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Ingrid, il dito e la luna

13 agosto 2007

di M.C.

Gli sciocchi, ancora una volta, hanno guardato il dito. Ed il dito – volendo seguire il filo della celebre metafora attribuita alla buonanima di Mao – era, nel caso specifico, la storia del riscatto di venti milioni (clicca qui per approfondire) diffusa da una radio della Svizzera Romanda, di gran lunga la più gettonata tra le più o meno verosimili versioni “dietrologiche” o cospirative dell’ operazione (militare e teatrale al tempo stesso) che, il 2 luglio, ha portato alla liberazione di Ingrid Betancourt e di altri 14 ostaggi. Quanti invece hanno doverosamente guardato là, dove il dito indicava – ovvero, alla luna – hanno avuto modo di vedere un corpo celeste, non solo molto più luminoso di quanto fosse lecito attendersi, ma anche, eccezionalmente, illuminato di luce propria. Non un satellite, ma una vera e propria stella destinata a brillare a lungo nei cieli della politica colombiana e internazionale.

Fuor di metafora: l’Ingrid Betancourt che, nell’aeroporto di Bogotà, libera da non più di qualche ora, s’è infine rivolta al mondo (o alla selva di telecamere e microfoni che, forse per rendere meno traumatico il passaggio dalla giungla alla civiltà, la collegavano al mondo), ha mostrato ben più della sua felicità, o del suo corpo smagrito da sei anni di prigionia. E ben più, anche, d’una eloquenza (bilingue) che pareva uscita intatta – o addirittura rafforzata – dal lungo tunnel d’un isolamento rotto soltanto dalla luce d’una radio a transistor. Quella che parlava era a tutti gli effetti, per dirla con un titolo de La Semana, la “candidata Ingrid” , una lucida mente politica che riprendeva – aggiornandolo con straordinaria puntualità – il discorso che il rapimento delle Farc aveva drammaticamente interrotto il 23 marzo del 2002. (vedi anche l’intero numero de La Semana da titolo di copertina “Ingrid presidenta?”)

Non a tutti è piaciuto quello che Ingrid andava dicendo. Particolarmente laddove, rispondendo a una domanda, l’ex sequestrata aveva senza mezzi termini indicato nella rielezione del presidente Uribe – notoriamente ottenuta grazie ad un emendamento costituzionale molto contestato e, si dice, fraudolento – il “più duro colpo inflitto alle Farc”, abituate a muoversi come pesci nell’acqua della storica precarietà istituzionale della Colombia. Ed alcuni (i più sciocchi tra gli sciocchi di cui sopra) hanno addirittura letto le sue parole come parte d’una cosmica congiura, o d’una colossale messinscena nella quale tutti – dalle autorità colombiane alla stessa Ingrid, dalle Farc ai grandi media internazionali – erano più o meno consapevolmente coinvolti. Imperdonabile colpa della liberata (ora divenuta una marionetta nelle mani dei cospiratori che avevano spezzato le sue catene): l’aver criticato, rispondendo ad una domanda, il modo con cui Hugo Chávez – la cui partecipazione alla ricerca d’un “accordo umanitario” Ingrid ha peraltro definito “importante” – aveva a suo tempo reagito alla brusca interruzione, sancita da Uribe, delle sue attività di mediatore. Chávez – aveva detto in sostanza Ingrid – ha giocato e può continuare a giocare un ruolo positivo nella ricerca della pace. A patto, naturalmente, che rispetti il presidente democraticamente eletto dai colombiani. Tutto qui. Ma tanto è bastato per mettere in moto, in uno sfrenato fuori giri, l’inquieta e mai doma macchina della complottologia, sempre pronta – come la proverbiale madre degli imbecilli – a partorire nuovi pargoli.

Chi fosse interessato ai dettagli di questo grande e cosmopolita anatema (la stupidità non ha, notoriamente, frontiere) può leggere (in italiano) questo articolo – nelle intenzioni ironico, ma , in realtà, colmo di livore – del prof. Gennaro Carotenuto (sì, proprio lui, il bellimbusto che, tempo fa, aveva accusato 2Americhe d’essere una filiale della Cia); oppure (in francese) questa molto analoga sbrodolata di Fausto Giudice; questo splendido esempio di prosa cospirativa di Gilberto López Rivas (in spagnolo, da la Jornada di Cittá del Messico); o, ancora, sempre in spagnolo, questo editoriale scritto da Pascual Serrano, direttore di Rebelión, nella sua rozzezza forse il più illuminato esempio d’osservazione del dito in presenza della luna. Argomento principe di queste stizzite analisi (delle ultime due in particolare): Ingrid non ha, in realtà, “tradito” nessuno. Semplicemente s’è rincontrata – fatalmente rincontrata, come in una tragedia greca – con la classe alla quale appartiene. Ovvero, per ripetere quel che scrive Serrano, con quella “borghesia danarosa della Colombia” della cui politica Ingrid è oggi, tornata libera, divenuta una sorta di “madonna pellegrina” (la metafora è del Carotenuto), una statua, un santino, la madre Teresa d’una reazione internazionale più che mai bisognosa di processi di beatificazione e di miracoli. Nonché, ovviamente, la più visibile icona della campagna per la rielezione di Álvaro Uribe.

Cretinate. Cretinate, tra l’altro, che lo stesso Dio offeso (Hugo Chávez) già ha, a sua volta, implicitamente catalogato come tali, telefonando ad Ingrid (una settimana dopo la sua liberazione, quando quest’ultima, a Parigi, già andava riprendendo le fila della battaglia per la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani delle Farc) per darle la sua ammirata disponibilità ad una iniziativa di mediazione internazionale (vedi agenzia della Associated Press). Il punto è che, fin dal momento del suo ritorno in libertà, Ingrid Betancourt ha fotografato – con stupefacente lucidità, a testimonianza d’un talento politico che la lunga prigionia, non solo non ha intaccato, ma ha probabilmente approfondito – il presente ed il futuro della Colombia. Non per saltare sul carro della rielezione di Uribe, ma, al contrario, per cogliere – oltre gli anatemi e gli slogan – la vera debolezza, la contraddizione di fondo dell’uribismo.

Non v’è dubbio che, in queste prime due settimane di libertà, Ingrid Betancourt abbia sofferto d’una palese e, a tratti, soffocante “sovresposizione mediatica”. La qual cosa fa sì che non facilissimo sia, a questo punto, ritrovare il filo del discorso nel dedalo delle troppe interviste, troppo spesso alimentate da domande che riflettono soltanto l’insostenibile leggerezza dei grandi media internazionali (vedi, a tal proposito, il caso del TG1 italiano). Ci pare tuttavia che, volendo sintetizzare, la frase più importante, essenziale, sia quella che Ingrid ha ripetuto nel corso della sua intervista a BBC Mundo: “Sin Farc, no hay Uribe”. Senza Farc non c’è Uribe. In sostanza: le Farc – la loro arroganza, l’odio popolare che le ha circondate dopo il fallimento delle trattative di pace di El Caguán – hanno creato Uribe. E Uribe ha, a sua volta, creato la politica politico-militare (la cosiddetta politica di “Seguridad democratica” – che, oggi, ha costretto le Farc nell’angolo. Il paradosso – il paradosso dal quale può nascere una nuova speranza per la Colombia – sta, in fondo, tutto qui: nel fatto che i successi di Uribe hanno creato, ed al tempo stesso rimesso in discussione, le ragioni di un terzo mandato. Perché senza la paura delle Farc non c’è Uribe. E perché proprio l’indebolimento (probabilmente terminale) delle Farc è, di fatto, destinato a minare le basi dell’uribismo. Di qui, Ingrid sembra intenzionata a ripartire.

Di qui e dal “provocatorio” invito che – in questi giorni più volte riproposto dai media più attenti – la stessa Ingrid aveva rivolto alle Farc nel corso di un pubblico confronto a San Vicente del Caguán il 12 marzo del 2002. Erano, quelli, gli ultimi giorni – giorni d’agonia – del processo di pace che il presidente Andrés Pastrana aveva aperto alla fine del ’98, concedendo alle Farc un territorio demilitarizzato grande quanto la Svizzera. Tessere la tela della pace, aveva detto in sostanza Ingrid, diventa ogni giorno più difficile, ma c’è qualcosa che voi potete fare – e fare unilateralmente – per riaccendere la speranza: rinunciate ai sequestri di persona. Dall’altra parte del tavolo, Rául Reyes, il capo guerrigliero morto tre mesi or sono nel bombardamento d’una base Farc in Ecuador, l’ascoltava con l’ironica condiscendenza di chi, come si usa dire, ha i piedi per terra. Rinunciare ai sequestri? Di sequestri – sembrava dirle con lo sguardo quello che, per l’anagrafe, era Luis Edgar Devia – le Farc non solo vivono, ma vivono al punto che, proprio per alimentare questa fonte di vita, stanno usando, alla faccia tua e di tutti quelli che credono nella pace, il territorio “libero” del Caguán. Una settimana più tardi, proprio a seguito del sequestro d’un senatore, il processo di pace, ormai divenuto un guscio vuoto ed inviso alla stragrande maggioranza della popolazione, s’interrompeva. La stessa Ingrid, seguendo la linea d’un quasi paradigmatico destino, veniva a sua volta sequestrata. E quei medesimi colombiani che, quattro anni prima, avevano premiato nelle urne le promesse di pace di Andrés Pastrana, aprivano le porte di palazzo Nariño ad Álvaro Uribe…

Vedremo, ora, quel che accadrà quando le molte polveri sollevate dalla tempesta mediatica che, nei due continenti, ha fatto da contrappunto alla liberazione del 2 luglio, si saranno infine sedimentate. Forse ad Ingrid tornerà a capitare – corsi e ricorsi della Storia – quel che quel che, nel 2002, aveva finito per impantanare la sua campagna presidenziale. Forse la Colombia tornerà a vederla come una sorta di corpo estraneo (al momento del suo rapimento, i sondaggi le concedevano un’assai magro 1% dei voti), una presenta paternalistica (o maternalistica) colma di europeizzante arroganza. Forse una troppo prolungata assenza (Ingrid Betancourt conta, per ragioni di sicurezza, di restare in Francia per qualche mese ancora) finirà per logorare (o diluire) il suo messaggio politico. Ma certo è che, allo stato delle cose, proprio da Ingrid Betancourt e dalla sua analisi delle contraddizioni dell’uribismo, viene, non solo una rinnovata speranza di pace, ma anche l’unica seria minaccia alla terza rielezione di Álvaro Uribe. Ancora è da vedere se la Colombia ha ritrovato, uscita dalla giungla, la candidata presidenziale che aveva perduto il 23 marzo del 2002. Ed ancora prematuro (come fa Moises Naim in quest’articolo) è parlare d’una “Mandela colombiana”. Ma – a dispetto degli sciocchi che guardano il dito – la Colombia ha comunque riscoperto una protagonista della sua vita politica.

Quanti affermano che oggi, ad Uribe, i complimenti di Ingrid Betancourt fanno molta più paura degli insulti di Chávez (che peraltro, sembrano essere, anch’essi, cose del passato) hanno probabilmente più d’una ragione da vendere…

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