21/3/2001 “Jesus Christ! That old cocksucker!”. Gesù Cristo! Quel vecchio succhiacazzi! Fu con queste parole che, stando a ben più d’una attendibile ricostruzione storica, l’allora presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon – notoriamente mai avaro allorquando si trattava di profferire, in privato, parolacce, bestemmie ed affini – accolse l’inattesa notizia della morte di J. Edgar Hoover. Vale a dire: dell’uomo che per 48 anni (un “quarto dell’intera storia della Nazione”, come lo stesso Nixon avrebbe due giorni dopo fatto notare nel suo panegirico presidenziale) aveva retto le sorti del Federal Bureau of Investigation, creatura da lui stesso partorita, educata ed alimentata come un buon padre. O, per meglio dire, come un padre-padrone.
Era la mattina del 2 maggio 1972. E da meno di un’ora il corpo di Hoover era stato ritrovato, nudo ed esanime al lato del letto, stroncato da un attacco cardiaco nella sua abitazione al numero 4936 di Thirthiet Place, N.W., nel cuore della capitale. Ad accertarne il decesso era stato uno dei più fidati agenti del Bureau, James Crawford, arrivato di buon ora per aiutare il gran capo (i cui ordini non si discutevano, poco importa quale fosse la loro natura) in una leggiadra e molto poco poliziesca impresa: la sistemazione d’una serie di piantine di rosa nel giardino retrostante la casa. L’orologio marcava le 8,30, un’ora che di solito vedeva J. Edgar Hoover ben lavato, ben vestito e pronto ad iniziare, seppur non sempre di buon umore, una nuova giornata. Ma non quella mattina. Ann, la governante, aveva stavolta atteso invano, per oltre un’ora, che il suo prestigioso datore di lavoro scendesse come sempre per la colazione. Ben sapendo che J. Edgar Hoover amava dormire in abiti adamitici, Ann, combattuta tra preoccupazione e senso del pudore, non aveva fin lì avuto la sfrontatezza di violare – cosa che mai aveva fatto in oltre 20 anni d’onorato servizio – l’intimità della camera da letto. Ed era così toccato a Crawford salire le scale, bussare invano alla porta ed essere il primo esterrefatto testimone d’un evento che i media avrebbero immediatamente definito “la fine di un’epoca”. L’epoca di J. Edgar Hoover.
Ma chi era stato, davvero, il “vecchio succhiacazzi” che quella mattina era tanto repentinamente e tanto banalmente passato a miglior vita? Che cosa aveva davvero rappresentato – quale “epoca” aveva incarnato, nella storia d’America – quell’uomo morto cinque mesi dopo aver compiuto i suoi 77 anni, due terzi dei quali trascorsi alla testa della più poderosa organizzazione di polizia del pianeta?
Va da sé che, due giorni dopo, nel commemorare privatamente il caro estinto sotto le volte della National Presbiterian Church di Washington (la cerimonia ufficiale d’addio s’era svolta, il giorno prima, come si conviene ai più grandi figli della Patria, nella solennità della Rotunda di Capitol Hill), Richard Nixon avrebbe fatto uso di espressioni molto più consone alla circostanza. J.Edgar Hoover – disse con molto compunta commozione – è stato una “leggenda vivente”, una delle poche persone “la cui grandezza non ha dovuto attendere la morte per essere universalmente riconosciuta”, un uomo che come pochi altri ha, con il suo esempio, aiutato a “temprare l’acciaio” col quale è stata forgiata “la spina dorsale d’una nazione” nella cui anima “arde la fiamma della libertà…”. Questo disse di Hoover quello che, tra gli otto presidenti regnanti in quei 48 anni, era stato forse il più “hooveriano”. E che (come vedremo) proprio dall’ultimo bagliore dell’ “hooverismo” sarebbe stato di lì a poco – in un estremo paradosso della Storia – a sua volta fulminato. Parole alate. Parole solenni.
E tuttavia, sotto le coltri della leggenda, il monumento la cui perenne gloria s’andava in quelle ore celebrando, era in effetti stato anche un “succhiacazzi”. O, per meglio dire: una di quelle persone che, come molti altri ancor oggi, Richard Nixon amava, nei suoi più spontanei e sboccati momenti d’intima sincerità, definire tali.
J. Edgar Hoover – il grande collezionista di altrui segreti che tanti altri cittadini aveva ricattato e perseguitato utilizzando e diffondendo prove (o, più spesso, solo insinuazioni) sulla loro omosessualità – era infatti, lui stesso, un omosessuale. Lo era in maniera occulta e, contemporaneamente, ufficialissima. Per quanto negata al punto da perseguitare chiunque avanzasse sospetti in questa direzione, l’omosessualità di Hoover era anzi parte – ovvia e, insieme, ovviamente discreta – del suo lavoro o, ancor meglio, della stessa struttura gerarchica dell’organizzazione che aveva creato e che, da sempre, dirigeva come un sovrano assoluto. Hoover, morto da “single”, aveva vissuto fino a ben oltre il suo quarantesimo compleanno nella casa della mamma, Anna Marie Scheitlin. E di lui non si conoscono avventure sentimentali con persone dell’opposto sesso che non siano quelle (vedi il caso del suo rapporto con l’attrice Dorothy Lamour) ch’egli stesso aveva sapientemente cucinato, ad uso dei media, proprio per dissipare le voci sulla sua omosessualità.
Eppure J. Edgar Hoover era sposato. Con il Fbi, in senso metaforico. Ed in molto più concreto senso famigliare (e, presumibilmente, anche carnale) con l’uomo che, nel Fbi, occupava lo scranno alla sua destra. Ovvero: con Clyde Tolson, Associate Director e, fino all’ultimo giorno di vita di Hoover, “numero due” del Bureau. J. Edgar e Clyde erano, a tutti gli effetti, una coppia. Insieme passavano le vacanze. Insieme, pur vivendo formalmente in due case separate da non più d’un isolato, pranzavano e cenavano tutti i santi giorni. Insieme passeggiavano, ogni mattina, lungo Constitution Avenue. Ed insieme, tutto lo lascia credere, dormivano con matrimoniale frequenza. Il 3 maggio del 1972, al termine della cerimonia funebre ufficiale nella Rotunda, fu proprio Clyde a ricevere la bandiera, privilegio di norma riservato alla moglie dell’eroe scomparso. E fu proprio Clyde Tolson l’unico erede delle proprietà (non molte, dato che Edgar J. Hoover, grande corruttore, non fu un uomo corrotto) del defunto direttore del Fbi.
Nel 1993, in un libro dal titolo “Official and Confidential: The Secret Life of J. Edgar Hoover”, il giornalista Antony Summers ha ricostruito – sulla base di assai dubbie testimonianze – storie di lussuriosi festini omosessuali dominati da un Hoover che amava vestirsi da ballerina di cabaret. Ma – a parte la poetica giustizia di vedere vittima postuma dei suoi stessi metodi l’uomo che tante volte aveva fatto uso, contro i suoi nemici, dei più volgari stereotipi anti-gay – ben poco di vero sembra esserci in questa sorta di “bunga bunga” hooveriano. J. Edgar e Clyde erano, quasi certamente, due amanti sobri e fedeli, vittorianamente scevri d’ogni eccesso sessuale, forse persino del tutto casti e, sicuramente, spaventati da ogni fisico trasporto. Qualcuno, paradossalmente, ha di recente affermato che proprio la loro relazione potrebbe, nella sua castigata e molto “conservatrice” eleganza, se non nella sua natura clandestina, essere oggi usata come propagandistico esempio dell’ineluttabilità e della giustezza della legalizzazione del matrimonio gay…
J. Edgar Hoover, era stato tuttavia, ovviamente, ben più d’un “vecchio succhiacazzi”. In un sistema fondato sulla temporaneità del potere politico personale e sulla realtà dei “checks and balances”, o sull’equilibrio determinato dai limiti istituzionali e dai reciproci controlli, l‘ “inventore” del Fbi era stato – e sarebbe rimasto – un’assoluta eccezione. O, più esattamente: l’unico personaggio della storia d’America di fatto titolare (e con immensi poteri) d’una carica “a vita”. Volendo, anzi, ricorrere ad un molto forzato – e proprio per questo molto efficace – parallelo, si può affermate che il ruolo di Hoover sia stato, nella storia della democrazia americana, in essenziali aspetti molto simile a quello che, nella teocrazia iraniana, da trent’anni ricoprono i guardiani della rivoluzione. La legge al di fuori della legge, perché al di sopra della legge. Il potere oltre il potere. Anzi: il potere “prima” del potere. Per i guardiani della rivoluzione islamista la fonte di questo potere è, ovviamente, Dio. Per J. Edgar Hoover che pure – come anche Nixon ha ricordato nel suo discorso funebre – considerava la Bibbia una “guida alla vita quotidiana”, quella fonte erano, invece, due correlati e, a loro modo, religiosamente laici principi: una precisa idea dell’America – delle sue innate virtù e dei suoi potenziali vizi – e la paura che qualcuno potesse, quell’idea, corromperla, moralmente e politicamente, “da dentro”. O, più concretamente: un ossessivo odio per la “sovversione”. Quasi sempre – anche se non esclusivamente – intesa come sovversione di sinistra.
Tornando alle parole, ancora una volta illuminanti, di Nixon: “Il bene che J. Edgar Hoover ci ha regalato, non morirà…perché la tendenza al permissivismo, una tendenza contro la quale Edgar Hoover ha lottato tutta la sua vita, una tendenza che è andata pericolosamente erodendo la nostra eredità nazionale come popolo rispettoso delle leggi, è stata finalmente invertita…”. Nixon aveva ragione: Hoover si era battuto, per quasi mezzo secolo, per garantire il rispetto della legge. E per questo, nel nome di un superiore principio, la legge aveva sistematicamente violato.
Mentre, infatti, nella navata della National Presbiterian Church, il presidente si profondeva in sperticati elogi dell’eroe defunto, un’altra molto meno ufficiale ma ancor più importante cerimonia andava dipanandosi, a ritmi frenetici, nell’ufficio di Helen Gandy, da sempre segretaria di J. Edgar Hoover e, come tale, vigile custode dei suoi segreti. Obiettivo: la totale distruzione di tutte le informazioni (“the files”) che J. Edgar Hoover aveva illegalmente raccolto – e che illegalmente aveva usato – per difendere la legge dalle manovre dei suoi nemici. Nemici tra i quali, secondo l’Hoover-pensiero, andava annoverata anche la sua (della legge) eccessiva (o eccessivamente legale) blandizia. Una montagna cartacea che J.Edgar Hoover aveva catalogato sotto la lettera “D”. D, naturalmente come “distruction”. L’operazione durò diverse settimane, mentre, invano, il nuovo direttore del Fbi, L. Patrick Gray III, fresco nominato da Nixon, andava cercando, lontano da quel santuario, il carburante che aveva alimentato l’intoccabilità del suo predecessore.
Su Hoover sono, in questi anni, corsi i proverbiali fiumi d’inchiostro. Molto si è scritto su come, entrato nel Dipartimento alla Giustizia a soli 25 anni, Edgar fosse diventato capo della Enemy Aliens Registration Section, scoprendo lí la sua vera vocazione: quella di (parole sue) “combattente contro il nemico interno”. Su come si fosse fatto le ossa organizzando, nel 1921, la prima vera retata anticomunista – o “red scare”, come si chiamò – della storia degli Stati Uniti (i cosiddetti “Palmer Raids, da A. Mitchell Palmer, l’allora capo del Justice Department). Su come nel 1924, appena 29enne, avesse ereditato, per volontà del presidente Calvin Coolidge, il comando del Bureau of Investigation, una minuscola, inefficiente ed assai corrotta struttura di coordinamento poliziesco, trasformandola, in un lasso di tempo straordinariamente breve, nel Federal Bureau of Investigation, la più potente ed efficiente forza di polizia del mondo. Innumerevoli sono le analisi della sua spietata caccia, agi inizi degli anni ’30, alle bande di rapinatori di banche del Midwest e, per contro, della sua riluttanza a combattere con analogo vigore – Hoover negò sempre l’esistenza di un “crimine organizzato” – le gang mafiose che, negli anni ’30, in non poche città, controllavano il potere politico.
Molti sono gli studi sullo sua tenebrosa personalità, sullo zelo col quale distruggeva, a colpi di “files” sapientemente messi in circolazione, non soltanto i “sovversivi”, ma anche coloro che, all’interno della sua organizzazione, minacciavano di fargli ombra (su tutti il caso dell’agente Melvin Horace Purvis, l’uomo che nel luglio del 1934 uccise Dillinger, guadagnandosi parte d’una fama che Hoover voleva tutta per sé). E non si contano i volumi che descrivono l’ambiguità dei rapporti che J. Edgar Hoover, forte dei suoi dossier archiviati sotto la lettera “D”, ha per mezzo secolo intrattenuto con tutti gli otto presidenti (democratici e repubblicani) al cui comando ha servito. O quelli che, anno dopo anno, continuano ad essere pubblicati sulle attività – tutte immancabilmente anticostituzionali, come inequivocabilmente stabilì, nel 1979, una inchiesta congressuale – del COINTELPRO (Counter Intelligence Program, un piano di infiltrazione e provocazione in pressoché tutte le organizzazioni di sinistra); quelli sul ruolo, mai limpido, che il Fbi, ebbe in tutti i “magnicidi” – John e Bob Kennedy, Martin Luther King – che marcarono la vita americana nei turbolenti anni ‘60. O, ancora, quelli sui dossier che, per ordine di Hoover, il Fbi raccolse su alcuni eccellenti “sovversivi”, da Albert Einstein, a Frank Sinatra, da Charlie Chaplin a John Lennon…
Ma, volendo riassumere questa tenebrosa e tortuosa vicenda lunga mezzo secolo, nulla appare in realtà più significativo , come in una sorta di gran finale, del caso del presidente al quale il destino ha riservato il compito di celebrare la morte del direttore “a vita” del Fbi. Nixon era, per molti aspetti, una creatura di Hoover. Poiché proprio a Hoover – ed alla generosità con cui, manipolati o autentici che fossero, quest’ultimo gli passava i suoi “files” – doveva, giovane rappresentante della California, il suo primo vero successo politico: l’inchiesta congressuale (da molti considerata il vero preludio del maccartismo) contro Alger Hiss, nel 1948 accusato (ancor oggi si discute sulla sua colpevolezza o innocenza) d’essere una spia sovietica. E proprio da Hoover – o da quello che di Hoover restava, Nixon sarebbe stato distrutto appena qualche mese dopo il suo discorso nella National Prebiterian Church. Come? Con quello che le cronache chiamarono il “Watergate”. E che, per quanto passato poi alla storia, non del tutto a torto, come uno dei più rinomati esempi di libero giornalismo ai suoi più alti livelli, fu anche, anzi fu soprattutto, in effetti, una storia compiutamente “hooveriana”. O, meglio: l’ultima delle storie hooveriane. Ed anche, a suo modo – ora che tutta la verità è venuta a galla – una storia molto semplice.
Nixon, saputo della morte del “vecchio succhiacazzi”, decise all’istante di rimpiazzarlo, non con il primo della fila gerarchica da Hoover definita, ma con un suo uomo di fiducia, il sunnominato Patrick Gray, al quale affidò un compito immediato e preciso: trovare i “files” e consegnarglieli, impadronirsi della “spada nella roccia”, della fonte della forza e del potere che, per quasi 50 anni, avevano incollato Hoover alla poltrona del Fbi. Mark Felt, numero tre del Bureau e naturale erede di Hoover (Clyde Tolson era troppo vecchio e malato) visse quella scelta non solo e non tanto come un personale sgarbo, quanto come l’inizio della fine della “neutralità politica” del Fbi, del ruolo di “supremo ed apartitico garante” – o, per l’appunto, di guardiano della rivoluzione – che lo straordinario ed incontestato potere personale di J. Edgar Hoover aveva fin lì garantito al Bureau. E nel segno di Hoover Felt divenne – come nel 2007, un anno prima di morire, ufficialmente ammise – “gola profonda”…
Fu questo il colpo di coda del “hooverismo” morente? Molti ritengono di sì. Anche se non è facile, ancor oggi, capire quanti dei germi avvelenati di quella vecchia malattia continuino a circolare, pur in assenza della causa prima dell’infezione, nel sangue della democrazia americana. Qualche anno fa – nel pieno di uno degli ennesimi scandali postumi legati alle attività di Hoover, alcuni senatori proposero di cambiare l’ormai imbarazzante nome dell’edificio che ospita la sede centrale del Fbi (chiamata, per l’appunto “J. Edgar Hoover Building”). Ma la proposta finì nel nulla. Perché? Probabilmente – mutatis mutandi – per le stesse ragioni che, lungo 48 interminabili anni, spinsero otto presidenti a confermare in carica, dopo qualche iniziale proposito di sostituzione, il capo del Fbi, addirittura varando, per questo, una legge speciale (fu il caso di Lyndon Johnson) che liberava Hoover dall’obbligo, ineludibile per tutti gli altri alti funzionari di governo, di pensionarsi compiuti i 70 anni…
In altri tempi (ed in altre latitudini politico-geografiche) qualcuno avrebbe commentato: “J. Edgar è vivo e lotta insieme a noi”…