht – da un codazzo di segretari e dirigenti di partito e parlamentari, poderosi manager d’impresa.
E la storia continua. L’arresto di Temer, ieri, ha ovviamente smentito – quasi ve ne fosse bisogno – una teoria cara alla parte più pigra e opportunista della sinistra brasiliana (e non solo brasiliana): quella secondo la quale l’intero Lava Jato altro non sarebbe che un complotto politico teso a mettere fuori gioco Lula da Silva e il suo Partido dos Trabalhadores. Teoria, questa, a detta dei suoi creatori confermata dal modo frettoloso e sospetto con il quale il giudice Sergio Moro ha di recente accettato l’incarico di ministro della Giustizia al servizio d’un presidente, Jair Bolsonaro, legittimamente considerato un pericolo per la democrazia.
Le cose non stanno ovviamente così (anche se in effetti, accettando d’entrare nel governo, Moro ha per così dire perduto gran parte della sua originale “verginità”). Alcuni distinguo sono però più che opportuni. Nessuno può salvare Lula da Silva dalla responsabilità politica d’avere prima accettato nel nome della “governabilità” e poi assorbito e digerito il sistema di corruzione che il Lava Jato ha portato allo scoperto. Ma è un fatto che più vanno delineandosi le titaniche dimensioni di questo sistema di corruzione, più i crimini personalmente attribuiti all’uomo che ha guidato il Brasile lungo forse il più prospero decennio della sua storia – storie di appartamenti dei quali mai ha avuto la proprietà – appaiono gocce sperdute nell’oceano, minuscoli schizzi in un mare di fango. E lo stesso vale – anzi, vale ancor di più – per Dilma Rousseff, umiliata da un impeachment (per “non-reati” che nulla avevano a che vedere col Lava Jato) architettato proprio da chi, come Michel Temer ed Eduardo Cunha (ex presidente della Camera) nel Lava Jato erano dentro fino al collo.
La storia continua. Ed è difficile dire quello che la Storia racconterà di Lula, quando (e non si sa quando) diventerà Storia con la “S” maiuscola. Personalmente sono convinto che, soppesato il tutto, nei confronti dell’ex operaio tornitore di São Bernardo do Campo sarà molto più generosa di quanto non siano le cronache di questi giorni. O, di certo, molto più generosa di quanto non sarà con Temer e gli altri protagonisti di questa interminabile tragicommedia. Stiamo a vedere.