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Tuesday, December 3, 2024
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Il dopo-Trump è cominciato. Come finirà?

È fatta. Joseph Robinette Biden è, da ieri – con ormai irreversibile ufficialità – presidente degli Stati Uniti d’America. Il 46esimo della serie, per l’esattezza. E, con i suoi 78 anni, anche il più anziano, non solo in virtù dell’età anagrafica, ma anche per il tempo da lui impiegato – 12.279 giorni, tanti quanti ne sono trascorsi dall’annuncio del lancio, nell’aprile del 1987, della prima delle sue tre corse presidenziali – per raggiungere l’agognata meta della Casa Bianca. È stato davvero, a tutti gli effetti, un lungo cammino quello percorso da “Uncle Joe”. Lungo, accidentato in ogni sua parte, sempre “improbabile” (solo una decina di mesi fa, all’alba delle primarie democratiche, era stato da tutti dato per spacciato) e chiuso infine dalle peripezie d’un ultimo tratto di strada – le tredici settimane che ci separano dallo scorso 3 di novembre, giorno delle elezioni – che va indiscutibilmente annoverato tra i più tormentati e farsescamente cupi della Storia d’America. 

Come vuole la tradizione, Joe Biden ha pronunciato ieri il suo giuramento di fedeltà alla Costituzione al centro della grande scalinata di Capitol Hill. La stessa grande scalinata che, meno di due settimane orsono, la mattina del 6 di gennaio, aveva visto la “MAGA mob”, le orde pro-Trump, dare con successo l’assalto al Congresso. Nulla di simile, rammentano gli annali, era accaduto da quando, nel remotissimo agosto del 1814, le truppe di sua maestà britannica, vinta la battaglia di Chesapeake Bay, s’erano lanciate all’attacco di Washinton (allora una minuscola capitale con appena 8.000 abitanti) radendo al suolo tutti gli edifici pubblici. E lungo il Mall che da quella scalinata s’estende, passando per il Washington Monument, fino alla Reflecting Pool ed al Lincoln Memorial, non v’erano ieri, a rimirare il  giuramento del nuovo presidente, che bandiere. Una infinità di bandiere, ma niente folle, niente “popolo”, niente “we the people”. Solo il silenzio d’una nazione che, appena qualche ora prima, aveva superato la soglia delle 400.000 vittime d’una pandemia che sta sconvolgendo il mondo intero.

È stato qui, in questa sorta di storico crocevia, in questo drammatico confluire ed incontrarsi di crisi diverse ma egualmente profonde, che Joseph Robinette Biden, o Uncle Joe, il più anziano ed il più “improbabile” dei presidenti, ha cominciato ieri a camminare verso un incertissimo futuro. Lo ha fatto con belle parole, semplici e convincenti. “La democrazia è un bene prezioso – ha detto – la democrazia è fragile, la democrazia ha vinto”. E di questa vittoria lui ed il suo giuramento, consumatosi nell’ancor fragoroso ricordo dei vandalismi del 6 gennaio e nel silenzio delle folle, sono la prova tangibile. Lo sono senza trionfalismi e senza sconti, ha aggiunto, perché l’America è, oggi, un paese più che mai diviso. E perché ciò che questo paese diviso ha di fronte è la realtà, dal silenzio di cui sopra raccontata, d’un “dark winter”, d’un tenebroso, lungo inverno marcato dai colpi di coda d’una pandemia dura a morire, da una crisi economica profonda e dalla realtà d’una democrazia che ha vinto, sì, ma che resta ferita nell’anima.

“Unità” è prevedibilmente stata, di fronte ai cupi paesaggi di questa Nazione disunita, la parola chiave del discorso inaugurale. Una unità che, ha sottolineato Biden, ha bisogno, per tornare se stessa, di ritrovare i parametri minimi di verità e di dignità perduti negli ultimi quattro anni. “Le ultime settimane e gli ultimi mesi – ha detto Biden – ci hanno impartito una dolorosa lezione: ci sono verità e ci sono menzogne raccontate per potere e per profitto. E ciascuno di noi ha il dovere di difendere la verità e di sconfiggere la menzogna”. Concetti che, in altre circostanze, avrebbero potuto sembrare assolutamente banali. Ma che in queste prime ore del dopo-Trump, sono risuonate come assolutamente essenziali.

La domanda è: esiste l’unità che Joe Biden va cercando? Ed in quanti sono disposti ad ascoltare la verità che di questa unità è l’inevitabile presupposto? Rispondere non è facile. Donald J. Trump – ormai è un ritornello, ma vale la pena ripeterlo – non è in alcun modo stato un’aberrazione, una burla della storia. È stato – e per molti versi ancora è – il punto d’arrivo d’una crisi che parte da lontano e che, in buona misura, affonda le sue radici nella “southern strategy” – primo passo in quello che è nel tempo diventato un vero e proprio divorzio tra il fu “partito di Abraham Lincoln” e la democrazia – con la quale Richard Nixon rispose, alla fine degli anni ’60, alla vittoria della lotta per i diritti civili. Il partito repubblicano resta oggi – nonostante i tumulti ed i tardivi distinguo seguiti all’assalto di Capitol Hill – il partito del “culto di Trump”. E proprio questo l’ormai ex presidente ha da par suo ricordato, poco prima della cerimonia inaugurale del suo successore, in un breve discorso d’addio che d’addio non è in alcun modo stato.

Anche nell’abbandonare la Casa Bianca, coperto dall’infamia delle sue ultime imprese, Donald Trump è stato immancabilmente Donald Trump. Ha prevedibilmente colto l’occasione per celebrare se stesso come “creatore della più grande economia della storia del mondo” e, senza mai riconoscere la vittoria di Biden, per rimpinguare con una manciata di nuove fandonie il suo inarrivabile bottino d’oltre 30.000 menzogne (tutte verificate dagli specialisti di fact-checking lungo i suoi quattro anni di presidenza). Ma, nell’autoesaltarsi, ha anche sottolineato alcune verità. Nonostante la spettacolare ovvietà dei suoi peccati, testimoniati dalle immagini della “Maga-mob” all’assalto del Congresso, il 93 per cento dell’elettorato repubblicano resta ferocemente contrario – stando ai dati di un sondaggio Axios-Ipsos – al suo impeachment. Ed il 64 per cento continua, a dispetto di quelle immagini, a sostenerlo, mentre il 40 per cento si dichiara apertamente, non più repubblicano ma, a tutti gli effetti e senza mezzi termini, “trumpista”. Così come “trumpisti” si dichiarano ancor oggi quasi tutti i 140 deputati repubblicani (i due terzi del totale) che Trump hanno senza esitazioni seguito, nelle scorse settimane, lungo l’ignobile e menzognero declivio delle denunce di frode che hanno poi portato all’assalto di Capitol Hill. “Il movimento che abbiamo creato – ha detto Trump – è appena ai suoi inizi”. Ed è partito in direzione della Florida accompagnato dagli applausi d’una non ampia, ma entusiasta pattuglia di sostenitori che sventolavano uno striscione con la scritta “Fuck Biden”.

Il destino del partito repubblicano, o di quello che del partito repubblicano resta, è sicuramente, una delle chiavi del prossimo futuro. Ed è una chiave che, specie dopo i fatti del 6 gennaio, si muove lungo il filo di ancora illeggibili paradossi. In termini generali, le ultime presidenziali non sono andate, nonostante la sconfitta di Trump, in modo disastroso per il GOP. Sul piano nazionale il partito ha ottenuto, pur perdendo la Casa Bianca, ben 74 milioni di suffragi. Alla Camera ha recuperato molti dei seggi perduti nel disastroso “midterm” del 2018. E pur consegnando ai democratici (per via del decisivo voto della vicepresidente Kamala Harris) la guida de Senato – questo grazie anche alla sconsiderata campagna condotta da Donald Trump nei due ballottaggi della Georgia – ha pur sempre mantenuto la metà (50) dei seggi. Il suo “electoral college vantage” – il vantaggio che ai repubblicani garantisce il demenziale ma vigentissimo sistema dei collegi elettorali – è passato (cosa d’eccellente auspicio in vista delle presidenziali del 2024) dal 2 al 3,5 per cento. E nel più profondo del sistema di potere – vale a dire nei singoli stati e nelle corti di giustizia, dove più facile è manipolare la struttura elettorale del paese – la sua forza appare solo intatta, ma considerevolmente accresciuta.

Il problema è che il processo di “trumpizzazione” – i cui effetti sono stati tragicamente visualizzati, in tutto il loro orrore, dai fatti del 6 gennaio – hanno portato oggi il partito in una sorta di vicolo cieco. Storici pilastri del consenso repubblicano, come la US Chamber of Commerce, hanno apertamente sconfessato il GOP trumpiano. Ed un rilevante numero di grandi finanziatori (chiamateli, se vi va di semplificare, il fior fiore del capitalismo) ha deciso di chiudere definitivamente i rubinetti. Sheldon Adelson che di questi grandi finanziatori era, da sempre, il più generoso ed attivo, è recentissimamente passato a miglior vita. E la poderosa lobby delle armi, la NRA – grande pilastro del consenso repubblicano nella “America profonda” – sta per dichiararsi in bancarotta, travolta da una lunga serie d’assai sordidi scandali.

Il GOP appare oggi prigioniero in questa sorta di terra di nessuno, perduta tra il pre ed il post Trump. E nessuno, in questa terra di nessuno, sembra rappresentarne le contraddizioni e le incertezze meglio dell’ex vicepresidente Mike Pence, ieri presente, più volte citato e salutato dal nuovo presidente, alla cerimonia d’inaugurazione. Strana e triste storia quella di Pence. Fino all’ultimo ha servito, con impeccabile ossequio ed incurante del tanfo, il suo presidente. Sempre ubbidiente e docile, fino al momento in cui Trump lo ha voluto protagonista non solo di un golpe, ma di un golpe immancabilmente destinato al fallimento. Ovvero: fino a quando Trump ha chiesto (imposto) a lui – dalla Costituzione chiamato a formalmente dichiarare il vincitore della contesa elettorale in base ai voti calcolati dalle autorità elettorali competenti – di capovolgere a suo favore il risultato delle urne. È stato a questo punto che Pence ha, finalmente, fatto il proverbiale “passo indietro”. Ed è stato a questo punto che è diventato, per Trump e per le sue orde, un “traditore”. La forca che la “MAGA mob” ha esibito di fronte al Congresso il 6 gennaio – una forca non soltanto simbolica, stando a quel che vanno rivelando le indagini del Fbi – era proprio a lui dedicata. E proprio a lui Donald Trump ha riservato, a quanto si racconta, i suoi ultimi insulti, prima di cominciare le operazioni di trasloco da 1600 Pennsylvania Avenue.

Ieri, sulle scalinate di Capitol Hill, Mike Pence era ovviamente vestito di tutto punto, in giacca e cravatta, coperto da un elegante cappotto che lo riparava dai rigori dell’inverno. Ma avrebbe potuto tranquillamente indossare, protocollo e clima permettendo, una di quelle magliette che, spesso, si vendono in luoghi da poco colpiti da calamità naturali. “Io sono sopravvissuto all’uragano o al terremoto tal dei tali”, dicono di norma quelle magliette. E proprio questo – un bel “I survived Donald Trump” – l’ex vice presidente avrebbe potuto gridare ieri al mondo, stampato sul petto.

Quanta unità, quanta verità Joe Biden può oggi costruire con Pence e con quel che resta del partito repubblicano o, per meglio dire, con la parte (quanto grande ancora non è dato sapere) sopravvissuta alla macchina tritatutto della trumpizzazione? Non molta a prima vista. E la cosa buona è che il nuovo presidente non sembra affatto aspettare una risposta a questa domanda per cominciare ad agire. Già ieri, prima che scadesse il suo primo giorno di presidenza, Joe Biden ha, come preannunciato alla vigilia, emanato 17 “executive orders”, decreti presidenziali, che – dalla gestione della pandemia, ai programmi di vaccinazione di massa, dalla emigrazione alla questione del riscaldamento globale, dalla gestione del territorio alla questione del famoso muro ai confini col Messico – fanno concretamente i conti con alcuni dei più velenosi lasciti del trumpismo. Ed in programma c’è un piano di rilancio economico da 1.900 miliardi di dollari la cui natura “keynesiana” va in questi giorni illustrando, di fronte al Senato, il nuovo segretario al Tesoro, Janet Yellen, già acclamata chairwoman della Federal Reserve.

Sono giorni cupi quelli che l’America sta vivendo. Ma non pochi sembrano convinti che “Uncle Joe”, il più anziano ed improbabile, il più “normale” ed anonimo, il più istintivamente “centrista” dei presidenti, possa – sospinto proprio dalla gravità delle crisi che gli tocca affrontare in contemporanea e dai quattro “anormalissimi” e distruttivi anni del trumpismo – possa fare qualcosa di eccezionale e di storico. Qualcuno già crede di vedere in lui un nuovo Franklin Delano Roosevelt. Forse è una esagerazione. Forse è soltanto una pia illusione. Ma vale comunque la pena ricordare quel che, nel pieno della Grande Depressione, proprio FDR disse, agli albori della sua presidenza. “Signor presidente – gli fece notare un giornalista il giorno della presentazione del suo New Deal – se questo programma avrà successo lei sarà il più grande dei presidenti. Ma se fallisce sarà il peggiore”. “Se questo programma fallisce – rispose Roosevelt – io sarò l’ultimo dei presidenti”.

Joe Biden, in queste ore, sta probabilmente pensandola stessa cosa.

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