Non c’è niente da fare. Cambiano le scene ed i personaggi, ma il Padreterno continua – presumibilmente suo malgrado – ad esser protagonista della battaglia presidenziale negli USA. Per Trump e per i seguaci del suo culto si tratta, com’è noto, d’una molto ovvia e diretta relazione di causa-effetto. O, se si preferisce, d’un elemento strutturale, originario – consustanziale direbbe un teologo – della realtà trumpiana. Semplicemente: Dio – vedi questo splendido pezzo di propaganda diffusa via social – ha “creato Trump” per salvare l’America dalla distruzione. Ed il rapporto tra i due è da sempre, per verità rivelata e, soprattutto, per diretta testimonianza di Trump, quello classico-biblico-messianico (vedi, in proposito, questo articolo in cui, nell’agosto del 2019, l’allora presidente in carica si dichiara “the chosen one”, il prescelto e “the King of Israel”, il re d’Israele).
“Solo Dio Onnipotente mi può convincere”
E per Joe Biden? Chi è Dio, per Joe Biden? O, per contro, chi è, per Dio, il Joe Biden presidente-candidato che oggi, in vesti inevitabilmente piuttosto dimesse, aprirà a Washinton il vertice della NATO? A queste domande – fino a pochi giorni fa mai poste, anche perché considerate del tutto irrilevanti – il presidente degli Stati Uniti ha risposto quattro giorni fa nel corso d’una intervista per la rete ABC con il giornalista George Stephanopoulos, oggi brillante conduttore televisivo e, negli anni ’90, molto visibile consigliere di Bill Clinton. Dio, anzi, “God Almighty”, Dio Onnipotente”, ha sentenziato Biden, è l’unico che può convincerlo a farsi da parte. Ovvero: a rinunciare alla corsa per la Casa Bianca a vantaggio d’altri meno stagionati ma più vincenti candidati, come da molti suoi illustri compagni di partito più o meno esplicitamente reclamato dopo la sua disastrosa esibizione in quello che davvero arduo è continuare a chiamare un “dibattito” presidenziale.
Tutti, nella notte di giovedì 28 giugno, hanno visto e sentito. O non sentito, considerato che i silenzi sono stati, probabilmente, la parte preponderante e, di certo, più significativa della esibizione di Biden. Da un lato un vecchio signore che, sguardo perduto nel vuoto, balbettava frasi perlopiù incomprensibili, un po’ per l’angosciata rapidità con cui venivano pronunciate, e un po’ per la loro scarsa interconnessione logica. E dall’altro un altrettanto vecchio ma assai meno signorile “dibattente”, la cui altrettanto evidente labilità intellettiva allegramente e liberamente si sfogava – il confronto non prevedeva alcun istantaneo fact-checking – in una vociante e sgangherata serie di frottole (più di una al minuto stando a tutte le verifiche post-dibattito).
Alla fine, la sentenza era stata inevitabile. In senso generale, “storico”, non c’era alcun vincitore a fronte d’un solo e “collettivo” perdente: la democrazia Usa, con tutto il suo quarto di millennio di storia. Ma in senso pratico-politico, non v’era alcun dubbio: Trump aveva vinto, anzi, stravinto. E Biden, non solo aveva perso, ma aveva mandato in scena – molto al di là delle più pessimistiche previsioni – quella che era da subito apparsa come la caricatura d’una caricatura.
Il sospetto d’un “diabolico tranello”
Per mesi la propaganda trumpista era andata descrivendolo, nei più insultanti dei termini, come un decrepito personaggio incapace di pronunciare due parole in croce (ed anche, paradossalmente, come la perfida guida di un satanico complotto “woke” teso a distruggere il Paese). E di questo personaggio – la cui incombente immagine avrebbe dovuto, per contrasto, render più agevole il compito di Biden – il presidente aveva in realtà offerto una replica peggiorata. Caricaturalmente peggiorata. Al punto che lo stesso Trump, prima di cominciare a maramaldeggiare da par suo inanellando menzogne, era parso sconcertato dalla facilità del cammino. Ed anche al punto che – essendo le più bizzarre teorie cospirative da sempre di casa nelle file della destra Usa – non era mancato chi, nei più immediati commenti post-dibattito, aveva ipotizzato, oltre la cortina di fumo della catastrofica recita del candidato democratico, la presenza d’un diabolico tranello. In sostanza: Joe Biden avrebbe recitato la parte del vecchio rimbambito al solo scopo di fornire al suo partito la ragione per sostituirlo con un candidato molto più giovane ed arduo da battere. Assurdo? Certo. Assurdo d’una assurdità che, con estremo nitore, rende l’idea di quanto incredibilmente pessima sia stata l’esibizione di Biden.
Giusto questo era lo scopo dell’intervista con George Stephanopoulos: tentare l’impossibile. Vale a dire: cercare di recuperare il terreno perduto, o meglio, di uscire dal baratro in cui Biden era precipitato durante il dibattito, dimostrare che il fantasma apparso in Tv la settimana prima non rappresentava, a conti fatti, che una malaugurata parentesi, una sorta di certo non strategica ma comunque rimediabile ritirata nel corso d’una battaglia che ancora poteva essere vittoriosa. Anzi: nel corso di una battaglia che, allo stato delle cose, solo lui, Joe Biden, può, come già nel 2020, finalmente vincere.
Soltanto una “giornata storta”?
“I just had a bad day”, mi è capitata una giornata storta. Così Joe Biden ha spiegato la sua catastrofica debacle rispondendo a uno Stephanopoulos che, a dispetto delle affinità politiche e d’una amichevole relazione di lunga data, non gli ha, con molto professionale rigore, risparmiato domande scomode. Questo ha detto Biden a più riprese. Ed a più riprese – ad ogni “bad day” – è ulteriormente (e prevedibilmente) precipitato nel baratro da cui doveva uscire. Tutti gli analisti politici, a destra come a sinistra (per non dir del centro) già lo avevano del resto sentenziato: la performance di Biden era stata “beyond spinning”, non c’era possibile appiglio per ribaltarla, non c’era alcun “lato positivo” da esibire, non c’era specchio su cui arrampicarsi. Volendo ricorrere ad una metafora calcistica, Joe Biden non era stato, nella notte del 28 di giugno, un attaccante che sbaglia un gol a porta vuota, tirando alto, a lato, o sbucciando ridicolmente il pallone. Né era stato un portiere che si fa goffamente passare tra le gambe un tiro innocuo. Ai milioni di spettatori incollati al televisore, il presidente era apparso come una spettrale figura che, vagante per il campo, andava chiedendosi, più spaventata che incuriosita, per quale ragione tanti ragazzotti in mutande andassero, con tanto fervore, inseguendo e calciando una palla.
Fuor di metafora. Come crudelmente sentenziato da James Carville – vecchia volpe che fu a suo tempo stratega elettorale di Bill Clinton – il dibattito televisivo del 28 giugno è stato, per Joe Biden, il “tipping point” d’un “tipping point”. Il punto di non ritorno d’un punto di non ritorno. Di fronte ad un Paese che già da tempo stabilmente e, con ogni probabilità, già irrimediabilmente, lo percepiva come “troppo vecchio e fragile” per continuare a dimorare alla Casa Bianca, Joe Biden ha come pietrificato questo verdetto già scolpito nella pietra.
Una storia che non si può ripetere
Non c’era per Biden, alla vigilia dell’intervista, alcuna possibilità di redenzione. Non c’era, dopo quella disfatta, alcuna razionale prospettiva di resurrezione lungo la strada verso il voto di novembre. Nel suo confronto con Stephanopoulos, Biden ha puntigliosamente (ed inutilmente) rammentato tutte le “miracolose” rimonte che, lungo l’oltre mezzo secolo della sua carriera politica, l’hanno visto protagonista. Anche nel 2020, ha ricordato, tutti lo avevano, dopo le primarie del New Hampshire, dato per spacciato – perché troppo anziano e troppo “istituzionale”, parte d’un troppo ossificato passato politico – nel suo confronto con una cinquina d’altri candidati di lui molto più giovani o altrettanto vecchi, ma politicamente più nuovi, come il “socialista” Bernie Sanders. Alla fine – vedi questo articolo di StrisciaRossa – aveva stravinto al termine d’una irresistibile cavalcata, Stato dopo Stato. Ed era stato lui a vincere, ha sottolineato Biden, perché solo lui poteva davvero garantire un fronte unito e vincente contro la nefasta prospettiva – nefasta per la democrazia – d’un secondo mandato di Donald Trump.
La storia, ha detto e ripetuto Biden, si può ripetere. Anzi, già si sta ripetendo. Ma in realtà il presidente altro non ha fatto, rievocando il sé stesso d’un tempo, che aggiungere una nota di personale arroganza alla sua debacle. “È tornato ad esaminare la sua prestazione nel dibattito?”, gli ha chiesto il conduttore. No, ha risposto Biden, lasciando intendere che non c’era alcun bisogno di revisioni perché lui già sapeva come e perché era accaduto quel che era accaduto. Una giornata storta, niente più che una giornata storta dovuta al jet lag per il viaggio a Europa della settimana prima e ad un fastidioso raffreddore…Ritirarsi dalla contesa? Neanche parlarne salvo, per l’appunto, un intervento diretto di Dio Onnipotente…Come si sentirebbe – ha domandato Stephanopoulos alla fine dell’intervista – dovesse, dopo aver deciso di restare in corsa, perdere il confronto don Donald Trump? Mi sentirei, dopo aver dato nella battaglia tutto me stesso, perfettamente a posto con la mia coscienza, ha risposto Biden in una molto “trumpiana” testimonianza d’egocentrimo narcisista. Come se la cosa riguardasse soltanto lui ed il suo orgoglioso uscire “a testa alta” e non il Paese, non i destini di una democrazia in pericolo.
Una definitiva, inequivocabile sentenza. Peggio: una legge della natura
In un apparente paradosso – apparente perché in realtà si tratta d’una spiegabilissima e prevedibilissima conseguenza del dibattito – la catastrofica performance di Biden non ha trovato che un minimo riscontro nei sondaggi. Un paio di punti di svantaggio – ampiamente dentro il famoso “margine d’errore” – aveva Joe Biden su Trump prima del dibattito. Da tre a cinque (e sempre dentro il margine d’errore) ne ha ora, dopo il dibattito. Prima del dibattito il 72-73 per cento degli americani considerava Biden “troppo vecchio” per reggere il peso della presidenza. Oggi, dopo il dibattito, quella percentuale viagga, secondo i sondaggi, attorno al 75, 77 per cento. Solo che quello che prima poteva – almeno agli occhi dei più ottimisti – sembrare solo un segnale d’allarme è oggi una definitiva, inequivocabile sentenza.
Ed inequivocabile appare anche, allo stato delle cose, il fatto che quel presidente-candidato “troppo vecchio” intende continuare la corsa fino in fondo. In una lunga lettera rivolta al Partito, Joe Biden ha, giorni fa, ritrovato la chiarezza di pensiero e l’aggressività che tanto clamorosamente gli avevano fatto difetto durante il dibattito con Trump. E le ha ritrovate, curiosamente, con toni a tratti molto “populistico-trumpiani”, quelli dell’outsider che, contro venti e maree, nel nome del popolo sfida le élite e l’establishment del suo proprio partito. Io sono il presidente, ha scritto in sostanza Biden, io ho vinto le primarie ed io sono oggi e sarò fino alla fine il candidato democratico. E se qualcuno mi vorrà sfidare lo dovrà fare davanti alla prossima Convenzione.
Una partita ancora apertissima
Il che, nella più classica delle “lose lose situation”, lascia il Partito democratico di fronte ad una serie di scelte, Tutte perdenti. Cercare – nonostante la perentorietà del rifiuto del presidente – di convincere Biden a cedere il posto alla sua vice Kamala Harris (che, peraltro vanta oggi indici di gradimento non troppo dissimili da quelli di Biden), aprire la strada a mini-primarie – alle quali, ad oggi, nessuno sembra peraltro disposto a concorrere – in vista d’una Convenzione che, inevitabilmente, vedrebbe un partito non solo diviso, ma caoticamente frammentato. O infine provare, in un clima d’ormai universale scetticismo, a stringer le fila attorno ad un presidente che una travolgente maggioranza dell’elettorato irreversibilmente (e con granitica, impietosa certezza dopo il dibattito) considera ormai ”fuori età”.
La partita rimane apertissima. Ed il voto di novembre continua ad essere il più irrisolto degli enigmi. Ma l’America – ed i Capi di Stato che oggi, sotto le bandiere della Nato, si riuniscono a Washington – bene faranno ad abituarsi all’idea (inquietante, nella più rosea delle ipotesi, per chi crede nella democrazia) d’un secondo mandato di Donald Trump. Chissà. Forse davvero non resta, a questo punto – almeno per chi è credente -che invocare l’aiuto di Dio Onnipotente.