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La “riconciliazione” di Obama: colpita e affondata

4 giugno 2010

Di M.C.

“Deep regret”. Profondo rammarico.  A queste due semplici parole – ovvero: ad un sentimento, molto più che ad un giudizio – resta appesa la reazione della Casa Bianca all’attacco israeliano contro la “flottiglia della pace”. E certo è che, dopo quanto accaduto nelle acque del Mediterraneo, a Barack Obama davvero non mancano buone ragioni per sentirsi intimamente costernato. L’attacco contro la Mavi Marmara e le altre imbarcazioni da diporto che, partite dalla Turchia, navigavano verso la striscia di Gaza con a bordo aiuti umanitari, non solo ha portato alla morte violenta d’una decina di esseri umani (fatto questo che il cinismo della politica potrebbe ritenere irrilevante), ma è giunta in un momento che – marcato da un’inedita tensione nelle relazioni con Tel Aviv – non poteva, per la sua Amministrazione, esser peggiore. E, quel ch’è ancor peggio del peggiore, ha finito per colpire in pieno (con danni ancora tutti da valutare) quello che, fin qui, era stato uno dei perni (il principale forse) della strategia mediorientale statunitense: l’alleanza politico-militare tra Turchia ed Israele. Sicché, partito mesi fa, e con grande lena, alla ricerca d’un nuovo compromesso tra Israeliani e palestinesi (ovvia chiave d’ogni pace prossima ventura), Obama s’è all’improvviso ritrovato tra le mani  i cocci del compromesso “di guerra” più antico e solido: quello che, ancorato all’asse turco-isrealiana, aveva sorretto, lungo tutti gli anni del confronto con l’Unione Sovietica (e molto oltre quegli anni), la politica mediorientale dell’intero Occidente.

Quando, nel pomeriggio del 31 maggio, la notizia del sanguinoso assalto alla Mavi Marmara ha cominciato a fare il giro del mondo, Barack Obama s’apprestava a ricevere – in quello che i media avevano ribattezzato un incontro di “riconciliazione” – il primo ministro israeliano Binyamin Netanyahu. E doveva, quella riconciliazione, essere l’avvio (o il ri-avvio) d’una nuova fase nella tessitura di quella sempiterna tela di Penelope che va sotto il nome di “processo di pace in Medioriente”. Ma Netanyahu non è, in effetti, mai arrivato. In visita in Canada, è tornato a Gerusalemme con volo diretto, saltando il previsto stop a Washington. E Washington nulla ha fatto per convincerlo a rispettare l’originale piano di viaggio. Troppo imbarazzante, date le circostanze, sarebbe stato, per la Casa Bianca, ricevere in pompa magna il capo di un governo oggetto delle rampogne del mondo intero. E troppo imbarazzante, per contro, sarebbe stato, per Netanyahu, entrare alla Casa Bianca per la porta di servizio. Meglio rinviare ogni discussione. O, più esattamente: meglio lasciare ogni apparenza appesa a quel molto anodino “profondo rammarico”. Ed affidare la discussione ai più discreti canali della diplomazia, in un molto intenso (anche se molto poco visibile) scambio di chiamate tra Washington, Ankara e Tel Aviv, passando, laddove necessario, per il Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite. Nessuna condanna, nessun rimbrotto, nessuna commissione d’inchiesta internazionale. Soltanto “deep regret”, in attesa di riprendere il filo del discorso brutalmente interrotto dall’assalto a mano armata contro i pacifisti che portavano cibo ed aiuti umanitari alla popolazione di Gaza.

E proprio questa è la vera domanda: quale discorso? Qual è, oggi, oltre l’insignificante tepore del “profondo rammarico” di Barack Obama, il vero stato delle relazioni tra Stati Uniti ed Israele? Per quale ragione, Barack Obama e Binyamin Netanyahu dovevano “riconciliarsi”? Che cosa si apprestava a dire, il presidente americano, nel caso davvero l’ avesse incontrato, al capo del governo d’Israele? E che cosa gli sta dicendo ora attraverso i canali della diplomazia? Che cosa gli dirà domani, quando l’indignazione del mondo per l’attacco alla Mavi Marmara si sarà placato? E, soprattutto: in che modo sta cambiando – se davvero sta cambiando – la politica mediorientale degli Stati Uniti d’America?

I precedenti sono piuttosto noti. Nel corso dell’ultima, lunghissima campagna elettorale, culminata con la “storica” vittoria di Barack Obama, tutti i candidati, democratici e repubblicani, avevano rispettato il rituale imposto dalla potentissima lobby filo-israeliana  (l’AIPAC, American Israel Public Affairs Committee). Vale a dire: tutti avevano dato pubblica ed  incondizionata testimonianza di fede nella “speciale relazione” tra USA ed Israele. Tutti, compreso Barack Obama che, pure, nel corso della sua folgorante carriera politica, non aveva mancato di manifestare una tiepida solidarietà per “le sofferenze del popolo palestinese”.  Quindi, da vincitore, Obama aveva fin dall’inizio manifestato la sua intenzione di rilanciare il processo di pace, tentando con molta discrezione di sgomberare il terreno da quello che era stato, nel corso d’un molto travagliato e tortuoso cammino, uno dei più ingombranti ostacoli: la costruzione – con particolare iattanza ripresa dal governo di Netanyahu, legato ai settori più fondamentalisti e razzisti dell’ebraismo – d’insediamenti nei territori occupati. E Israele aveva risposto, per così dire, menando le mani. O, fuor di metafora, scegliendo il momento della visita ufficiale in Israele del vice presidente Joe Biden per annunciare – in quello che i media hanno immancabilmente definito “uno schiaffo” – la costruzione di 1.600 nuovi appartamenti nel pieno della Cisgiordania.

Obama non aveva ovviamente gradito. E, pur evitando pubbliche manifestazioni d’aperta discordia, aveva chiaramente lasciato intendere come la “speciale relazione” di cui sopra, pur restando tale, non fosse più speciale al punto da impunemente (e, nel caso specifico, addirittura provocatoriamente) sovrapporsi agli interessi degli Stati Uniti in una regione dove i suoi soldati stanno combattendo due guerre (Iraq e Afghanistan). E certo non lo era più al punto da accettare pubbliche disfide – o veri e proprie sberle, come quella rifilata a Joe Biden – alla sua strategia di pace. Alla fine di marzo, testimoniando di fronte alla Commissione Affari Militari del Senato, il generale David Petraeus era stato chiarissimo: la mancata soluzione della questione palestinese e la percezione araba di un ovvio squilibrio a favore d’Israele nella politica americana, limitano “l’efficacia della nostra iniziativa nell’intera regione…a discapito delle operazioni militari in corso…”. Inequivocabile il messaggio. La lobby pro-israeliana sarà anche fortissima, ma ancor più forte è quella delle forze armate degli Stati Uniti d’Amarica. Ed è bene che i senatori ne prendano al più presto atto. Meno di tre mesi più tardi, alla vigilia dell’ “incidente” della “flottiglia di pace”, Obama era andato molto oltre allorquando, lo scorso 30 maggio – con un gesto potenzialmente di grande portata strategica – aveva votato, insieme ad altri 188 paesi, in quel dell’Onu, a favore di una proposta che da lui medesimo era partita e che Israele aveva tenacemente avversato: l’organizzazione, entro il 2012, d’una conferenza tesa bandire da tutto il Medioriente ogni arma nucleare (incluse quelle che Israele, protetta dalla “speciale relazione” con gli Usa, ha sempre fin qui impunemente negato di avere). Il tutto nel quadro di quel Trattato di Non Proliferazione che Israele si è sempre rifiutata di sottoscrivere.

Difficile dire che cosa, dopo il massacro della Mavi Marmara, resti di questa potenziale svolta.  Anche se, nell’incertezza, il “profondo rammarico” di Barack Obama – davvero una molto insipida pietanza a fronte degli avvenimenti – almeno una cosa fa più che chiaramente capire: se un cambio davvero è in corso nelle “speciali” relazioni tra Stati Uniti ed Israele, sarà un cambio lento e non traumatico. O, per meglio dire: il cambio, o sarà lento e non traumatico, o non sarà. A meno, ovviamente, che i comportamenti del governo israeliano, sempre più condizionato dalla presenza di estremisti e teorici della “pulizia etnica”, quali l’attuale vice primo ministro e ministro degli esteri, Avigdor Lieberman, non forzino un’inevitabile rottura. Binyamin Netanyahu era – prima del sanguinoso abbordaggio della Mavi  Marmara – atteso a Washington proprio per questo: per ricucire, rammendare, rattoppare quello che era, allora, uno strappetto. E che oggi è diventato una lacerazione che spacca in due – tra Turchia e Israele – l’intero sistema di alleanze mediorientali degli Stati Uniti.

Il punto è: fino a che punto è davvero “rammendabile” la “speciale relazione” tra Stati Uniti ed Israele? O meglio: in che misura la speciale relazione tra Stati Uniti ed Israele è oggi in irreconciliabile contrasto con un processo di pace che – come ha senza mezzi termini ricordato il generale Petraeus di fronte al Senato – riflette gli interessi strategici e “di sicurezza” degli Stati Uniti? La domanda non è affatto nuova. Ed in effetti già è stata posta (e molto brillantemente argomentata) quattro  anni or sono da un libro che ha fatto e continua a far scalpore: “The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy,”, scritto da John J. Mearsheimer e Stephen M. Walt. Che cosa sostengono i due autori (entrambi convintissimi sostenitori del diritto all’esistenza dello Stato di Israele)? In sostanza questo: che l’AIPAC – meta, nel 2008, del pellegrinaggio di tutti gli aspiranti alla presidenza e capace di controllare 76 dei 100 voti del Senato – ha, con la sua straripante forza, creato nella politica estera americana (specificamente quella verso il Medioriente) una “asimmetria” non più giustificabile, né sul piano politico-strategico (alla luce degli interessi nazionali) né su quello etico-politico (fondamentalmente basato sulla memoria dell’Olocausto, certo non cancellata, ma sicuramente appannata dalla brutalità dell’occupazione israeliana della Palestina). Il che significa che, se gli Usa vogliono giocare un ruolo positivo nel processo di pace – processo nel quale hanno un molto preciso interesse strategico – devono uscire da questa sorta di dipendenza politica.

Riuscirà Barack Obama – il presidente che aveva cominciato il suo mandato promettendo, con un discorso al Cairo, un nuovo e “rispettoso” rapporto con l’Islam – a spezzare questa catena (o, quantomeno, ad allentarne la presa)? Il suo “profondo rammarico” non appare di gran buon auspicio. E di buon auspicio non è certo l’analisi del passato. Nel loro libro, Mearsheimer e Walt documentano come gli aiuti economici e militari degli Usa ad Israele – storicamente paragonabili, per quantità r e peso specifico, solo agli aiuti della fu Unione Sovietica a Cuba – siano stati, grazie all’AIPAC, in continua ascesa a prescindere dai risultati politici. Anzi: non di rado in aperto contrasto con i risultati politici. Ci sono a questo proposito, nelle memorie di George Shultz, segretario di Stato di Ronald Reagan (presidente difficilmente accusabile di simpatie pro-palestinesi), pagine molto significative: quelle nelle quali, ad esempio, racconta della sua personale indignazione per la decisione del Senato Usa d’approvare, nel dicembre del 1982, un supplemento di aiuti economici (280 milioni di dollari) a Israele, al termine di un anno marcato da una serie di scelte politiche israeliane che lo stesso Shultz non esita a definire “nefaste”. E che così elenca:  “…l’invasione del Libano, l’uso di ‘cluster bombs’  bandite dalla comunità internazionale contro la popolazione civile, la strage di Sabra e Shatila…”. Scandalizzato, il 9 dicembre di quell’anno, come lui stesso racconta, Shultz, presa carta e penna, inviò al presidente una lettera di formale e sdegnata opposizione a quel supplemento di aiuti che “sembra premiare un comportamento di Israele” chiaramente in contrasto con gli interessi degli Usa (i quali, sia ricordato per inciso,furono più tardi costretti ad intervenire direttamente in Libano; e persero, in un attentato suicida contro il loro quartier generale a Beirut, centinaia di soldati). Ma tutto fu inutile. Il “supplemento” passò con irridente facilità. E Reagan (che , pure, la pensava come Shultz), firmò il provvedimento senza profferir verbo.

Può, a questo punto, cambiare la musica? Ha Obama la capacità e la volontà di cambiare uno spartito diventato, negli anni, una delle più immutabili performance (una sorta di riflesso condizionato) della politica americana? Qualcosa si sta muovendo. Anche nella comunità ebraica americana va facendosi strada l’idea che quel “riflesso condizionato” non sia, a questo punto, che una intollerabile zavorra, non solo per gli interessi strategici degli USA, ma anche per quelli della stessa Israele, condannata dalla sua stessa politica (e dalla parallela certezza della complicità “a prescindere” degli Usa) all’isolamento internazionale e, in ultima analisi, all’autodistruzione. E, da questa crescente consapevolezza – ultimamente sottolineata da un molto discusso articolo dal titolo “The Failure of the American Jewish Establishment”, scritto da Peter Beinart e pubblicato dalla New York Review of Books – è nata ” J Street”, una lobby alternativa all’AIPAC.

Ma non si tratta, per il momento, che di gocce nel mare. O, meglio, nella palude della politica Usa, Prima del massacro al largo di Gaza, erano bastati gli screzi tra Netanyahu e Biden perché l’AIPAC mobilitasse all’istante le sue artiglierie raccogliendo le firme dei tre quarti dei senatori, tutti pronti a ricordare ad Obama, in una lettera congiunta, il “dovere” di difendere Israele. Nulla di sostanziale, al momento, sembra muoversi,  in una situazione nella quale il tempo, più che mai implacabile, gioca contro la pace. E mentre gli estremi sempre più tendono ad alimentarsi  reciprocamente. Il lungo blocco di Gaza, formalmente nato per mettere alle corde Hamas, ha in realtà regalato ad Hamas un’egemonia politico-territoriale ormai impossibile da smantellare….

Occorrerebbe un gesto. Occorrerebbe il  coraggio d’una rottura . Ma tutto quello che Obama ha fin qui  messo sul tavolo – cosa non sorprendente per un uomo politico che, in tutta la sua carriera, sempre ha aborrito ogni svolta radicale – è stato il piatto del suo “profondo rammarico”. Non sa di nulla. Ma potrebbe, se dio vuole, non essere che un antipasto…

 

 

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