“Don’t look at me, look at the alternative”. Non guardate me, guardate l’alternativa. Questo – in uno dei rari momenti di sincerità che la politica regala in tempi di campagna elettorale -disse in tempi non lontani Joseph Robinette Biden, allora fresco (e per molti aspetti sorprendente) vincitore delle primarie democratiche. Correva l’anno 2020 e, da poco iniziato l’autunno, si approssimava, nel pieno della pandemia, il giorno delle elezioni. Donald Trump, 74enne presidente in carica, contro un Joe Biden, anni 77, sul cui capo già allora aleggiava il macigno implacabile del tempo. Due Americhe contro. Un orribile presente che guardava ai più tenebrosi anfratti del passato, contro un passato che – pieno di luci e d’ombre ma tutto vissuto dentro i valori della “più antica democrazia del mondo” – cercava una strada dentro un futuro possibile.
E giusto questo era il significato di quel lampo di schiettezza. O, più in concreto, questa era, ormai alla vigilia del voto, il molto retorico dilemma che Biden presentava all’elettorato. Io troppo vecchio? Può essere. Ma nonostante l’età – anzi, giusto in virtù dell’età e d’una quarantennale esperienza passata attraverso vittorie, sconfitte, alti, bassi e ben due altre fallimentari corse alla nomination, sono anche l’unico oggi in grado di ricomporre il fronte politico che può sbarrare la strada alla “alternativa”. Ovvero: ad una “seconda volta” d’un presidente la cui vocazione autoritaria traspare in ogni sua parola ed in ogni suo gesto. Un presidente – questo Biden amava ripetere ad ogni comizio – che già all’esordio del suo mandato non aveva esitato a definire “good people”, brava gente, i “nazionalisti cristiani” che, nell’agosto del 2017 – innalzando cartelli che inneggiavano alla supremazia bianca e recitavano “gli ebrei non ci rimpiazzeranno” – erano tutt’altro che pacificamente sfilati a Charlottesville, in Virginia, per protestare contro la rimozione d’un monumento dedicato a Robert E. Lee, il, generale che durante la Guerra Civile aveva guidato le truppe della Confederate in difesa della “peculiare istituzione” (così ufficialmente si chiamava) della schiavitù.
Biden ha battuto Trump, il tempo ha battuto Biden
Sono trascorsi quattro anni da quella sincera ammissione, sette da quella torva parata fascisteggiante che, ancor oggi, definisce la più intima, negata ma nient’affatto segreta natura del trumpismo. E questo – tre cose , fondamentalmente – è quel che nel frattempo è accaduto. Biden ha battuto, prima tutti gli altri aspiranti alla nomination democratica e poi Donald Trump; il tempo ha battuto Biden e Trump ha, da sconfitto, battuto la democrazia. Più in dettaglio: sconfitti i suoi più giovani rivali democratici, Biden ha vinto la corsa alla Casa Bianca contro la “alternativa”. Donald Trump, alternativa sconfitta ma non ripudiata dall’esito del voto, ha continuato il suo vittorioso assalto alla democrazia, prima cercando di capovolgere il risultato delle urne con l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 (una assoluta “prima volta” nella storia degli USA) e, poi, completando la trasfigurazione del Partito Repubblicano, una delle due “metà” del rigido sistema bipartitico amaricano, in un culto di se medesimo.
Il tutto mentre sul capo del vittorioso Joe Biden, cadeva infine, sotto il peso dei suoi 81 anni ,il macigno di un’età che, per un’implacabile legge nella natura, già s’era rivelata, in ogni suo gesto e in ogni sua parola, ben prima che il dibattito presidenziale del 27 giugno ne mostrasse al mondo. impietosamente e senza rimedio, la irreversibile, catastrofica portata.
Soltanto un mese fa tutto sembrava scivolare verso una inesorabile conclusione. Sul grigio sfondo della senile (ed apparentemente inamovibile) fragilità di Joe Biden, tutti i sondaggi restituivano cifre che – pur ancora perlopiù all’interno del famoso “margine d’errore”, vale a dire ancora delineanti una situazione di virtuale pareggio – pendevano, tanto in generale, come nei punti più caldi della contesa elettorale, tutti dal lato di Donald Trump. Cifre che, già brutte in sé, il tempo poteva solo peggiorare. Era stato in questo contesto che, tra il 15 ed il 18 di luglio, a Milwaukee, s’era trionfalmente svolta – molto più come cerimonia di beatificazione che come assemblea chiamata alla nomina d’un candidato – la Convention repubblicana. Sopravvissuto per volontà di Dio all’attentato omicida di Butler, in Pennsylvania, Donald Trump era, martire e messia al tempo stesso, l’uomo dalla Provvidenza inviato per salvare la Nazione dalla rovina. Non poteva, in queste vesti, che vincere. Di fatto anzi già aveva, con il Padreterno al suo lato, non vinto, ma stravinto
Enter Kamala Harris, tutto cambia
Poi tutto è d’acchito cambiato. Joe Biden – che pure aveva, dopo il suo disastroso dibattito, dichiarato che solo “Dio Onnipotente” (Lui, ancora una volta!) poteva convincerlo ad abbandonare la corsa – ha non del tutto spontaneamente, ma con molto nobili accenti, deciso di farsi da parte, grazie anche, si dice, alle sotterranee manovre (un vero e proprio “golpe”, secondo Trump ed i più storditi tra i repubblicani, una sorta di poetica rivincita della umiliata e derisa terza età secondo altri) d’una ragazzina di anni 84, la ben nota Nancy Pelosi, già efficientissima speaker democratica della House of Representatives. E la sua uscita di scena ha, al di là d’ogni più ottimistica previsione, all’istante liberato una vera e propria esplosione di forze nuove a sostegno della vicepresidente Kamala Harris – di Biden naturale sostituta, ma da non pochi considerata un’assai debole candidata – alla quale il presidente in carica aveva passato il testimone.
Nessuna divisione interna al Partito, nessuna contumelia, nessuna contro-candidatura, nessuna richiesta di nuove primarie e d’una Convenzione “aperta”. Uno per tutti e tutti per uno, anzi, per una, come pochissime volte era accaduto in passato in casa democratica. Il tutto scandito da sondaggi che adesso – pur ancora, come sopra, dentro il “margine d’errore”, ma con inusitata ed univoca rapidità – andavano più o meno ovunque cambiando direzione. E con un Partito Repubblicano che, orfano di Joe Biden e completamente spiazzato dagli eventi, doveva ora, con crescente apprensione, rimirare le sempre più sconcertanti – “weird”, come i democratici si sono affrettati a definire – performance d’un messia, martire e redentore ora nell’inatteso ruolo – da lui peraltro con grande e naturale efficacia interpretato già a Milwaukee, con un discorso finale di accettazione della candidatura tra i più lunghi, logicamente sconnessi, sintatticamente sgangherati ed incredibilmente tediosi della storia delle Convention – del vecchio rimbambito della commedia (tragedia o tragicommedia) in corso di rappresentazione.
Grazie Joe, grazie davvero…
È stato nel quadro di questo gigantesco ribaltone che s’è svolta – e venerdì notte si è conclusa in quel di Chicago – la Convention democratica. Quattro giorni d’una iper molti versi improvvisata ma impeccabile coreografia politica, al termine della quale Kamala Harris è stata ufficialmente nominata, in un clima di vero e proprio tripudio, candidata alla presidenza per il Partito democratico. Tutto è, come da copione, cominciato dalla fine. Vale a dire: da Joe Biden e dall’omaggio alla sua eredità che, ora liberata dalla zavorra della vecchiezza del dipartito, poteva rilucere in tutta la sua – vera o presunta – brillantezza: posti di lavoro creati, inflazione contenuta senza recessione, nuove infrastrutture, “green new deal”. “Grazie Joe” era il grido della platea. Ed il “keynote speech” della prima giornata era toccato proprio a lui, al presidente uscente, in quello che presumibilmente sarebbe stato, non si fosse ritirato, il suo finale discorso di accettazione. Alla fine, sono piovuti applausi ed osanna, un po’ per sincera e meritata gratitudine, e un po’ per un altrettanto sincero sollievo di fronte allo scampato pericolo. Se ancora qualcuno, infatti, aveva mantenuto dubbi di sorta in merito alle effettive possibilità di vittoria di Joe Biden ed all’opportunità d’un suo ritiro, quel discorso, molto appassionato ma altrettanto fiacco e stonato, non poteva che cancellare ogni rimpianto. Grazie Joe. Grazie davvero.
Tim, l’uomo che venne dall’America di Norman Rockwell
Poi non c’è stato spazio che Kamala. Kamala Harris e Tim Walz. Di norma, superato il momento di curiosità che precede la scelta, la personalità del running mate non ha che una molto marginale influenza, non solo sugli esiti della corsa, ma anche sul “tono” di una nomination. Non questa volta. Tim Walz, governatore del Minnesota, ha infatti portato un’aria nuova tanto nella Convention di Chicago, quanto, più in generale, nella natura della battaglia elettorale del Partito democratico. Nuova e fresca perché proveniente da quella parte di America che, per molte e complesse ragioni, più è rimasta irretita nei messianici appelli del trumpismo. Walz è infatti non solo un personaggio che ispira una istantanea, naturale simpatia, ma è anche il prodotto, in versione progressista, di quella “rural America” – o “real America”, come goffamente la chiamava l’ultra-reazionaria Sarah Palin, running mate del repubblicano moderato John McCain nel 2008 – che nella mitologia nazional-popolare incarna i più classici valori umani di rettitudine, reciproca solidarietà, semplicità e coraggio, della democrazia e della “way of life” americana. Un personaggio per molti aspetti “rockwelliano”, da Norman Rockwell il pittore che di questa mitologica vita – un po’ come più o meno nello stesso periodo accadde in Italia con le copertine di Walter Molino per la Domenica del Corriere – fu il grande cantore in immagini.
Uno “acceptance speech’ vago e perfetto
In una Convention perfetta, Tim Walz è stato la perfetta musica di sottofondo del perfetto discorso d’accettazione di Kamala Harris, perfettamente aperto, al termine d’un florilegio di esaltanti ed a tratti melense testimonianze di parenti, amici e conoscenti d’ogni natura, da una presentazione di se stessa carica di pathos, dall’emozionato racconto di una vita che, prima come avvocato ed Attorney general e, quindi, come senatrice della California, le ha insegnato a battersi, in ogni circostanza, contro ogni abuso, in favore dei più deboli. “Kamala for the people” era il suo slogan allora e “Kamala for the people” è oggi, ha detto e ripetuto la Harris in un susseguirsi di “standing ovation”, la parola d’ordine della sua corsa verso la Casa Bianca. Il tutto seguito, come si conviene in ogni Convention, da promesse e piani d’azione tanto magniloquenti quanto vaghi. E, quel che più conta, tutti ancora sotto l’egida di quel lampo di sincerità che, esattamente quattro anni prima, per disinnescare la bomba della sua veneranda età, Joe Biden aveva regalato a chi l’ascoltava. “Don’t look at me, look at the alternative”. Non guardate me, guardate l’alternativa
Oggi Joe Biden ha alzato, bandiera bianca di fronte alle leggi di natura e, sebbene entrambi siano ormai prossimi ai 60, la coppia Harris-Walz va sprizzando gioventù e energia – anzi “joy”, gioia, una “gioia guerriera”, come tutti gli oratori hanno sottolineato – da ogni possibile poro. Anche al culmine d’un ritrovato ottimismo, però, questo rinfrancato e ringiovanito Partito democratico resta del tutto correttamente convinto di due cose tra loro indissolubilmente connesse. La prima: che Donald Trump più che mai rappresenti – come già aveva sentenziato nel 2016 uno storico editoriale del Washington Post – un “pericolo unico per la democrazia americana”. E, la seconda: che Donald Trump sia l’arma decisiva per battere Donald Trump. Come Dana Milbank, uno dei più prolifici columnist del Post, ha scritto al termine della convention di Chicago: “Donald Trump thinks it’s all about him. And Democrats agree”. Donald Trump è convinto d’essere l’unica cosa che importa. E i democratici sono d’accordo con lui.
Donald Trump, pericoloso ma non serio
Kamala Harris è stata, nel suo discorso d’accettazione, assolutamente chiara. “Donald Trump è di certo, ha detto, un “unserious man”, un uomo poco serio. Ma assolutamente serie, ha aggiunto, sarebbero “le conseguenze di un suo ritorno al potere”. E, stavolta – grazie anche alle “immunità’ concessigli da una Corte Suprema amica – ad un “potere senza guardrail, da esercitare oltre ogni limite non per migliorare le vostre vite, ma per soddisfare i più torbidi desideri del suo unico cliente: lui stesso. Per questo ha sottolineato con forza Kamala, le prossime elezioni sono non solo le più importanti della vostra vita, ma le più importanti nella Storia della Nazione. Le prime che vedono il palio l’esistenza stessa della democrazia americana.
Non c’è dubbio alcuno: Donald Trump è stato, nelle duplici e complementari vesti di buffone e di esiziale pericolo, il vero protagonista della Convention di Chicago. Ed una costante presenza in pressoché tutti gli interventi. Quelli, in particolare delle grandi star della politica democratica. “La prossima volta che lo ascoltate – ha detto un Bill Clinton molto invecchiato, ma ancora capace di incantare la platea – non contate le bugie, che sono troppe e troppo scontate. Contate invece gli ‘io’ che pronuncia…Trump è come quei tenori che si preparano al canto gorgheggiando me, me, me, me…Ma con Kamala cambierà la musica. E sarà, ogni volta, you, you, you, you”.
Barack Obama ha quindi rincarato la dose affermando: “Ecco qui un miliardario di 78 anni che non ha smesso di lamentarsi da quando è sceso sulla sua scala mobile dorata nove anni fa. È stato, da allora, un flusso costante di piagnistei e rimostranze che, ora alimentati dalla paura di perdere contro Kamala, vanno accentuandosi in un florilegio di soprannomi infantili e di folli teorie cospirative. Per non dire – ha aggiunto con una molto freudianamente allusiva imitazione della gestualità a fisarmonica con cui Trump accompagna ile sue filippiche – della sua stravagante ossessione comparativa per le dimensioni delle folle che seguono i suoi e gli altrui comizi”.
“…e adesso chi glielo dice?’
Giusto prima di lui, la moglie Michelle aveva, applauditissima, ancor più efficacemente ironizzato sulle scempiaggini di chiara natura razzista che solo qualche giorno prima Trump aveva inanellato a proposito dei “black jobs”, i lavori per neri – i più umili e servili, naturalmente – che gli immigrati clandestini ruberebbero agli afro-americani. “E adesso – ha affermato tra le generali risate la molto popolare ex first-lady, con ovvio riferimento al prossimo trionfo della “nera” Kamala Harris – chi glielo va a dire (a Trump n.d.r.) che il lavoro che lui va cercando sarà presto una dei ‘black job’ di cui va cianciando”.
“Donald Trump – ha detto Alexandria Ocasio-Cortez, deputata di New York – non esiterebbe a vendere l’intero Paese per un dollaro, dovesse quel dollaro finire nelle sue tasche”. E Adam Kinzinger, repubblicano ritrattosi di fronte alla trasfigurazione trumpiana del suo partito, è stato anche più esplicito: “Donald Trump – ha detto – è un uomo debole che finge di essere forte. È un piccolo uomo che finge di essere grande. È un uomo senza fede che finge di essere giusto. È un criminale che recita la parte della vittima”.
Idiozie in “tempo reale”
E Trump, come ha reagito Trump, a questo suo non propriamente adulatorio protagonismo in casa altrui? Lo ha fatto “in tempo reale” – così come aveva annunciato alla vigilia – con una serie di fiammeggianti post (vale a dire, in perentorio maiuscolo) pubblicati al volo sulla sua rete sociale, TruthSocial. Un dejà vu sciorinato nell’impotente orrore dei suoi consulenti di campagna e per la gioia di chi di lui si burla. Per l’appunto, la conclamata “gioia guerriera” che ha riempito di sé – in una costante contrapposizione tra un ottimistico, sorridente buonumore ed il più cupo dei catastrofismi, la Convention democratica appena conclusasi.
Così stanno oggi le cose. Con Kamala Harris sugli scudi e con Donald Trump sempre più in confusione e sempre più prigioniero della caricatura di se stesso. Il che – come finite le burle ha molto seriamente ricordato Bill Clinton – non significa affatto che i giochi siano fatti. “Troppe volte – ha detto Clinton, evidentemente memore della sconfitta di Hillary nel 2016 – abbiamo perso battaglie che eravamo convinti d’aver vinto”. Mai sottovalutare gli avversari, anche quando appaiono ridicoli. Anzi, soprattutto quando sono ridicoli. Perché più sono ridicoli, più sono pericolosi.
Pur con un’inerzia ora decisamente a vantaggio di Kamala Harris, la partita, dicono i sondaggi, resta apertissima. E, nella lotteria dei collegi elettorali, saranno probabilmente i più minuti dettagli – poche decine di migliaia di voti – a decidere l’esito del confronto.
Giusto ieri, in un ultimo insulto al cognome che porta, un altro personaggio ridicolo, Robert F. Kennedy, si è ritirato dalla contesa elettorale e, a margine di un Maga-comizio in Arizona, ha, come un vassallo di fronte al re, invitato i suoi seguaci – uno strano miscuglio di ambiguo ambientalismo e fanatismo “no-vax” – a votare per Donald Trump. Con effetti che, per quanto sicuramente d’assai scarsa rilevanza percentuale, potrebbero tuttavia in questo incertissimo contesto, risultare decisivi.
Kamala Harris è oggi in piena luna di miele. Sono, per lei e per i democratici, giorni di gioia. Ma tutto è ancora possibile. Tutto può ancora succedere…