“Triste, solitario y final”. Così, riprendendo la celebre battuta che chiude “The Long Goodbye” di Raymond Chandler, lo scrittore argentino Osvaldo Soriano aveva, tempo fa, intitolato uno dei suoi romanzi più belli. E così, a dispetto dell’ondata di retorica melassa che, come uno tsunami dopo un maremoto, ha fatto seguito all’annuncio della sua morte, potrebbe tranquillamente intitolarsi, oggi, la storia del “Lungo addio” di Diego Armando Maradona, indiscusso ed universale dio del gioco del calcio. La storia che Soriano raccontava era – come ben sa chi ha avuto la fortuna ed il piacere di leggere il libro – quella di Stan Laurel, il grandissimo “Stanlio” (El Flaco, nella versione spagnola) protagonista, in coppia con Oliver Hardy (“Ollio”, “El Gordo”), di centinaia di indimenticabili film comici. Anche lui, a suo modo, un “dio”, il volto, la voce, l’immagine ed il suono di qualcosa che trascende il tempo. Qualcosa che, nel suo caso, non era l’epica memoria d’un goal, d’una infinita “gambeta” (il celeberrimo, interminabile dribbling della seconda, mitica rete maradoniana contro l’Inghilterra nei mondiali dell’86), d’una coppa levata al cielo, o d’un tiro di punizione che violava le leggi della natura; ma dell’effimera, irripetibile (e proprio per questo eterna) felicità d’una risata, l’intrinseca, poetica bellezza d’un fuggevole ma – come nel caso delle “gambetas” di Maradona – autentico istante di vera gioia. La trama del romanzo di Soriano si dipanava, com’è noto, nel silenzio e nell’oblio, con un decrepito Marlowe-Soriano impegnato, in una molto cupa Los Angeles, a ricercare, su incarico d’un ormai morente Stan, le ragioni per quali Hollywood s’era scordata di lui, abbondonandolo al suo destino. Ed è esattamente così – triste, solitario y final – che alla fine, dimenticato come un vecchio straccio, Stan parte per il suo ultimo viaggio.
Per Diego Armando Maradona – come solo chi ha avuto la fortuna di cadere in letargo nell’ultima settimana ha potuto ignorare – è accaduto l’esatto contrario. Il baccano provocato dalla sua morte è stato assordante. Anzi: è a tutti gli effetti stata, quella che ha fatto da coda alla sua dipartita (e, in pratica, a tutta la sua vita), una fragorosa corsa a ricordare, a celebrare, esaltare, idolatrare. E ci ha, questo baccano, regalato un po’ di tutto. Lacrime e sangue, vesti lacerate e capelli strappati, onori di Stato – quelli organizzati dal governo peronista argentino, con ovvii fini propagandistici, all’interno della Casa Rosada – tradottisi in bolge dantesche, con scontri, lacrimogeni ed arresti, selfie rubati nella camera ardente, folle istericamente accalcate, in piena pandemia, per le strade di Buenos Aires e nei quartieri di Napoli. E ancora: grida, altari, candele, fuochi artificiali, canti, preghiere. Ma soprattutto – come in una vecchia canzone di Mina – parole, parole, parole. Un mare di parole nel quale, solo con molta fortuna e con infinita pazienza, si riescono a pescare momenti di vera poesia (quella molto specifica poesia che solo chi ama il calcio può intendere) e di vera commozione…
Eppure, cambiando l’ordine dei fattori, il prodotto non cambia. Nel pieno di questo frastuono, anche Diego Armando Maradona se ne è in realtà andato, come il vecchio Stanlio, triste, solitario y final. “Diego era stanco, si è lasciato morire. Non voleva più vivere. Diego ha smesso di essere Diego quando ha compiuto 15 anni: da quando è diventato Maradona, è rimasto da solo”. Questo ha detto in una intervista radiofonica Stefano Ceci, uno dei suoi manager e pluridecennale amico. E questo raccontano le cronache delle sue ultime ore. Diego, da giorni, aveva smesso non solo di mangiare – lui, che per tutta la sua vita d’atleta aveva dovuto lottare contro una pantagruelica voglia di cibo – ma anche di comunicare col prossimo. Ed è partito in assoluta solitudine, senza una lacrima né un grido, ad una imprecisata ora della notte di martedì 25 novembre.
Nel suo “Cerrado por futbol” – pubblicato postumo nel 2017 – Edoardo Galeano (forse il più grande poeta del gioco del calcio) aveva definito Maradona “il più umano degli dei”. E questa frase molti hanno ripetuto nelle ultime ore, più per parlare del dio che dell’uomo. O meglio: più per sottolineare, con i più agiografici accenti, il suo “diritto divino” a stravizi ed eccessi tutti normalmente vietati e condannati nei comuni mortali, ma in lui valutati come giustificabilissime, inevitabili valvole di sfogo d’una altrimenti incontenibile e sacrale grandezza. Volendo restare a Galeano, è tuttavia un’altra, oggi – anzi, sempre è stata – la citazione più appropriata. Quella nella quale, nel suo “Futbol a sol y sombra”, lo scrittore uruguayano ricorda i tempi in cui, già prigioniero della droga, Diego continuava a giocare a Napoli solo grazie a dolorosissime infiltrazioni alla schiena. E sottolinea come questo avvenisse perché sulle spalle di Maradona sempre – fin da quando gli osservatori dell’Argentinos Juniors avevano messo gli occhi sul capelluto nanerottolo (“el pelusa”) che giocava con la squadra giovanile de “Los Cebollitas” – aveva gravato un “soffocante fardello chiamato Maradona”. Il fardello del mito di sé stesso, della propria predestinazione. Il fardello che, alla fine, lo ha ucciso.
Di questo fardello la parte più stonata – e per questo più pesante – è indubbiamente stata quella, chiamiamola così “extra-calcistica”, culturale e politica. Sempre che cultura e politica si possa definire la tragicomica idiozia con la quale da sempre – ed in queste ore in rossiniano crescendo – Diego viene definito “un filosofo” ed un esemplare “ribelle”. O, più ancora, un “rivoluzionario latinoamericano”, un simbolo di riscatto e di liberazione per i poveri e per “l’intero Sud del mondo”. Il tutto accompagnato dal riemergere, esponenzialmente moltiplicato nel numero e nel significato, di vecchi poster che regalano la versione editata – per metà Che e per metà Diego Armando – della più iconica immagine del “guerrillero heroico”.
In realtà Maradona – che davvero è cresciuto nella miseria di Villa Fiorito, nella immensa periferia di Buenos Aires, ma che a 16 anni già aveva cominciato a guadagnare cifre da nababbo – con la povertà ha sempre avuto il rapporto di chi, dalla povertà uscito, torna a confrontarla con la più pacchiana esibizione della propria ricchezza: orecchini di diamante, auto di super-lusso, cene luculliane, feste, droga e lussuria. Questo e – al di là di qualche generica parola d’amore per “il popolo” – niente più di questo è stata la sua “passione per i più umili”. Ed anche la sua “rebeldia”, il suo modo trasgressivo di comunicare con il mondo non sono a conti fatti stati che un riflesso, prevalentemente verbale, del suo “animo porteño”, una sorta (volendo restare ad un molto diffuso stereotipo latinoamericano) di “bastiancontrarianismo” per default o, ancor meglio, d’un assoluto, perentorio senso di superiorità (chi ha presente la figura del “bauscia” milanese può facilmente farsene un’idea) da sempre fonte di innumerevoli barzellette. La più famosa: sapete come si suicida un porteño? S’arrampica sul proprio ego e si butta di sotto. O ancora: sapete qual è il miglior affare del mondo? Comprare un porteño per quel che vale e rivenderlo per quel che crede di valere…
E null’altro che una barzelletta – molto ripetuta “a sinistra”, ma non per questo meno barzelletta – è anche stata, ed è, in ogni suo risvolto, la storia del Maradona “rivoluzionario latinoamericano”. Una barzelletta che comincia – e finisce – con due tatuaggi: quello del Che Guevara che Diego Armando s’era stampato sull’avambraccio destro, e quello con l’effige di Fidel Castro, scolpito sul polpaccio sinistro. Tutto lì. Niente prima e niente dopo. Perché, al di la di quelle due effigi e dell’oceano di parole che sempre ha accompagnato il mito, questo soltanto resta del Maradona “uomo contro il potere”. Un grande, grandissimo campione che ha dribblato il mondo – un vero eroe sportivo, un uomo ordinario che, sui campi di calcio, ha saputo fare straordinarie cose – ma che dal potere sempre è stato sistematicamente usato, dribblato, saltato come i proverbiali “birilli” delle cronache calcistiche. O come gli straniti difensori di sua maestà britannica in quell’indimenticabile incontro del 1986, nello stadio Azteca di Città del Messico, dai meno seri ricordato come la “vendetta” della sconfitta delle Malvine.
In Argentina, il “ribelle” Diego Armando, è in realtà sempre stato un uomo di governo. E sempre ha seguito, indifferente agli sbalzi di temperatura, gli ondivaghi cammini di quella molto argentina e senza colore variante di populismo – o di quel molto argentino sistema di potere – che, nato come fascista e cresciuto nelle più diverse (e spesso contrapposte) direzioni, va sotto il nome di peronismo. È stato “menemista”, Diego Armando, quando, regnante Carlos Menem – il presidente che lo nominò “ambasciatore” durante i mondiali di Italia ’90 – l’Argentina propugnava le più neoliberali delle politiche. Molte foto dell’epoca lo ritraggono con indosso una t-shirt con la scritta “Gracias Mingo” (Mingo come Domingo Cavallo, il ministro peronista dell’economia che, a fine millennio, fu architetto delle più “fondomonetariste” e catastrofiche riforme della storia argentina). Ed è poi diventato kirchnerista quando, con Néstor e Cristina Kirchner l’Argentina è andata, tra scandali e ruberie varie, in una direzione apparentemente opposta. Sempre dribblato. Sempre a suo modo “generoso”, ma sempre saltato come un birillo. Sempre usato, come quando, il giorno stesso della sua morte, il suo feretro è stato portato alla Casa Rosada ed esposto, in piena pandemia, all’isterico cordoglio delle plebi.
Si trattasse della sua Argentina, della Cuba di Fidel (“il mio secondo padre”, come il grande campione lo chiamava), o del Venezuela di Chávez-Maduro (del quale Diego s’era pubblicamente dichiarato “un soldato”), la logica del rapporto tra Maradona ed il potere – una logica a tutti gli effetti drogata – è sempre stata, in fondo, la medesima che, nei suoi anni più belli (e paradossalmente più distruttivi), quelli di Napoli, l’avevano spinto tra le braccia del clan dei Giuliano. Con la camorra napoletana Maradona era andato istintivamente a braccetto – al di là delle forniture di droga e dei festini alla cocaina – perché in quelle mani stavano le leve del comando. E per le stesse ragioni era – in circostanze ovviamente molto diverse – sbocciato il suo filiale amore per Fidel. Il castrismo, il guevarismo ed il chavismo di Diego Armando Maradona, non sono state, in ultima analisi, che questo: una molto superficiale devozione per l’uomo forte, un’appendice del più classico e vieto caudillismo latinoamericano.
All’Avana Diego Armando era arrivato per la prima volta nel 1987, poco dopo il trionfo mondiale. Ed all’Avana era tornato nel gennaio dell’anno 2000, dopo che, quasi per miracolo, al termine di un droga-party in quel di José Ignacio, un enclave uruguayano per la più danarosa élite argentina, i medici lo avevano salvato dalla morte per overdose di cocaina. E Cuba l’aveva accolto, ancora più morto che vivo, offrendogli le cure de La Pradera, un lussuoso centro di riabilitazione psichica riservato a chi paga (gli stranieri) e a chi comanda (per i i cubani “de a pie” che patiscono delle medesime dipendenze c’è il Mazorra, un centro psichiatrico non dissimile dai nostri vecchi manicomi, dove nel 2011, sedici persone morirono, per incurie, di freddo e di fame). Cinque anni era – tra andate e ritorni – durata la cura. Cinque anni ovviamente vissuti tutti pericolosamente, alla Maradona. Cinque anni che in questi giorni sono stati molto brevemente, ma molto efficacemente narrati, su El País di Madrid, da Mauricio Vicent, che era allora corrispondente del quotidiano spagnolo (le autorità cubane gli hanno ritirato le credenziali dieci anni fa, perché “dava un’immagine negativa del paese”. Leggi: diceva la verità).
A Cuba, scrive in sostanza Vicent, Maradona era lontano dalla cocaina (anche se c’è chi dice il contrario) ed era, come lui stesso amava ripetere, vicino a Fidel che considerava il suo primo terapeuta. Il vero problema era, tuttavia, che – droga o non droga – Maradona restava, anche a Cuba, vicino a se stesso. O, più esattamente: restava prigioniero del proprio mito. L’unica cura che lo poteva liberare – confessavano i medici che si di lui si occupavano – era “demaradonizzare Maradona”. Ed era una cura impossibile. La Pradera era una struttura aperta ed ogni volta che usciva, racconta Vicent, il paziente incontrava qualcuno (di norma un turista argentino) che gli diceva: “Non dar retta a nessuno, Diego. Tu sei dio”. Ed il dio tornava, puntualmente, a spendere le sue ore di libertà guidando (e distruggendo) auto di lusso in stato di ebbrezza (nel 2007 filtrò la storia, difficile dire quanto vera, ma molto verosimile, d’un suo incidente nel quartiere la Cotorra, con i servizi segreti pronti ad intervenire per cancellare dalla scena del crimine ogni traccia d’uso d’alcool), dilettandosi in un susseguirsi di orgette, rum sigari Cohiba e belle donne, a ricordo delle quali restano i tre (o più) figli cubani che, a detta degli avvocati di Maradona, si preparano ora a “complicare assai” i tempi ed i percorsi del prossimo capitolo: quello della ripartizione della materiale eredità del campione…
In questi giorni molti degli esegeti del “dio del pallone”, si sono affannati ad immaginare i suoi percorsi post-mortem, descrivendo paradisiaci incontri con il medesimo Padreterno (al quale Diego ancora ha da restituire la famosa “mano de Dios” con la quale marcò il primo goal all’Inghilterra), partite tra le nuvole con altri grandi campioni, o addirittura – il senso del ridicolo è merce rarissima quando il tema è Maradona – con gli altri “grandi rivoluzionari” che l’hanno preceduto. L’articolo di Vicent si chiude, invece, con il semplice racconto della partitella che, nel giorno dell’addio all’Avana, nel 2010, Diego Armando giocò – ed ovviamente stravinse per goleada – con i corrispondenti stranieri di stanza a Cuba. Fece sei goal, Diego. E tutti li celebrò – prima di tornare nel mondo, incontro al destino che martedì scorso, dieci anni dopo, avrebbe infine chiuso la partita della sua vita – con la stessa incondizionata felicità del bambino che fu, negli anni lontani de “Los Cebollitas”. E chissà che proprio così non siano, infine, andate le cose. Bello è pensare che davvero lì – nell’unico posto dove, oltre la soglia della solitudine che sempre lo ha accompagnato, Maradona può davvero riposare in pace – sia per sempre finita questa storia. Nella gioia del gioco. Nella vera eternità.